Afghanistan, Kabul. La capitale è tornata nuovamente nel mirino dei gruppi islamisti. Lunedì 29 gennaio un attacco suicida all’Accademia militare Marshal Fahim ha fatto strage di giovani cadetti, oltre una decina i caduti, quando un gruppo di fuoco di quattro uomini è penetrato oltre il check point dell’Accademia, saltato in aria grazie a un kamikaze, mentre il resto del commando sparava sulla folla fino a che i miliziani non sono stati tutti abbattuti. Il fatto di sangue è opera dello Stato Islamico, che ha rivendicato attraverso l’agenzia Amaq.
Dopo il bagno di sangue dello scorso 27 gennaio (oltre 100 morti e più di 160 feriti) provocato da un’autoambulanza carica di tritolo, e dopo l’assalto a mano armata contro l’Hotel Intercontinental del 20 gennaio precedente, dove sono morti numerosi stranieri e in particolare americani, le due principali fazioni in lotta per il potere – Talebani e Stato Islamico – non sembrano volersi fermare più. E, anzi, alzano il tiro puntando a una strategia che concentri il terrore dove esso è capace di attirare maggiore attenzione internazionale, cioè nella capitale, che dovrebbe essere invece il luogo più sicuro.
Il messaggio è pertanto duplice: da un lato, si vuol far intendere che chiunque collabori con gli stranieri qui non ha futuro, dall’altro che Kabul non conoscerà pace. In questo senso, si annunciano tempi molto duri per il paese. Le forze di sicurezza locali addestrate dalla NATO sono circa 300mila, di cui però meno di 100mila sono realmente efficienti e utilizzabili, considerate le diserzioni e i quasi 7mila morti tra le loro fila in questi anni al servizio del paese.
Le azioni terroristiche, in ogni caso, compresa l’azione a Jalalabad contro il compound di Save The Children del 24 gennaio, appaiono come la risposta delle frange islamiste ai successi militari che gli americani e la coalizione internazionale stanno riportando nel resto del paese. Come nella provincia di Helmand, che nelle ultime settimane ha visto l’intensificarsi dei bombardamenti americani e limitati ma concreti progressi delle forze NATO contro i Talebani. Questo potrebbe averli spinti a una nuova campagna di azioni clamorose, per chiarire che da parte loro non c’è alcuna possibilità di resa.
La rete di jihadisti
Il potere dei Talebani in Afghanistan è forte e al tempo stesso fragile. Destituito il loro governo nel dicembre del 2001 dall’intervento militare americano, dopo oltre un quindicennio i Talebani di fatto governano ancora aree immense, grazie soprattutto ai frutti della coltivazione dell’oppio, rivenduto al mercato nero a un prezzo superiore a quello dell’oro, e da cui si ricava il 90% dell’eroina distribuita nel mondo.
Si stima che la loro forza operativa oggi sia intorno alle 50mila unità, mentre il peso dello Stato Islamico è ben più ridotto: anche se sta reclutando nuovi miliziani sia in patria sia all’estero, questi contribuiscono a ingrossare le fila degli appena mille operativi che si registrano al momento sul suolo afghano.
Non va poi dimenticata la presenza stabile della rete Haqqani, un clan tribale vicino agli stessi Talebani, e che nasce come clan familistico di tipo mafioso-religioso. Predoni e trafficanti d’oppio, dopo l’intervento NATO in Afghanistan, gli Haqqani hanno iniziato a colpire le truppe occidentali dalle loro basi nelle aree tribali pakistane. La loro rete può contare su una struttura militare che, secondo le stime dei servizi segreti occidentali, potrebbe arrivare alle 15mila unità.
Come i Talebani, quando gli americani sono intervenuti in Afghanistan, essi si sono rivoltati contro i loro vecchi alleati al tempo dei sovietici. Ragion per cui oggi vengono considerati il gruppo terrorista più pericoloso di tutto lo scacchiere della regione, capace di coordinare operazioni con i Talebani stessi, essendo alcuni membri della loro famiglia inseriti in entrambi gli organigrammi.
Il ruolo del Pakistan
Detto ciò, l’obiettivo dei tre gruppi è anzitutto fiaccare il morale delle truppe locali e straniere, e destabilizzare ogni programma di aiuti internazionali, per favorire invece le ingerenze del Pakistan, paese considerato un “safe haven” ossia un ottimo nascondiglio per la riorganizzazione dei gruppi islamisti. Che, complici i confini porosi quando non esistenti tra i due paesi, attraversano e si rifugiano spesso oltrefrontiera per coordinarsi e rifornirsi in vista di quella che ormai è una “guerra santa permanente”.
Anche per questo, recentemente il presidente americano Donald Trump ha criticato duramente Islamabad, minacciando di tagliare i finanziamenti USA al governo pakistano se non uscirà dall’ambiguità di cui sopra, dove la connivenza con i terroristi è all’ordine del giorno da parte soprattutto dell’ISI, il servizio segreto pakistano.
L’ambasciatrice USA alle Nazioni Unite Nikki Haley ha reso il concetto chiaro: «A volte lavorano con noi, ma ospitano anche i terroristi che attaccano le nostre truppe in Afghanistan […] un gioco che non è accettabile per questa amministrazione». Il che, tradotto, significa pressappoco scordatevi i sostanziosi contributi erogati dalla nostra Amministrazione per la lotta al terrorismo – il Pakistan ha ricevuto qualcosa come 33 miliardi di dollari negli ultimi quindici anni – se i risultati resteranno questi.
La presenza italiana
Per quanto concerne l’Italia e la presenza dei nostri soldati in Afghanistan (circa 950), l’annuncio del Ministro della Difesa Roberta Pinotti su un loro imminente disimpegno dall’Asia Centrale nel 2018 funzionale a riposizionare i nostri soldati in Africa – a cominciare dal Niger – capita in un momento di estrema difficoltà per la NATO, che si è impantanata nelle montagne afghane e non sa più come uscirne.
Attualmente, la NATO schiera in Afghanistan circa 15mila soldati, contro i 180mila del 2001 (tra forze della missione ISAF ed effettivi americani). Né allora né oggi, i risultati sono da considerare soddisfacenti. Anche per tale motivo, resta in dubbio l’effettiva diminuzione delle truppe italiane in quel quadrante geopolitico, dove gli sforzi internazionali hanno bisogno di ogni uomo disponibile a presidiare il territorio.
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