Una lunga guerra per logorare Israele: la trappola di Hamas e i suoi veri obiettivi
di INSIDE OVER (Paolo Mauri)
Quanto accaduto il 7 ottobre scorso ha ulteriormente compromesso la stabilità della regione mediorientale già da tempo instabile per la presenza dello Stato Islamico e dall’espansione dell’influenza iraniana secondo il principio della “Mezzaluna sciita”.
I razzi lanciati massicciamente da Hamas quella notte, più che colpire edifici e installazioni in Israele, hanno colpito – e potenzialmente compromesso irreparabilmente – la normalizzazione dei rapporti tra Tel Aviv e alcuni Stati arabi cominciata attivamente con gli Accordi di Abramo stipulati nel 2020. Emirati Arabi e Bahrein avevano infatti aperto la strada per un processo di “pacificazione” a cui si stava accodando, tra gli altri, anche l’Arabia Saudita, e l’Iran non poteva permettersi il rischio di trovarsi messo all’angolo in un momento in cui, tramite la mediazione cinese, aveva ristabilito i canali diplomatici con casa Saud, interrotti dalla ribellione degli Houthi sostenuti proprio da Teheran, e in un periodo storico in cui è tornato a essere sottoposto a sanzioni internazionali per la questione nucleare, dopo che è stato stracciato il trattato Jcpoa da parte statunitense.
Hamas, in questo senso, è stato strumento di un gioco più grande, ma ha anche proprie finalità: a lungo termine intende voler porre fine al blocco di Gaza che dura da 17 anni, nonché voler fermare l’espansione degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi senza dimenticare un aspetto più religioso legato a far cessare l’attività coercitiva da parte delle forze di sicurezza israeliane contro la moschea di al-Aqsa, la moschea musulmana più sacra.
Gli obbiettivi tattici di Hamas
Ora però occorre chiedersi quali siano le finalità tattiche dell’attacco cominciato il 7 ottobre, in considerazione che quelle strategiche qui elencate è chiaro che non saranno ottenibili soprattutto nel breve/medio termine. Da questo punto di vista Hamas possiede una doppia arma, la cui efficacia però resta dubbia per via di alcuni fattori, non ultimo il contesto geostrategico generale che va oltre l’area mediorientale.
Innanzitutto Hamas cerca il logoramento del consenso a Israele, rappresentato dall’opinione pubblica occidentale e non solo, in quanto anche Russia e Cina – che hanno in questo momento legami stretti con l’Iran – si sono dimostrate quantomeno ambigue rispetto al sostegno a Israele, quando non del tutto contrarie alle azioni di Tel Aviv che rischiano di compromettere i piani che hanno per la regione. L’attacco di Hamas ha infatti innescato un’importante reazione di sostegno militare degli Stati Uniti, che prima di allora avevano notevolmente diminuito al loro presenza nell’area mediorientale, e una campagna terrestre israeliana intensiva nella Striscia di Gaza potrebbe ampliare il conflitto ulteriormente con l’intervento diretto dell’Iran, anche se la possibilità che gli Ayatollah utilizzino il loro poderoso arsenale di missili balistici per colpire Israele al momento appare remota, preferendo un maggiore sostegno ai proxy presenti nell’area e un maggiore coinvolgimento della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (Irgc o pasdaran).
Un intervento diretto iraniano, a sua volta, determinerebbe quasi sicuramente la reazione di Washington che nell’area ha portato due gruppi di attacco di portaerei e un Marine Expeditionary Unit (Meu) forte di più di 2000 soldati, oltre a bombardieri rischierati in Europa – e visti “in visita” in Turchia a Incirlik – e ulteriori cacciabombardieri dispiegati tra la Giordania e altri alleati nell’area.
Terroristi pronti a resistere per mesi nei tunnel
Il consenso a Israele si intacca con una campagna di attacchi lunga, e Hamas ha avuto anni per organizzarla e fare scorte: il gruppo ha immagazzinato armi, missili, cibo e forniture mediche, che permetterebbero alle migliaia di suoi combattenti di sopravvivere per mesi nei tunnel scavati in profondità sotto l’enclave palestinese, e quindi frustrare le forze israeliane con tattiche di guerriglia urbana.
