Stati Generali: Conte sotto esame vende fumo, mentre la Bce francese corre più veloce del Mes
da TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Musso)
Alla stazione di Berlino c’erano tre treni. Il primo, carico di guastatori, è partito diretto verso l’Unione Europea Monetaria (Uem); il secondo, carico delle promesse del Recovery Fund, è partito diretto verso l’Unione europea (Ue); il terzo, con a bordo la Troika, è fermo sul binario morto… Più probabile arrivi a destinazione la Bce francese che il Mes…
Il treno dei guastatori – Il primo treno, quello dei guastatori, truppa scelta da Karlsruhe, fa leva sull’apparente indocilità di Bce a sottomettersi e prosegue indefesso verso l’obiettivo finale.
Nel frattempo, Bce francese lancia segnali. Da un lato, continue provocazioni verso Bundesbank: l’ultima giovedì, quando il capo economista Philip Lane ha definito il PSPP (oggetto della sentenza tedesca) “open-ended” (in flagrante contraddizione con la stessa sentenza). Dall’altro, segnali d’amore verso l’Italia: non pare voler pretendere, in cambio del QE o del PEPP, nuove riforme strutturali stile Troika… d’altronde non avrebbe senso uccidere la domanda aggregata italiana, più di quanto si sia fatto sinora, giacché debito estero e saldo commerciale esterno italiani sono più che in sicurezza; al contrario, il debito estero francese oggi è simile a quello italiano del 2011, ma la Francia si terrebbe Bce anzitutto al fine difensivo di evitare a se stessa la cura Monti. Con buona pace degli ultimi Austeriani de’ noatri.
Mentre la FAZ pubblica una corrispondenza da Parigi, per avvertire che Macron avrebbe ripreso ad ascoltare “euroscettici” come Jean-Pierre Chevènement, Hubert Védrine, Philippe de Villiers persino, e ricorda l’ormai antico allontanamento del “germanofilo” Gérard Collomb.
Il treno delle promesse – Il secondo treno, quello delle promesse del Recovery Fund, porterebbe in Italia anticipi di cassa per 173 miliardi, spalmati il 6 per cento nel 2021, il 16 per cento nel 2022, il 50 per cento nel 2023-2024, il resto sino al 2026 (un ritardo ormai ammesso da chiunque, Tremonti, Fubini, Verderami, il Pd, Gentiloni, Conte persino). A fronte di un esborso futuro per 65 miliardi a titolo di contributi, che Penati definisce debito “tout court”, oltre ad altri 91 miliardi di debito vero e proprio, nonché un “regalo” di 17 miliardi netti (Perotti), ma solo se la Commissione avrà approvato i nostri progetti di investimento (giacché, di spesa corrente, non se ne parla).
In una video conferenza martedì 9 giugno, i ministri dell’economia hanno potuto recitarsi a vicenda la rispettiva litania di obiezioni: da quanti soldi, a chi li prende, a chi li paga, alle condizionalità, tutto insomma; essendo ancora aperte (e nonostante una incessante serie di riunioni a livello diplomatico) tutte le alternative che già descrivemmo su Atlantico. Ci limiteremo qui a segnalare: come la giovanilistica idea che al rimborso possano provvedere nuove tasse comunitarie stia rapidamente venendo meno, di fronte alla netta opposizione americana ad una eu-digital-tax; come l’Ecofin non abbia nemmeno abbordato il tema del bilancio pluriennale 2021-2027, del quale il nuovo strumento è parte; come i Paesi dell’Est accetterebbero di non essere beneficiari netti della componente straordinaria, solo a fronte di forti benefici nella componente ordinaria del bilancio pluriennale; come la Francia non paia avere veramente l’intenzione di servire da contribuente netta; come la Germania abbia già provveduto a ridurre il progetto di 1/3, dicendosi contraria alla componente prestiti (Conte fa lo struzzo e parla ancora di “170 miliardi” per l’Italia); come all’opposizione di Olanda ed Austria si sia aggiunta la Finlandia. Un rebelotto tale, da aver costretto i tifosi a sottolineare, non il contributo economico, bensì quello politico ad una supposta trasformazione federalista delle istituzioni europee (Vittorio Grilli, Monti, Centeno…).
I tifosi hanno, così, offerto il destro alla Svezia (che dell’Euro non fa parte), per augurare buona fortuna e sottrarsi “tout court”: il massimo che il ministro Andersson e l’ex ministro Pagrotsky sarebbero disposti a cofinanziare, pure con modesti scompensi fra i soldi dati e ricevuti, è “il normale funzionamento del mercato unico”; concetto che potremmo tradurre come: tutto ciò che la Ue potrebbe fare pure senza la Uem. La stessa Germania, d’altra parte, scegliendo di far transitare il cosiddetto Recovery Fund dal bilancio Ue, non può aver avuto un pensiero diverso: cosa mai c’entra la “la transizione ecologica o digitale” con la moneta unica? Infine, i Paesi teoricamente beneficiari tendono a rifiutare una condizionalità macroeconomica, mentre potrebbero più facilmente accettare una condizionalità per progetti di spesa, come già è per i normali fondi europei. Eventualmente accompagnata da una revisione delle procedure nazionali di spesa e controllo, come sembrano suggerire Moavero e Grilli.
