La società demo-liberista tende a deviare la rabbia e lo scontento su tutto ciò che è per lei innocuo ed anzi, proficuo. Ecco allora l’ampio e coinvolgente gioco di società delle guerre culturali. Ve ne sono diverse versioni per diversi gusti e profili socio-psico-culturali.
Uno scenario che va molto è quello conservatori vs progressisti. Si tratta di due varianze dello spettro liberale classico, dai tempi dei tories e whigs inglesi del XVII secolo o repubblicani vs democratici americani. L’impianto della società è comune e ben accetto, si tratta solo di interpretarlo in chiave culturale più tradizionale o innovativa.
Un altro scenario è quello dei generi sessuali e dei sessi. Qui la varianza è su due livelli: c’è quello sessuale maschi vs femmine (o viceversa) o c’è quello dell’interpretazione sessuale arrivato ormai ad acronimo da codice fiscale: LGBTQIA2S ovvero Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Questioning, Intersex, Asexual e Two-Spirit. Ma credo ne esistano anche versioni più complesse, basta andare su un sito porno che sono lo shopping mall (ipermercato) del settore.
Ancora un altro scenario vede i maggioritari indigeni contro vari tipi di minoranze etniche, con una variante anche rispetto alle credenze religiose.
C’è anche quello anagrafico sebbene sia poco frequentato, quello tra anziani e giovani. S’è un po’ rivitalizzato durante il Covid con gli anziani più preoccupati della possibile infezione e sue conseguenze che imponevano come standard generale restrizioni delle sacre libertà giovanili, immuni o più resilienti verso il virus o convinti di esser tali.
Riguardo il contesto generale, troviamo la guerra climatico-ambientale e quella dell’opinione sulle guerre reali.
La guerra culturale sull’ambiente è oscurata da quella specifica sul clima: il clima sta cambiando? Sì, no? Perché, cosa o chi ne è la causa? L’importante è fare finta di occuparsi della realtà e soprattutto ridurre la complessità del tema eco-logico a slogan ed obiettivi deviati ed innocui per un modo economico la cui natura entropica è autoevidente dato il Secondo principio della termodinamica.
Quanto alle guerre di opinioni sulle guerre reali, abbiamo avuto due grandi festival in sequenza, quello ucraino-russo e quello israelo-palestinese. Sul primo, filo-americani, filo-russi, filo-pacifisti a priori o a posteriori, si sono dati sanguinosa battaglia per qualche mese, poi il filone della passione combattente si è esaurito. La guerra in quanto tale è andata avanti e soprattutto è andata sempre peggio per i filo-ucraini che non avevano mai sentito parlare di Ucraina e forse neanche sapevano dove trovarla sulla cartina. Poiché le guerre culturali sono mosse da posizioni morali effimere, l’attenzione si consuma presto, se poi il corrispondente concreto va anche male, meglio dimenticarle. Anche per non fare i conti di responsabilità con la tonnellata di stupidaggini che si sono dette, anche urlando con rabbia ed arrivando ad un niente dal voler mettere le mani addosso all’avversario d’opinione.
Il secondo festival è esploso in una baraonda di opinioni etno-religiose con nazisti, antisemiti, Shoa, minaccioso islam armato, grandi satana, civiltà vs barbarie et varia. A soli sessanta giorni dall’inizio del festival abbiamo: 1200 morti e 5000 feriti israeliani, 16.000 morti e 45.000 feriti stimati tra i palestinesi. Come inascoltati sostenevano all’inizio della tempesta, è oramai certo che -ovviamente- i vertici di Israele sapevano in anticipo dell’azione di Hamas&Co. È altrettanto chiaro come inascoltati sostenevano sin dall’inizio che il problema per Israele non era affatto Hamas, ma i palestinesi in quanto tali, quelli di Gaza in particolare. Forse le due cose sono collegate (far finta di non sapere nulla così da avere la scusa per perseguire il secondo scopo), ma fare abduzioni è complottismo. Così i 2,3 milioni di abitanti della striscia prima sono stati spinti verso sud, ora vengono attaccati proprio lì dove li si è concentrati così da fargli capire che semplicemente, se ne debbono andare. Dove, non è un problema di Tel Aviv. L’opinione morale filo-palestinese ha esaurito impeto per impotenza, lo scandalo è palese, sotto gli occhi di tutti, nessuno fa niente, per salvarsi dalla frustrazione da impotenza meglio volgere lo sguardo da altra parte. A sua volta, l’opinione morale filo-israeliana ha tolto lo sguardo perché vabbè, una reazione anche forte si capisce e si giustifica, una vera e propria guerra etnica magari no. Entrambi gli schieramenti però possono cambiare scenario ed entrare in uno di quelli descritti sopra.
Come nel ponte ologrammi di Star Trek, gli scenari sono infiniti. Intendiamoci, non è che il sottostante di queste guerre culturali sia inesistente, esiste. Tuttavia, non è affatto detto che sia correttamente rappresentato negli stereotipi culturali degli schieramenti d’opinione. Uno dei grandi vantaggi di queste guerre culturali è proprio sublimare le contraddizioni reali in un mondo di rappresentazione nette da offrire allo sdegno morale, suggerendo esiti deviati.
