Il prossimo fronte che rischia di accendersi nell’ambito dell’invasione russa dell’Ucraina è quello della Transnistria. “Transnistria” è in realtà un’espressione geografica, che indica appunto la parte di Moldavia “al di là del Nistro”. La regione dichiara la propria indipendenza, con il nome di Repubblica Socialista Sovietica di Pridnestrovia, nel 1990, poco dopo un’analoga dichiarazione da parte della Repubblica Socialista Sovietica Moldava, di cui aveva fatto parte sin dalla sua costituzione. Nel conflitto militare che segue tra le due neonate Repubbliche, le forze della Transnistria (regione con una forte presenza etnica russa, “annessa” da Lenin alla Moldavia, e ostile al nazionalismo moldavo/romeno) vengono supportate dalla 14esima armata russa del generale (e poi segretario del Consiglio di Sicurezza russo) Alexander Lebed‘, che è oggi considerato uno degli eroi della nazione.
Il conflitto termina con un cessate-il-fuoco mediato da Mosca, ma la Transnistria non viene riconosciuta internazionalmente (neanche dalla Russia) e la fisionomia che il conflitto assume è quella di una guerra civile “congelata” all’interno della Moldavia. I vari tentativi di risolvere la disputa, con un formato simile a quello degli Accordi di Minsk in Ucraina, falliscono uno dopo l’altro.
Perché il conflitto rischia di riaccendersi ora? Principalmente, perché la Transnistria, che confina con l’Ucraina, ospita due contingenti di truppe russe. Il primo si trova al confine con la Moldavia, in una forza di peacekeeping mista, e conta circa 400 uomini. Il secondo invece, di circa 1000-1500 uomini, è stanziato intorno al villaggio di Kobasna, che ospita il più grande deposito di munizioni in Europa. Munizioni provenienti da tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia.
Dallo scoppio del conflitto, in diverse occasioni si è guardato con preoccupazione a segnali premonitori di un allargamento del conflitto alla Moldavia. A inizio marzo, il Governo moldavo nominato dalla presidentessa Maia Sandu ha presentato, insieme alla Georgia, una richiesta all’UE per una procedura speciale di entrata nell’Unione. Poco dopo, il Governo transnistro ha chiesto ufficialmente alla comunità internazionale (alla Russia) il riconoscimento del suo status di Repubblica indipendente. Non era la prima volta che Tiraspol avanzava una simile richiesta, che è comunque stata ignorata. In un’altra occasione, il presidente bielorusso Lukashenko ha destato scalpore mostrando (per sbaglio o volontariamente?) una mappa delle operazioni militari in cui una delle direttrici, da Odessa, puntava proprio alla costruzione di un corridoio verso la Transnistria. Corridoio che è stato auspicato anche dal comandante del Distretto Militare Centrale russo, Rustam Minnekayev, che ha altresì sostenuto che la minoranza russa residente in Transnistria, sia oggetto di persecuzione da parte delle autorità moldave.
Fino alla fine di aprile, però, non si sono mai registrati atti di violenza nella regione. Questo è cambiato quando ,il 25 aprile, il ministero degli Affari Interni a Tiraspol è stato colpito in un attentato con un lanciarazzi. Nei giorni seguenti sono avvenuti altri episodi di violenza e sabotaggio contro telecomunicazioni, contro l’aereoporto e nei dintorni di Kobasna.
Il Governo transnistro ha attribuito la colpa alle forze armate ucraine, affermando di aver individuato dei sabotatori che dopo gli attacchi sarebbero rientrati in territorio ucraino. Maia Sandu, da parte sua, sostiene che i conflitti siano “interni” alla Transnistria, e questo è coerente con la sua politica, messa in pratica dall’inizio del conflitto, di fare il possibile per tenere fuori la questione dalla guerra russo-ucraina, a prescindere da quale delle due parti in causa possa cercare di estendere il conflitto alla Moldavia.
Poco dopo gli attacchi, che nessuno ha rivendicato, Oleksiy Arestovich – l’ormai noto consigliere militare di Zelensky – ha lanciato un appello al Governo moldavo, dicendo che con l’aiuto ucraino si potrebbe rapidamente conseguire la riunificazione del Paese con la regione separatista. Dando quindi credito alle accuse di Tiraspol. Maia Sandu, però, ha gelato gli entusiasmi, dicendo che il conflitto con la Transnistria va risolto pacificamente, non militarmente, ed escludendo qualsiasi soluzione offensiva. Ha inoltre criticato il pessimo stato in cui versano le forze armate moldave (inferiori in numero, e probabilmente anche in equipaggiamento, rispetto a quelle della Transnistria).
La situazione resta comunque molto delicata. La Transnistria è completamente isolata dalla Russia, non avendo sbocco al mare ed essendo incuneata tra Moldavia e Ucraina (il Governo moldavo permette ai russi di rifornire il loro contingente di peacekeeping, ma è un permesso che potrebbe essere ritirato in ogni momento). Le forze transnistre e russe non sono esigue – considerando anche l’apporto quasi nullo che darebbe la Moldavia a un’eventuale offensiva ucraina – ma quanto possano resistere senza essere rifornite e rinforzate non è dato saperlo. A questo si aggiunge la prospettiva estremamente inquietante di un conflitto armato intorno al deposito di Kobasna, che in caso di esplosione potrebbe avere effetti comparabili a quelli di un’ordigno nucleare tattico.
La Russia in questo momento, impegnata in un’offensiva nel Donbass, non ha i mezzi per creare in breve tempo un corridoio verso la Transnistria, un’operazione anfibia è da escludersi, Mosca ha le mani legate da questo punto di vista. È quindi naturale che Kiev – nonostante non abbia risorse da “sprecare” cOn l’apertura di un nuovo fronte – sia tentata da un’operazione che infliggerebbe un duro colpo alla Russia. Non tanto dal punto di vista militare, quanto dal punto di vista politico: on la dissoluzione della Transnistria, il Cremlino perderebbe gran parte delle leve per influenzare la Moldavia, che si muoverebbe quindi in modo deciso verso l’orbita dell’UE e forse anche della NATO. Anche se quest’ultima opzione non è una certezza, visto che la Moldavia mantiene comunque relazioni politiche e legami commerciali con la Russia, a prescindere dalla disputa territoriale.
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