Non saremmo sorpresi, dunque, se il risultato finale fosse molto “svedese”. La Ue, senza la Uem, può benissimo cofinanziare un nuovo valico alpino; ovvero l’infrastruttura informatica (come propone pure Alain Minc, ad esempio l’ultima iniziativa franco-tedesca detta Gaia-X, una sorta di piattaforma dei cloud). Senza che l’Italia contribuente netto, divenga mai beneficiario netto.
Quando la presidenza semestrale tedesca otterrà l’accordo politico dei 27, lo immaginiamo: in corrispondenza con l’uscita di Bundesbank dal QE, in modo da rispondere alla quasi fine della Uem con un investimento sulla Ue. Così da offrire ai tifosi una risposta pronta nei talk show.
Il treno della Troika – Il terzo treno, quello con a bordo la Troika, è fermo sul binario morto. Gravato dall’intera condizionalità macroeconomica del relativo Trattato, inutile ad attivare lo Omt, quest’ultimo comunque non illimitato, come già segnalammo su Atlantico; ciò fa certamente premio su un vantaggio di tasso modesto, ma comunque incerto ed esorbitante rispetto allo status di creditore privilegiato.
Certo, il Tesoro italiano ha inviato la lettera di adesione ai prestiti del programma SURE di sostegno alla cassa integrazione, come già autorizzato dal Parlamento. Ma qui non vi sono condizionalità macroeconomiche annesse al trattato, e la destinazione dei fondi è univoca, immediata e certa.
Certo, il Tesoro italiano non ha sin qui profittato del PEPP per finanziare il nuovo debito necessario (nonostante il favore del mercato): incerto della tenuta di Bce – come spiegava a fine maggio a Le Monde Shahin Vallée, molto vicino a Macron – si teneva pronta la cartuccia del Mes; ma a malincuore ben sapendo che si trattava di “accettare una messa sotto tutela, come Atene l’ha già vissuta dieci anni orsono”.
Certo, il Pd coltiva una passione perversa per qualunque cosa assomigli ad una Troika, nella logica dichiarata da Stefano Folli: “Aderire al Mes significa entrare in un percorso ben definito, ancorando l’Italia a criteri precisi per la gestione futura del debito (…) nel momento in cui la Bce pone in atto uno sforzo poderoso con l’assenso, si suppone, delle maggiori capitali dell’Unione”. Si suppone… beh, Folli suppone male. Siccome non tutti hanno le fette di salame sugli occhi, non ci si può stupire che Conte prosegua rinviando, nell’attesa di poter dire: “Non serve, tanto ci pensa la Bce francese”. Mentre il 5 Stelle incassa una nobile vittoria e il Fatto Quotidiano può far dire all’ottimo Palombi: “Lagarde archivia il Mes”.
Le discussioni a titolo “Mes” che ancora si svolgono, paiono mascheramenti del reale dibattito in corso. Poiché non pare possibile che il ministro Speranza creda veramente di poterci finanziare imprese e trasporti, l’Abi la riduzione dell’Ires. Annota Liturri: “La immaginate la faccia del funzionario che dovrà attestare che trattasi di costi indirettamente connessi alla crisi da Covid-19?”. Chiosa Tremonti: “Finirà che finanziamo poco più delle mascherine”.
I Soldi dell’Europa – Non sappiamo se i primi due treni giungeranno a destinazione. Dubitiamo parta mai il terzo perché, in tal caso, l’Italia potrebbe sempre agire d’anticipo imponendo il controllo movimento dei capitali e facendo da sé (come abbiamo detto su Atlantico, e come ha ribadito Hans Werner Sinn, in un testo curiosamente recensito da Vincenzo Visco sul Sole giovedì). Tuttavia, abbiamo fiducia nei guastatori tedeschi, al punto che vien da chiederci se i soldi che, a Roma, stanno ad aspettare non siano quelli di Bce francese. Ciò spiegherebbe una certa schizofrenia apparente, di Moavero ad esempio, il quale dice di prepararsi ad investire comunque, a prescindere dallo stallo dalla trattativa in corso a Bruxelles; nonché una certa indifferenza alla drammatica crisi economica in corso, come se si sapesse che i soldi ci saranno, in autunno. Per farci cosa?