Un consenso che va eroso facendo leva sulla questione umanitaria della Striscia di Gaza, che oggettivamente vive da 17 anni la condizione di essere un enorme ghetto difficile da raggiungere e da abbandonare, come si vede da quasi un mese a questa parte. Riassumendo, Hamas ritiene che la pressione internazionale possa essere utile affinché Israele ponga fine all’assedio, considerando l’enorme numero di vittime civili (l’Onu ne calcola 9mila) in costante aumento, giungendo a un cessate il fuoco e a una soluzione negoziata che vedrebbe il gruppo militante ergersi a entità che è riuscita a strappare una concessione tangibile come il rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi in cambio della fine degli attacchi e della liberazione degli ostaggi catturati durante le prime fasi del conflitto. Durante i negoziati indiretti sugli ostaggi, mediati dal Qatar, il gruppo ha chiarito agli Stati Uniti e a Israele che vuole forzare il rilascio di prigionieri in cambio di ostaggi.
I rischi di un lungo conflitto a Gaza
Sembra però che attualmente una soluzione militare a questo conflitto sia possibile e che questo conflitto non sarà breve. Israele ha dispiegato un’enorme potenza di fuoco aerea e terrestre nell’operazione militare, che si configura in un’invasione in più fasi – attualmente sono più di 20mila i soldati israeliani che si trovano nella Striscia – e ha perso 1400 uomini. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha promesso di annientare Hamas e ha respinto le richieste di cessate il fuoco. Israele si è preparato ad una “guerra lunga e dolorosa”, ha detto Danny Danon, ex ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite ed ex membro del comitato per gli affari esteri e la difesa della Knesset. “Sappiamo che alla fine prevarremo e sconfiggeremo Hamas”, ha riferito a Reuters. “La questione sarà il prezzo, e dobbiamo essere molto cauti e molto attenti e capire che si tratta di un’area urbana molto complessa da manovrare”.
Gli Stati Uniti hanno affermato che questo non è il momento per un cessate il fuoco generale, anche se affermano che sono necessarie pause nelle ostilità per fornire aiuti umanitari. Washington si aspetta che Hamas cerchi di impantanare le forze israeliane nei combattimenti strada per strada a Gaza e di infliggere perdite militari abbastanza pesanti da indebolire il sostegno pubblico israeliano per un conflitto di lunga durata. I funzionari israeliani hanno comunque sottolineato ai loro omologhi americani che sono pronti ad affrontare le tattiche di guerriglia di Hamas e a resistere alle critiche internazionali sulla loro offensiva, sebbene la tenuta politica del governo Netanyahu sia stata fortemente compromessa dopo l’attacco di Hamas: il suo consenso è crollato ai minimi termini e straordinariamente per Israele si sono (ri)viste proteste di piazza.
Il salto qualitativo di Hamas
Bisogna considerare che Hamas ha combattuto una serie di guerre con Israele negli ultimi decenni e Ali Baraka, il capo delle relazioni esterne del gruppo con sede a Beirut, ha affermato che le sue capacità militari sono gradualmente migliorate, in particolare i suoi missili che ora possono colpire con una portata salita a 230 chilometri rispetto ai 120/140 dei sistemi usati in precedenza. Hamas ha inoltre dimostrato di aver appreso tattiche di combattimento diverse usando incursori per attacchi anfibi, forze speciali che hanno usato strumenti improvvisati come paraglider o droni. Proprio i droni commerciali usati per sganciare granate sui mezzi corazzati israeliani dimostrano che Hamas ha “preso appunti” dal conflitto in Ucraina.
Questo ci porta direttamente a una considerazione collaterale: il conflitto scoppiato in Medio Oriente – allargatosi anche agli Houthi yemeniti – sta ridimensionando il sostegno statunitense a Kiev e più in generale ha portato sfiducia negli alleati della Nato anche in considerazione dello stallo della controffensiva ucraina, che non ha portato a grossi risultati perché, come detto più volte, è “enemy oriented” ovvero volta a logorare il potenziale bellico avversario, invece di essere “terrain oriented” cioè avente come obiettivo la conquista del territorio, possibilità che avrebbe potuto portare a una tregua qualora avesse avuto successo con la riconquista, ad esempio, di Melitopol o il taglio dell’istmo di territorio occupato che va dalla Federazione Russa alla Crimea.
Non bisogna sottovalutare il contesto generale dell’impegno degli Usa verso i suoi alleati in guerra: in questo momento un doppio fronte che assorbe le risorse statunitensi non è quello che il Pentagono si aspettava avendo come prima voce in agenda il contrasto alla Cina nel Pacifico Occidentale. Pertanto le ripercussioni di un conflitto lungo nel Levante – col rischio di vederlo allargarsi – sono di ordine globale e riguardano direttamente anche la guerra in Ucraina, un fattore che Hamas, ma anche Russia e Cina, hanno ben presente.
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