Ad esempio, non domandarsi che mondo sarebbe se la metà del Cielo avesse avuto ed avesse davvero la possibilità di esprimere il suo specifico (che è di origine bio-psichico evidente), ma offrirgli l’opportunità di diventare generale di corpo d’armata come fanno i maschi.
O domandarsi cosa mai ce ne dovrebbe fregare di come si innamorano o si eccitano o fanno sesso gli umani e perché mai qualcuno di tipo A dovrebbe esser meglio al tipo B.
O porsi davvero il problema di come convivere con complessi culturali diversi, né esagerando, né minimizzando il problema. O definire meglio cosa significa “convivere”, se accettiamo l’Altro o si può evitare “aiutandolo a casa sua” e nel caso, come. O magari scoprire che non sarebbe male importarne qualcuno visto che siamo in profondo inverno demografico che ci porterà a contare 10 milioni di connazionali in meno tra trenta anni. Ma “qualcuno” chi e come? O domandarci come mai un problema continentale non viene trattato a livello europeo.
O riflettere su quale è lo stato dell’assistenza sanitaria in Italia, la disponibilità ospedaliera, il rapporto tra pubblico e privato, gli occupati, la medicina di prossimità e la condizione ed organizzazione delle case per anziani quali siamo sempre di più (dove abbiamo primati mondiali).
O non ridurre la questione ecologica e climatica ad automobili elettriche che poi abbiamo anche scoperto che non sappiamo o possiamo produrre per via dello sbilancio tra costi di produzione e costi di acquisto, nonché scoprire che hanno bisogno di materie prime cinesi che però è il nostro nuovo grande nemico nello scontro tra democrazie ed autocrazie.
Quest’ultimo scontro foriero di altra guerra culturale che ha la stessa forma imposta al dibatto sessuale. Cosa mai ce ne dovrebbe fregare, ad esempio a noi europei, se i cinesi vivono in un paese dalla forma imperiale che però si definisce “comunista”? Perché potrebbero invadere Taiwan? Ma chi l’ha detto? Intanto Taiwan va ad elezioni presidenziali tra un mese e nei sondaggi il partito relativamente più filo-cinese è in testa sebbene di poco, quello più filo-americano o anti-cinese recupera ma siamo lì, un terzo che sulla questione è equidistante e si dedica più a questioni interne potrebbe fare da terzo incluso poggiandosi un po’ di qua o un po’ di là. La Cina dichiarò che la provincia ribelle doveva esse reintegrata entro il 2049, non c’è alcuna fretta ovvero non c’è alcuna attualità.
Così per le ragioni concrete sottostanti il conflitto ucraino che ci è costato non poco sotto molti punti di vista, pare inutilmente visto lo scontato esito e sul quale dovevano semmai domandarci perché non abbiamo fatto nulla per impedire che accadesse. Che poi vale anche per l’annosa questione israelo-palestinese. Salvo domandarci magari perché ci eccitiamo per l’autonomia dei taiwanesi e non di quella dei palestinesi che sono lì ad un tiro di schioppo. O che fine ha fatto l’eccitazione per questione curda? O magari domandarci perché non c’è una questione armena nel Nagorno-Kararabakh oggetto di pulizia etnica in corso ad opera degli azeri che poi sono i principali acquirenti di armi israeliane e base per tutte i nefandi commerci d’armi a base NATO, come ormai noto da tempo.
Il concetto di guerra culturale si deve ad un sociologo americano, non tutti gli americani hanno perso la ragione. Lo presentò in un libro del 1991 come lettura della struttura culturale a forte base morale riconducibile al mondo delle credenze spirituali. “Le visioni progressiste e ortodosse sono principalmente sistemi di comprensione morale. Identifica l’ortodossia come un punto di vista attraverso il quale la verità morale è statica, universale e sanzionata attraverso poteri divini; in contrasto al progressismo, che vede la verità morale come in evoluzione e contestuale. Questi due gruppi sono bloccati in un’eterna “guerra culturale” per affermare il dominio sulle varie entità istituzionali e sistemiche influenzate dalla prassi culturale contemporanea, in particolare i rami governativi dell’America.”. Si tratta, in sostanza, di un gioco sociale con valenze politiche tipicamente americano che noi abbiamo importato o ci è stato imposto a seguire Halloween, il Black Friday, l’NBA e Taylor Swift.
Nel catalogo delle guerre culturali manca quella tra i tanti sempre meno ricchi ed i pochi sempre più ricchi, quella è vietata, davvero amorale, scandalosa, abbietta.
Poiché fine di ogni gioco è intrattenere e divertire, si dice che l’importante non è vincere ma partecipare. Ma credo che dovremmo invece domandarci se partecipare o meno. Questi giochi di importazioni a volte attecchiscono a volte no, ci fu anche la sfuriata delle sale Bingo poi diventate deserti spettrali e patetici per mancanza di allocchi. Forse prima di imbracciare la tastiera per urlare al mondo il nostro sdegno o la nostra accorata passione per l’opinione A o B, dovremo domandarci perché ci vogliono intrattenere e far divertire quando ci sono tante cose nel mondo concreto intorno a noi che non vanno affatto bene. Astenersi, a volte, è meglio che partecipare. Non cambia nulla lo stesso, ma almeno si salva la dignità di non contribuire a tenere in piedi queste macchine del nonsenso in cerca di consenso per fini non nostri.
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