Meloni e Trump vogliono trasformare l’Italia nella Cina degli anni 90, ma peggio
di OTTOLINA TV (Giuliano Marrucci)
Analfoliberali e sovranisti da strapazzo hanno deciso: il destino dell’Europa è diventare la Nuova Cina, ma non quella degli anni ‘20. Quella degli anni 90, e in scala ridotta: invece della fabbrica del mondo, la fabbrica degli USA, specializzata esclusivamente in prodotti a basso valore aggiunto e a bassissimo costo (così gli USA trovano pure il modo di contenere l’inflazione). Per andare incontro al nostro destino pieni di fiducia e di speranza dobbiamo fare un paio di cose: sì, vabbè, è vero che nel 1993 lo stipendio medio italiano era solo del 10% inferiore a quello USA e oggi è poco più della metà; un po’ di strada l’abbiamo fatta, ma quando la Cina ha iniziato il suo boom lo stipendio medio cinese era un quarantesimo di quello statunitense. C’è ancora tanta strada da fare e ridurre gli europei in schiavitù non basterà: è importante anche ridurre l’Europa a una discarica, tanto che ce frega… Basta con questa ideologia green, proprio come la Cina degli anni ‘90 – che però, poi, almeno dagli anni 90 è uscita. Come dice continuamente Trump, c’hanno fregati: li volevamo schiavi a vita e, invece, mentre pensavamo di schiavizzarli preparavano la riscossa; succede così quando hai fatto una rivoluzione e c’hai un governo che fa gli interessi del popolo. Noi c’abbiamo l’Unione europea…
Carissimi ottoliner, ben ritrovati! L’ultima volta ci eravamo lasciati descrivendo come la sinofobia avesse rimesso insieme analfoliberali e analfosovranisti che fino al giorno prima si prendevano a pernacchie; oggi scopriamo che, anche a questo giro, chi s’assomiglia, si piglia. Non era sinofobia: era voglia di emulazione; e non della Cina com’è, ma della Cina come avrebbero voluto fosse e poi non è stata, tanto, alla fine, da dovergli dichiarare guerra. Ma prima di andare oltre vi ricordo di mettere mi piace a questo video e condividerlo in ogni modo possibile necessario per permetterci di combattere anche oggi la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi; e, già che ci siete, se non lo avete ancora fatto anche di iscrivervi alle nostre pagine su tutte le piattaforme e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi Giorgia Meloni ad andare in ginocchio a Washington ogni volta che c’è da ricevere un nuovo ordine, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare a demolire, pezzo dopo pezzo, il muro della propaganda che vi vorrebbe a cucire scarpe 12 ore al giorno a 3 euri l’ora per difendere la libertà e la democrazia.
Mentre gli inservienti occidentali cercano di conoscere i desiderata dei nuovi padroni di Washington per servirli meglio, nel Sud globale si va dritti al cuore della vera partita in ballo. Dilemmi dell’umanità: è così che si chiama la conferenza internazionale che si è tenuta gli scorsi giorni a San Paolo, in quel Brasile che si sta preparando per accogliere a luglio il diciassettesimo vertice annuale dei BRICS, il primo con l’Indonesia come partner ufficiale. La conferenza è giunta alla sua quarta edizione e vede la partecipazione di diverse decine di funzionari, alti dirigenti e intellettuali da 20 Paesi diversi del Sud globale, dal ministro dell’economia del Brasile Fernando Haddad al russo Yaroslav Lissovolik, direttore di Sberbank Investment Research; dall’ex vicepresidente della New Development Bank Paulo Nogueira al presidente dell’istituto brasiliano di geografia e statistica Marcio Pochmann, che chiarisce subito la posta in gioco: “Siamo nel mezzo della più grande trasformazione dal XIV secolo” dichiara nel suo intervento. Allora, ricostruisce Pochmann, l’Europa impose il suo progetto di modernità all’intero pianeta, un progetto che si fondava sul potere delle armi, lo sfruttamento del lavoro schiavistico e la guerra come mezzo per conquistare e dominare popoli e territori, “un progetto che ora sta definitivamente crollando a causa delle sue contraddizioni interne” afferma Pochmann, che fa la domanda del gol: “Quello che ci dobbiamo chiedere è quale sia la nostra risposta al crollo di questo progetto di modernità”.