Ricapitalizzare le banche, magari, venendo incontro al regolatore che, nel frattempo, ha mostrato un evidente cambio di passo: d’altronde banche meglio capitalizzate avranno meno difficoltà ad utilizzare le garanzie già offerte dallo stato sui prestiti alle imprese; inoltre le regole della banking union erano de facto dirette ad impedire interventi ai Paesi ad alto debito, il che non avrebbe più senso nel mondo della monetizzazione.
Finanziare la reindustrializzazione, pure: trasferimenti ad aziende partecipate dallo stato, plausibilmente quotate, magari franco-italiane, secondo un modello che diremmo neo-gollista e che la monetizzazione del debito (presente e futuro) renderebbe di nuovo possibile. Borsa Milano, ad esempio, potrebbe presto fondersi con Borsa Parigi-Euronext, controllata all’8 per cento dalla Cdp francese, alla quale si affiancherebbe una partecipazione di Cdp italiana.
Investire in infrastrutture. Così Conte recita una litania di Alte Velocità (Genova-Roma, Milano-Venezia, Roma-Pescara, Roma-Ancona, poi giù sino alla Sicilia rimandando solo il Ponte sullo Stretto), porti, reti idriche… da far apparire un dilettante il Berlusconi del “contratto con gli italiani”. Ma, allo stato, disporrebbe solo di una lista di titoli su un foglio excel. Il piano Colao recita: “Lo sviluppo ubiquo della rete in fibra ottica è la priorità assoluta”. Conte parla di 120 miliardi “già stanziati” (gergo politichese che sta per “non finanziati”). Il Ministero delle infrastrutture avrebbe una lista di opere da 196 miliardi, dei quali 84 non avrebbero bisogno di progetti e autorizzazioni, in teoria. I restanti 113 invece questo bisogno certamente lo hanno, dunque sono almeno 7-8 anni distanti dall’apertura dei cantieri. Annota il Sole 24 Ore: “Il vero nodo è nel taglio ai tempi di autorizzazione che sono a monte della gara: progettazione, valutazione di impatto ambientale, autorizzazioni paesistiche”, oltre che nella definizione genericissima dei reati di abuso di ufficio e danno erariale. Il piano Colao parla di “burocrazia difensiva” e suggerisce la via, promettente, dell’autocertificazione e del silenzio assenso; mentre aggira l’ostacolo della riforma penale per la via, timida ed assai meno promettente, della responsabilizzazione gerarchica del funzionariato, previa assegnazione di una polizza assicurativa alla dirigenza contro i rischi del danno erariale.
La banda Nimby e la banda Onestah – Si narra che Conte cianci di abbattere i tempi da 7-8 anni a 6-12 mesi, venerdì ha detto “5 settimane” addirittura; in subordine, un “semestre (o forse anno) bianco, in cui sperimentare nuove procedure eccezionali ed emergenziali che azzerino la burocrazia”. Ma non v’è chi non veda la reazione del politico o dell’elettore del Partito democratico e/o grillino, di fronte alla imposizione del silenzio assenso alle soprintendenze, di fronte alla abolizione del reato di abuso d’ufficio. Già oggi suona la “banda Nimby” di chi vorrebbe investire tutto in ciclabili e monopattini elettrici ovvero in “un milione di alberi”, mentre la “banda Onestah” si riscalda ai margini del campo. Un assaggio lo offrono il ministro 5 Stelle Catalfo che vuole finanziarci “la riduzione del gap salariale uomo/donna e il salario minimo”, il ministro Di Maio che vuole finanziarci “l’abbassamento delle tasse”, Boeri e Perotti contrari alla Tav e favorevoli a “costruire tanti campetti di calcio e di pallacanestro”, Penati che semplicemente dice che ad investire non siamo capaci e paragona Conte direttamente a Luigi XVI ghigliottinato. La loro prevalenza finirebbe per impedire qualsiasi investimento sensato. Vana, al riguardo, pare la speranza di redimerli, da taluni attribuita a Conte, infine condannato “alla linea dell’ascolto” da celebrarsi in un curioso happening detto “Stati Generali”. Happening ufficialmente prodromico ad un Piano Nazionale di Riforma inquadrato in “un piano condiviso dell’azione di governo collegato al Piano Nazionale delle riforme” (qualunque cosa questa espressione significhi) da presentarsi “in settembre”, ufficiosamente volto a “mandare un segnale forte all’Ue”, invero utile ad illudere il pubblico di avere la banda Nimby e la banda Onestah in pugno, cioè di essere ancora politicamente vivo. In una parola, il partito grillino e/o il giustizialismo democratico non paiono adeguati al nuovo assetto esterno cui il nostro Paese potrebbe presto appartenere. Meglio sarebbe innestare il sostegno delle destre, nota Tremonti, meglio con elezioni ma in subordine pure senza, avendo cura di evacuare i (primi) ministri-turisti. Non sapremmo dargli torto.
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