Europe: tertium datur. Sed cum patientia
di PAOLO BARTOLINI
Solo gli sciocchi non cambiano idea? L’adagio lo conosciamo. Ma cambiare idea significa, necessariamente, pensare all’opposto? Credo che pochi temi di interesse generale, come quello dell’odierna condizione europea, siano così pervicacemente soggetti a riflessi di pavloviana memoria. L’Unione Europea non funziona? È una trappola senza uscita, priva di bilanciamento sul piano monetario, una criminale organizzazione incapace di ridare alla politica il giusto primato sulla finanza? Allora torniamo agli stati nazione e facciamolo in fretta! Deglobalizziamo, alziamo muri, rafforziamo le frontiere, riprendiamoci la valuta nazionale! Eravamo così liberi con la cara, vecchia lira. Se invece osserviamo il meccanismo di condizionamento classico dalla posizione inversa troviamo che il richiamo agli stati, ai popoli, alle identità ben delimitate, suscita immediatamente l’alzata di scudi e l’invocazione liberal al mondo unito, alla globalizzazione che renderebbe tutti più ricchi, moderni, aperti alle sfide del nostro tempo. Impossibile dunque mettere in discussione il progetto dell’UE così com’è, al massimo ci si appellerà alla necessità di riformare da dentro le istituzioni comunitarie, a riavvicinarle alle persone. E voilà! Tertium non datur.
Qui l’intelligenza, invece, deve dare scandalo, deve mettere in crisi le reazioni irriflesse, deve guardare alla geopolitica e alla “dura realtà” dei rapporti di forza scegliendo la strettissima via della Trasformazione. Per anni ho sostenuto, e tutt’oggi mi sento di affermarlo, che i problemi ambientali, i cambiamenti climatici, i rischi di guerra, lo sfruttamento del lavoro e delle risorse, la violenza esercitata dalla (dis)cultura del consumo sull’immaginario collettivo, richiedono attori politici internazionali, di un certo peso. Il mondo, una volta portato all’attuale livello di interconnessione (sul piano degli scambi economici, degli investimenti, delle alleanze, delle reciproche ritorsioni, delle corresponsabilità crescenti nei confronti della biosfera), risulta finalmente unificato, non sul piano auspicato dal capitalismo (infatti all’uniformazione forzata si oppongono, in modo comunque automatico e privo di progettualità, numerose reazioni contrarie: terrorismo, forme di resistenza molteplici, diffusione pandemica di disagi mentali ed esistenziali, tentativi di sviluppare relazioni economiche non incentrate sul profitto), ma sul versante delle opportunità che dischiude il conflitto generativo suscitato dall’incontro tra mondi umani assai diversi.
Come entrare in modo consapevole nell’era complessa, come la chiama l’amico Pierluigi Fagan? Penso sinceramente che sul piano culturale sia indispensabile uscire dall’inganno delle identità forti, dalla convinzione che esistano “popoli” nazionali privi di contaminazione con altre culture e altri popoli. In fondo l’Europa è qui a ricordarcelo: le culture sono complesse, composite, sempre in movimento, alla ricerca di confini sufficientemente stabili per garantire un divenire adeguato alla co-evoluzione che vede “accoppiati” certi umani e i corrispettivi ambienti naturali. Gli stati nazione, la storia lo insegna, hanno incendiato per secoli l’Europa e il mondo intero, hanno coltivato la cultura della potenza, creando facili antitesi tra Noi e Loro. È tuttavia altrettanto vero che la globalizzazione liberista è stata, nei fatti, un’unificazione forzata guidata dal motore di sviluppo anglosassone. I mercati e gli altri soggetti “privati” (penso qui alle multinazionali e a tutti i protagonisti ideologici del neoliberismo) non hanno reso più pacifica la convivenza tra le persone, anzi hanno abbinato il loro operato alla forza delle armi e della persuasione per convincerci che le iniquità profonde del finanzcapitalismo sono “naturali” e che l’odierno sarebbe il migliore dei mondi possibili.