Nelle stesse ore, a Tegucigalpa, la capitale dell’Honduras, si riunivano i massimi vertici dei 33 Paesi che fanno parte della CELAC, la Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici; dall’alto del nostro suprematismo, alle nostre longitudini manco sappiamo che esiste, ma forse faremmo meglio a saperlo: parliamo di 630 milioni di persone, con un PIL complessivo di 6.600 miliardi, con sotto al culo il 20 per cento delle riserve mondiali di petrolio e il 25 dei minerali strategici e che, in mezzo a millemila contraddizioni, grazie a una nuova classe dirigente determinata a riaffermare la sovranità democratica e popolare dei rispettivi Paesi – come la presidente messicana Claudia Sheinbaum e il presidente colombiano Gustavo Pedro – hanno portato a casa una dichiarazione congiunta che sottolinea l’importanza di procedere alla cooperazione regionale per resistere al ricorso sistematico degli USA a misure commerciali e a sanzioni unilaterali come strumenti di una guerra economica volta a limitare la libertà dell’America Latina di esercitare una qualsiasi forma di sovranità. “Se rimaniamo separati” ha dichiarato il presidente brasiliano Lula “le comunità latinoamericane e caraibiche corrono il rischio di tornare alla condizione di zona di influenza in una nuova divisione del globo tra superpotenze”; “La nostra autonomia è di nuovo in gioco” ha continuato: “I tentativi di ripristinare vecchie egemonie incombono sulla regione” e, quindi, “Il momento esige che mettiamo da parte le nostre differenze e mettiamo in campo un programma d’azione strutturato per ridefinire in modo democratico il posto nell’ordine globale emergente che vogliamo per l’America Latina e i Caraibi”.
Insomma: un’idea di multilateralismo e di integrazione regionale diametralmente opposta a quella dell’Unione europea. Se nell’Unione europea l’integrazione è stata uno strumento per imporre un vincolo esterno in grado di obbligare i singoli Paesi a riforme antipopolari che mai sarebbero riuscite ad affermarsi nell’ambito dell’esercizio della sovranità popolare e democratica, qui la cooperazione è vista come uno strumento necessario proprio per rendere l’esercizio di quella stessa sovranità veramente concreto. Insomma: unirsi per resistere insieme alla strapotenza delle oligarchie finanziarie invece di obbligare i Paesi ad arrendersi in silenzio, ma non solo. La CELAC, infatti, è solo una delle tante organizzazioni regionali che si stanno rafforzando in questa lunga transizione verso un nuovo ordine multipolare, come l’ASEAN nel sud-est asiatico, l’Unione africana, l’Unione economica eurasiatica o il Consiglio dei Paesi del Golfo. La dichiarazione di Tegucigalpa sottolinea la necessità di lavorare il più possibile per creare una forma di coordinamento tra queste istituzioni regionali multilaterali e costruire una sorta di resistenza globale all’arbitrarietà dell’impero. E indovinate un po’ quali sono gli unici due Paesi ad essersi rifiutati di firmare la dichiarazione? Esatto: il primo è il Paraguay di Santiago Pena e il secondo, immancabile, l’Argentina di Javier Milei, i Meloni del Sudamerica. Più che leader dei rispettivi Paesi, segretari della sezione locale dell’internazionale trumpiana che in agenda hanno una sola vera battaglia: sostenere la shock therapy trumpiana nella speranza che l’imperialismo al servizio delle oligarchia possa riconfermare il suo dominio globale anche dopo che la globalizzazione neoliberista è stata definitivamente asfaltata.
Organizzarsi per resistere alla nuova fase protezionista del solito vecchio imperialismo, per il Sud globale, ancora prima di una scelta, è l’unica opzione possibile: nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, si tratta di Paesi fortemente indebitati con l’estero e quel debito, nella stragrande maggioranza dei casi, è tutto denominato in dollari, dollari che (fino ad oggi) questi Paesi accumulavano attraverso le esportazioni che, con lo scoppio della guerra commerciale mondiale dichiarata da Re Donald, però rischiano di crollare a picco. Così, a occhio, non sembra esattamente una genialata: il vecchio Washington Consensus fino ad oggi ha servito molto bene gli interessi delle oligarchie occidentali, che prestavano dollari al Sud globale a tassi usurai e che, con il sostegno di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, imponevano ai Paesi indebitati cure lacrime e sangue; se ora togli ai Paesi indebitati la possibilità di guadagnare col sudore i dollari che gli servono per ripagarti, è un po’ come darsi la zappa sui piedi, che è uno dei tanti motivi per cui i grandi banchieri USA, a partire da Jamie Dimon di JP Morgan, la più grande banca commerciale privata del mondo, non è mai sembrato proprio entusiasta della guerra commerciale mondiale dichiarata da Trump. Dona’, se questi non incassano più dollari attraverso le esportazioni, come mi pagano? Ma sono solo dei pusillanimi: non capiscono il piano di Re Donald e non sono disposti ad accollarsi i sacrifici che comporta.
