Al World Economic Forum del 2018, tenutosi in Svizzera a Davos dal 23 al 26 gennaio, il primo ministro indiano Narendra Modi ha difeso la globalizzazione, pur riconoscendo i limiti di un meccanismo che vede i negoziati multilaterali in una situazione di stallo e l’ergersi di nuove barriere al commercio internazionale. L’anno scorso nella stessa cornice il presidente cinese Xi Jiping aveva fatto lo stesso. Tuttavia, India e Repubblica Popolare Cinese sono sempre di più l’una contro l’altra nella lotta per il controllo dei commerci internazionali. Un confronto in cui sta emergendo in modo sempre più evidente anche la componente militare. New Delhi sta infatti rafforzando le proprie capacità, cercando vantaggi nella corsa alle armi rispetto alla Repubblica Popolare Cinese e al Pakistan. Con l’appoggio di Washington, l’India vuole contenere l’espansionismo di Pechino sia su mare che su terra e fronteggiare la teocrazia islamica, contro cui è in guerra per la questione non risolta del Kashmir.
Il bilancio del mandato di Narendra Modi
Nel 2014 gli indiani hanno dato al BJP (Bharatiya Janata Party) e a Narendra Modi, nazionalista e integralista hindu, un potere che nessun altro ha avuto negli ultimi vent’anni di storia in India. Il risultato alle elezioni di quattro anni fa ottenuto dall’Indian National Congress, ex forza politica dominante nel Paese era stato, al contrario, talmente deludente che il partito aveva perso il titolo di prima forza d’opposizione in parlamento.
Tra i successi di Modi ci sono la riforma del fisco e un alleggerimento della burocrazia che in India bloccava gli investimenti diretti esteri. La riforma del mercato del lavoro, urgente più che mai per portare ordine in un groviglio di norme, e quella sull’acquisizione dei terreni, restano invece tra gli obiettivi mancati del governo dell’“uomo del popolo”. Uno degli slogan del partito di Modi è il rilancio della crescita. A distanza di poco tempo da un importante appuntamento politico, le elezioni in 5 Stati dell’Unione Indiana, i cui risultati definitivi non arriveranno prima dell’11 marzo, il figlio del venditore di the venuto dal Gujarat, ha lanciato una manovra economica che punta sul rilancio delle aree rurali, sulla lotta alla povertà e sulle infrastrutture.
I rapporti con le altre potenze sono condizionati dai timori indiani riguardo i progetti infrastrutturali di Pechino sulla Nuova Via della Seta. L’iniziativa cinese è un pericolo alla sicurezza nazionale indiana, stando al giudizio di New Delhi, che è sempre di più desiderosa di intraprendere un progetto alternativo insieme agli Stati Uniti e ai loro alleati nel Pacifico (Giappone e Australia). L’atteggiamento refrattario dell’India verso la Belt and Road Initiative (BRI) potrebbe però causare l’isolamento geopolitico del Paese, oltre che danni ingenti all’economia nazionale.
Nel braccio di ferro tra Cina e India una delle posizioni più difficili è quella del Buthan. Il regno himalayano da un mese ha visto salire la tensione alle stelle per via della costruzione di una strada da parte dell’esercito cinese nell’area del Doklam, contesa da Pechino e Thimphu. La situazione sul terreno pare cristallizzata, ma il Buthan resta fortemente attratto dalle prospettive economiche offerte dalla BRI.
Il controllo dell’Oceano Indiano
Le relazioni tra India e Cina risentono fortemente della lotta per il controllo dell’Oceano Indiano, dove il colosso asiatico sta aumentando la sua influenza. A luglio 2017 Pechino ha inaugurato una base militare a Djibouti, vicino allo stretto di Bab el-Mandeb, arteria che collega il Mar Mediterraneo e il Mar Rosso, passando per il Canale di Suez, al Golfo di Aden e quindi all’Oceano Indiano. Non è passata inosservata a New Delhi neanche l’acquisizione cinese del porto di Hambantota, in Sri Lanka, situato a meno di 23 chilometri dalla principale rotta che mette in connessione lo Stretto della Malacca e il Canale di Suez. L’India si trova perfettamente al centro dell’area in cui transitano ogni giorno quasi 40 milioni di barili di petrolio, quantità appena inferiore alla metà dell’intero fabbisogno mondiale.
Come risposta all’espansionismo cinese, il mese scorso il governo indiano e quello delle Seychelles avrebbero firmato un accordo per la costruzione di una base navale e di una pista di atterraggio nell’arcipelago a 1.650 chilometri dalle coste orientali africane. I dettagli dell’intesa non sono stati ufficializzati ma l’intenzione dell’India è aumentare la propria presenza militare in un’area vitale per i propri interessi strategici. Inoltre, solo pochi giorni fa il presidente iraniano Hassan Rouhani e il premier Modi hanno definito un accordo per la gestione indiana del porto di Chabahar, nel sud dell’Iran, a stretta distanza dallo Stretto di Hormuz.
Il riarmo in funzione anti-cinese e anti-pakistana
Come riportano i due quotidiani The Times of India e Hindustan Times, il 20 febbraio scorso l’India ha testato il missile balistico a media gittata Agni II dal raggio di azione di oltre 2mila chilometri. Entro la fine dell’anno il governo indiano dovrebbe portare a termine i test per un nuovo missile da crociera BrahMos capace di raggiungere obiettivi a 800 chilometri di distanza. New Delhi pare quindi interessata ad aumentare il proprio arsenale aereo ma anche le sue capacità di muovere un attacco nucleare. Alcune analisi, riferisce la rivista The Diplomat, suggeriscono la possibilità che il vettore BrahMos possa essere modificato in un tipo di missile a propulsione nucleare. The Diplomat vede ancora la possibilità che la Russia progetti per l’India una nuova versione del Su-35, un aereo da guerra che arriverebbe alla quinta generazione e che potrebbe acquisire capacità stealth (invisibili ai radar, ndr). Questo tipo di velivolo potrebbe dare a New Delhi un vantaggio sulla Cina, che sta sviluppando aerei J-11B e Su-30, e sul Pakistan, impegnato a mettere a punto il suo caccia stealth leggero.
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