Come uscire da questa ubriacatura compendiata dal termine singolo “globalizzazione”? Non frammentando qualcosa che, lo scopriamo dalle scienze naturali e dai nuovi studi culturali, è profondamente interdipendente. Non disgregando in fretta e furia le precarie costruzioni collettive messe in campo negli ultimi decenni. L’Unione Europea è una di queste. Gli effetti disastrosi della sua attuale conformazione non possono essere negati da chi ancora detiene il lume dell’intelletto. Dobbiamo allora chiederci, con onestà e coraggio: uscire per andare dove? Verso quale mondo interconnesso? Come accedere a una dimensione del pensiero e dell’azione politica che sia universalizzante, ma non universalista (come suggerito, ad esempio, dal sinologo e filosofo Francois Jullien)?
Da cittadino mi chiedo quali passi sono necessari per non sprofondare nelle sabbie mobili delle false opposizioni. La risposta, provvisoria ma per me sensata, è la seguente: le forze democratiche, critiche verso il neoliberismo, pacifiste e interessate a un riconversione ecologica dei nostri stili di vita (con l’obiettivo di mettere in discussione la primazia dell’economia sulle altre sfere dell’esistenza umana) dovrebbero – parlando di spazio europeo – cominciare a stringere rapporti sempre più intensi e programmatici tra paesi diversi nelle zone geostoriche con maggiori affinità. Come auspicato da Bruno Amoroso e, più recentemente, dal già citato Fagan, la prospettiva di medio-lungo periodo dovrebbe essere quella di costituire uno Stato federale Euro-mediterraneo, le cui dimensioni complessive sarebbero ottimali per contare sullo scacchiere internazionale. Questa costruzione, lo credo fermamente, non può passare per lo smantellamento immediato dell’euro e per la fuoriuscita unilaterale dall’Unione. Il motivo è semplice e, mi spiace per i dotti economisti, riguarda le condizioni antropologiche della popolazione.
Dopo decine di anni di consumo frenetico, di abbruttimento culturale, di promozione dell’egoismo più sfrenato, di demolizione dei principali agenti educativi nelle nostre società, pensare che il ritorno agli stati nazione possa generare effetti virtuosi e moltiplicare la solidarietà tra gli ultimi, è puro non senso. Il ripiegamento identitario, senza un continuo raccordo culturale che si opponga ai poteri divisivi del capitale, dell’ignoranza e della competizione generalizzata, non può che dare luogo a derive fascistoidi. Lo dimostra bene la vergogna delle reazioni diffuse nei confronti dei migranti, di uomini e donne che spesso proprio noi abbiamo costretto (direttamente o indirettamente) a fuggire dalla loro terra. Ben più interessante sarebbe studiare, con serietà, proposte come la “moneta fiscale” e altri strumenti che consentano, nella transizione decennale verso uno Stato Euromediterraneo, di tenere insieme creatività politica, innovazione sociale e buon senso.
Abbiamo bisogno di anni per metterci in marcia verso una forma praticabile di presenza al mondo. Una configurazione socio-politica e culturale capace di riconoscere il fallimento totale di un’unificazione forzata sotto l’egida della finanza internazionale e dei grandi gruppi industriali. Se poi fosse la Germania a decidere di uscire dall’euro, questo aiuterebbe molto accelerando il processo. Ma tale processo non può essere forzato laddove non esistono né una classe politica decente, né una democrazia funzionante. Sto dicendo che bisogna semplicemente aspettare? Niente affatto, sto affermando che il sogno europeo, per vivere, deve cambiare pelle. Dobbiamo ripartire dal Mediterraneo, senza sentirci contro-qualcuno, ma riprendendo una strada di unificazione tra simili nel mentre promuoviamo un’intensificazione di scambi culturali, di progetti condivisi, di lotte transnazionali. Questo orizzonte non può fare a meno di un’attenzione importante all’educazione, alla cura psicosociale, alla formazione, insomma, di cittadini consapevoli e partecipi. Se la sinistra (e non solo), invece di abbandonarsi con lussuria agli estremi dell’europeismo idealizzato e del ritorno fuori tempo massimo ai confini nazionali, cogliesse la sfida di pensare/costruire un’alternativa reale, potremmo forse ritrovare la passione del “comune” là dove l’universale astratto del capitale e la chiusura dei comunitarismi esclusivi promettono solo catastrofi.
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