Il punto è che gli USA di Trump non si possono più accontentare semplicemente di campare di rendita rastrellando soldi in giro per il mondo per i loro finanzieri e i loro banchieri: il vecchio dominio basato sul soft power e sulla finanza non è in grado di assorbire le scosse causate dall’ascesa del nuovo ordine multipolare; gli USA di Trump, allora, guardano all’impero britannico del XIX secolo e si chiedono perché loro, per dissimulare il loro dominio, dovrebbero essere costretti a inventarsi tutti questi raffinati sotterfugi e non possono, invece, semplicemente schiavizzare i popoli inferiori con la forza bruta come si faceva ai bei tempi andati, quando il dominio dell’uomo bianco era considerato giustamente una realtà naturale e non c’era bisogno di fare grandi supercazzole. Non a caso, il presidente più citato da The Donald è nientepopodimeno che il buon vecchio William McKinley, un suprematista tutto d’un pezzo che durante la sua presidenza a fine ‘800 invase e colonizzò una quantità considerevole di Paesi, da Porto Rico alle Filippine, passando per l’isola di Guam. Il problema della vecchia classe dirigente liberale è che non vuole ammettere che la lunga fase del superimperialismo avviata da Nixon, prima, con la fine del gold standard, e da Reagan e Paul Volker, poi, con la controrivoluzione neoliberista vera e propria, è finita, fallita; e se gli USA vogliono sopravvivere, devono trovare un altro modo per rilanciare il loro dominio imperiale, costi quel che costi, compreso tornare al caro vecchio colonialismo.
Per le vecchie classi dirigenti è un vero e proprio trauma: hanno impiegato decenni per imporre l’egemonia di un’ideologia (completamente farlocca) che era riuscita a far passare il vecchio dominio imperialista come una sorta di ordine fondato su regole condivise e universali: ci hanno investito talmente tante energie che, alla fine, ci credevano pure loro. Se, magari, non proprio quelli che stavano in cima alla catena alimentare, quelli immediatamente sotto: dalle classi dirigenti dei Paesi vassalli – come la sinistra ZTL dei Serrapiattisti Vecchioni e Benigni – ai loro stessi figli, i rampolli che frequentano la Ivy League che di fronte al primo genocidio in diretta streaming armato e sostenuto dai loro genitori sono andati completamente in cortocircuito, come ai tempi del Vietnam. Come ai tempi del Vietnam, i leader autenticamente popolari del Sud globale, invece, hanno le idee piuttosto chiare: sanno benissimo che il vecchio ordine fondato sulle regole non è mai stato altro che un modo gentile per dissimulare il caro vecchio dominio imperialista e sanno anche che, una volta entrato in crisi quell’ordine, per mantenere l’ordine imperiale ogni forma di violenza è concessa, a partire dalla normalizzazione del genocidio come strumento legittimo di politica internazionale. Allo stesso tempo, però, sanno anche che – mai come a questo giro – resistere è possibile e, forse, addirittura vincere perché, a questo giro, c’è una cosa che nelle precedenti fasi di crisi sistemica era sempre mancata: una vera alternativa; e quell’alternativa si chiama Repubblica Popolare di Cina.
Per la prima volta dopo 5 secoli di dominio incontrastato delle potenze colonialiste e imperialiste, la stragrande maggioranza dei Paesi del pianeta si ritrova come principale partner commerciale un Paese che appartiene al Sud globale: agli occhi dei leader più autenticamente popolari del Sud globale, la Cina rappresenta sia un esempio che una soluzione; l’esempio di cosa è necessario fare per dotarsi degli strumenti che permettono concretamente di esercitare una vera sovranità e una soluzione concreta contro le ritorsioni che l’impero mette sistematicamente in campo contro chiunque ambisca davvero a ritagliarsi una vera sovranità. Come dimostra il caso russo e il clamoroso fallimento della gigantesca mole di sanzioni messa in campo all’unisono da USA e vassalli vari, per la prima volta oggi è possibile sopravvivere alle ritorsioni dell’impero rivolgendo lo sguardo ad est: ecco perché impedire agli altri Paesi anche solo di guardare ad est, per l’amministrazione Trump è diventata la priorità assoluta. E i sovranisti de noantri obbediscono: “Guardare a est è un errore” ha dichiarato la nostra Georgie dai biondi capelli dorati, che si appresta ad andare per l’ennesima volta in pellegrinaggio alla corte di Mar-a-Lago con in dote qualcosa di più che semplici dichiarazioni.
A elencare i 3 atti di fede che Georgie dovrebbe sottoporre a Re Donald in cambio della grazia ci pensa il Giornanale. Uno: come prima cosa dovremmo ricordare a Re Donald che l’Italia è una portaerei USA nel cuore del Mediterraneo e che noi siamo ben felici di offrire tutta l’assistenza necessaria per assistere gli USA nel loro tentativo disperato di limitare l’influenza russa e cinese nel continente africano. Due: già durante l’amministrazione Biden, Georgie dimostrò di avere più a cuore la fedeltà verso Washington che l’interesse nazionale stracciando l’adesione dell’Italia alla via della seta cinese firmata da Daddy Conte; per limitare i danni, però, allora si decise di rimettere mano al partenariato strategico globale tra Italia e Cina avviato nel 2004 dal governo Berlusconi, per rafforzarlo. Secondo il Giornanale, oggi “a Palazzo Chigi si ragiona dell’opportunità di rivedere il piano d’azione per il rafforzamento del partenariato strategico globale Cina-Italia”. Tre: avete presente la guerra senza frontiere che Trump ha dichiarato alla presenza di soci cinesi nella gestione dei porti di mezzo mondo? Trump teme che i dazi, da soli, non siano sufficienti e che sia necessario intervenire con forza anche sulla logistica; per sua fortuna, buona parte dei porti in mano ai cinesi, in realtà, erano in mano a una mega-corporation di Hong Kong che è più vicina agli interessi delle oligarchie imperialiste che al governo di Pechino. Risultato: quella mega-corporation, che si chiama Hutchison, ha provato a fregare la Cina vendendo i porti che gestiva, a partire da quelli che si affacciano sul canale di Panama, nientepopodimeno che a BlackRock; ora Pechino sta provando a bloccare l’operazione.
Ma noi, caro Donald, ci avevamo pensato prima, quando abbiamo fatto saltare le trattative per il porto di Trieste perché, come sottolineava il ministro della deindustrializzazione italiana Adolfo Urso, l’Italia non sarà “consegnata nelle mani dei cinesi”; d’altronde, come scrive sempre sul Giornanale un resuscitato Gennarino Sangiuliano, “il futuro non passa da Oriente”: il punto, sostengono maggioranza di governo e propaganda filogovernativa, è che mentre i cinesi ci fanno concorrenza, gli statunitensi comprano le nostre merci. In effetti, contro i 16 miliardi di export verso la Cina, nel 2024 gli USA hanno comprato oltre 65 miliardi di merci italiane: per continuare a garantirci quei 65 miliardi, però, negli ultimi anni abbiamo dovuto rinunciare al gas a basso costo russo, alle esportazioni in Russia e anche ai 30 miliardi di contratti che avevamo ottenuto in Iran prima che gli USA imponessero di nuovo le sanzioni (giusto per fare qualche esempio spicciolo) e oggi siamo pronti a rompere i rapporti con l’unica vera grande superpotenza manifatturiera globale – che, in prospettiva, è anche il mercato in più rapida espansione del pianeta -in cambio di un mercato che si regge tutto sull’indebitamento dei consumatori e che si avvia a una recessione disastrosa; siamo proprio proprio sicuri sia una genialata? Qualche sospetto nelle settimane scorse sembrava aleggiasse anche nei corridoi delle cancellerie europee – o, almeno, era quello che voleva credere la sinistra ZTL italiana, che ieri ha raccattato l’ennesima delusione: “Niente asse con la Cina” ha dichiarato il commissario Ue Sefcovic da Washington.
Al di là delle polemichette, la rotta sembra tracciata: invece di approfittare della crisi sistemica del centro imperiale per mettere fine alla grande rapina delle oligarchie finanziarie USA e contribuire alla costruzione di un nuovo ordine multipolare rispettoso dei popoli e degli interessi nazionali, un pezzo consistente d’Europa (a partire dalla nostra Georgie) sembra voler approfittare di questa fase per portare finalmente a compimento quel disaccoppiamento dalla Cina tentato da rimbamBiden, ma poi miseramente fallito; e, a quel punto, a diventare la Nuova Cina dovremmo essere noi. L’idea di Trump di reindustrializzare gli USA, infatti, ha dei limiti piuttosto evidenti: dopo 50 anni di iper-finanziarizzazione, tornare indietro potrebbe rivelarsi più difficile del previsto, soprattutto per i settori a più basso valore aggiunto. Salari troppo alti, troppa poca manodopera, troppe rendite parassitarie da soddisfare: tutto rema contro. Per creare un mondo separato dalla Cina, gli USA non si possono bastare: hanno bisogno di possedimenti coloniali politicamente subordinati dove sia possibile rilocalizzare il lavoro sporco e l’Europa sembra determinata a candidarsi in questo ruolo. Un po’ di delocalizzazioni europee negli USA avverranno, è inevitabile, ma riguarderanno soltanto alcuni settori strategici e a maggiore valore aggiunto; da noi non avverrà una vera e propria desertificazione, altrimenti poi i dollari per continuare a comprare il debito USA da dove li prendiamo? Saremo – appunto – la Nuova Cina, che continua ad avere una bilancia commerciale attiva, ma solo grazie all’esportazione di merce a basso valore aggiunto e a basso costo, che permette agli USA di contenere l’inflazione: con la Cina, poi, quella scommessa è stata persa perché la Cina ha accettato quel ruolo solo temporaneamente, per uscire dal sottosviluppo; nel frattempo, però, grazie al ruolo dello Stato, usava i soldi per consolidare una vera indipendenza e sovranità nazionale. Da noi, invece dello Stato, c’è l’Unione europea, che è fatta apposta per impedirci di perseguire una qualche forma di sovranità.
Per diventare la Nuova Cina dell’impero, però, l’Europa deve fare un paio di cose: la prima è contenere i salari. Negli ultimi 30 anni abbiamo già fatto del nostro meglio: nel 1993 lo stipendio medio dei lavoratori italiani era di poco meno di 50 mila dollari (solo 5 mila in meno rispetto agli USA); nel 2023, lo stipendio medio negli USA è salito a 80 mila dollari e in Italia è sceso a 48 mila. Nessuno in Europa ha fatto male quanto noi, ma la dinamica è comunque la stessa: da stipendi più o meno uguali, a stipendi che sono tra il 20 e il 40% inferiori, ma siamo sicuri che in mano alle von der Leyen e alle Meloni nei prossimi anni riusciremo a fare ancora di meglio assai. Ma contenere i salari da solo non basta; proprio come la Cina durante gli anni più sregolati del primo boom, c’è un’altra cosa fondamentale: azzerare regole e burocrazia. Lo raccontava bene Milena Gabanelli ieri sul Corriere della Serva: “Le regole dell’Europa non gradite a Donald”; “Washington vuole il via libera a carne con ormoni e pesticidi. Stop alle etichette trasparenti e alle multe per le big tech”, scrive. “Norme volute dall’Ue per tutelare salute, lavoro e libertà”; ovviamente, una cazzata propagandistica ce la doveva mettere per forza: all’Unione europea di salute, lavoro e libertà, ovviamente, non gliene può fregare di meno. Ciononostante, il nocciolo della questione rimane quello: l’Ue, per proteggere (giustamente) le sue aziende, ha imposto regolamenti sempre più stringenti su tantissimi fronti, a partire dal rispetto della privacy e alle regole antitrust che dovrebbero penalizzare il modello predatorio e monopolistico che ha reso invincibili i colossi del big tech made in USA, ma soprattutto, appunto, tutte le regole ambientali e di tutela della salute dei consumatori che per diventare la Nuova Cina sono un fardello insostenibile.
Capito a cosa serve tutta l’indignazione popolare contro la cosiddetta ideologia green? Come sono bravi gli USA a infilarti in testa le puttanate che fanno comodo alle loro oligarchie, nessuno mai… Pensavate fosse senso critico contro il pensiero unico della dittatura liberale; era la preparazione del terreno culturale per trasformarci definitivamente nella capitale mondiale del lavoro schiavistico per mantenere il nuovo impero coloniale USA: questo il destino che ci aspetta se continuiamo a tenerci una classe dirigente che è stata scientificamente selezionata per servire tanti interessi diversi, tranne quello generale delle rispettive Nazioni, ed è il motivo per il quale, a questo giro, non ci daremo pace fino a che non li avremo mandati #tuttiacasa. Per farlo serve una grande mobilitazione popolare, ma per scatenarla, prima, e sostenerla, poi, serve come il pane un vero e proprio media che faccia a pezzi la propaganda tanto di analfoliberali quanto di analfosovranisti e dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Adolfo Urso
Commenti recenti