I dogmi dell’assolutismo globalista
di Davide Parascandolo
Il potere dei mass media e dei moderni canali di diffusione delle informazioni risiede in gran parte nella possibilità di plasmare inconsciamente le menti e conseguentemente gli atteggiamenti di coloro cui essi si rivolgono. Tutto ciò espone chi ne viene investito a un sotterraneo ma inesorabile processo di “strutturazione” del pensiero, il quale conduce a sviluppare una forma mentis gradita al sistema.
Quando il potenziale tecnologico e informativo di un’epoca non è proporzionato a quello cognitivo della maggioranza degli esemplari che la popolano, il pericolo di produrre mostri è dietro l’angolo.
A partire dagli anni ‘80, ovvero dall’inizio della controffensiva neoliberista e globalista a guida anglosassone, le generazioni che si sono susseguite sono state infarcite di alcuni efficaci quanto superficiali principi: grande è meglio; l’interconnessione genera automaticamente cooperazione; la competizione è il motore delle società e dello sviluppo umano; l’individualismo dei diritti è superiore al solidarismo dei doveri ecc.
Ora, taluni di questi principi meriterebbero di essere sottoposti a un’attenta analisi, perché sono lo specchio delle incongruenze che stanno facendo implodere parti del nostro mondo a causa di intrinseche quanto evidenti contraddizioni logiche.
Prendiamo ad esempio un binomio quasi grottesco, quello del supposto connubio tra pace e competizione, che ha trovato una delle sue più perniciose cristallizzazioni proprio in seno ai trattati europei e che è diventato uno strano mantra che pochi sembrano intendere in tutta la sua illogicità. Il mantra è il seguente: l’Unione europea ha prodotto, anzi è nata per produrre, pace e cooperazione, ma affinché queste possano essere mantenute occorre declinarle attraverso la competizione economica tra i membri che la compongono, concetto condensato nella bizzarra locuzione «economia sociale di mercato fortemente competitiva» (art. 3, c. 3 del TUE). Tralasciando analisi di stampo più prettamente economicistico, che qui non competono, si noti perlomeno l’evidente forzatura derivante dall’accostamento di concetti intuitivamente antitetici. La competizione, il cui esito finale è da intendere sostanzialmente come l’affermazione della legge del più forte, è il motore di una natura spietata, la quale fagocita i suoi figli come il Saturno di Goya. Non c’è pace né cooperazione in un approccio alla vita puramente competitivo, allorché qualcuno, nell’agone della competizione, deve necessariamente soccombere. Insomma, parafrasando una nozione desunta dalla celebre teoria dei giochi di Nash, il gioco competitivo non è un gioco a somma positiva.
Ci si chiede allora come possa un tale principio – quello della competizione – generare il suo esatto opposto, ovvero quello della cooperazione, cosa di cui la retorica europeista e ipocritamente cosmopolitica e globalista degli ultimi quarant’anni ha convinto intere generazioni.
I risultati sono tuttavia piuttosto evidenti: il mondo è un campo di battaglia animato dagli interessi egoistici delle grandi potenze (come invero è sempre stato); l’Unione europea è quanto di più disfunzionale possa esistere sotto il profilo socio-economico a causa delle assurde regole che si auto-impone ormai da tempo immemore, con i suoi membri che si fanno una guerra sotterranea per racimolare qualche briciola di supremazia su uno scacchiere internazionale che li vede ormai ridotti a mere comparse; gli individui, atomizzati e convinti di essere loro stessi l’unico universo che conta davvero preservare, replicano in scala ridotta i comportamenti aggressivi posti in essere dai grandi organismi istituzionali planetari. Lo scenario, tutt’altro che cooperativo, appare improntato al più puro darwinismo sociale, portato di quel liberismo oltranzista che in Europa ha preso il nome di ordoliberismo (che, tradotto, vuol dire che le regole ci sono, ma sono fatte dai più forti per favorire se stessi).
Eppure viene affermato in maniera quasi ossessiva che l’Occidente, il quale ha prodotto, insieme a tante cose belle e piacevoli, anche questi meccanismi infernali di sopraffazione camuffati da umanitarismo solidaristico, avrebbe prodotto il migliore dei mondi possibili. Ergo, noi viviamo la migliore delle vite possibili.
Pertanto, non ha alcun senso pensare di modificare l’esistente, non essendovi alcuna possibilità che esso possa essere migliore di com’è. Arriviamo per direttissima all’altro grande mantra postmoderno: l’assetto sistemico esistente è irreversibile – quante volte, negli ultimi anni, ci è toccato ascoltare questa sciocchezza.
Neoliberismo, ordoliberismo, competizione su scala sovranazionale, nazionale e individuale, irreversibilità dell’ordine postmoderno sono tra i dogmi più granitici che dettano legge nell’epoca che ci è toccata in sorte. Un’epoca in cui si fa terribilmente fatica a pensare un futuro diverso, un sistema diverso, un’umanità diversa, al netto del vuoto panegirico di una diversità di facciata, cosmetica, a tratti tediosa e patetica, strettamente funzionale al mantenimento di un regime di desideri individuali di stampo ultra-liberale. Ci si limiti sommessamente a ricordare che il divenire – come saggiamente avevano compreso gli antichi filosofi greci – è la reale cifra del mondo e dell’esistenza, è la reale sostanza dell’Essere. Tutto è soggetto a trasformazione, e lo sarà anche ciò che oggi viene spacciato come immodificabile. È solo una questione di tempo. Per ora, a restare immutabile è solo l’inconsapevole dabbenaggine di una mediocre maggioranza che crede a dogmi costruiti e plasmati a tavolino per controllare e dirigere esistenze fatte di cieca e acritica ubbidienza.
Commenti recenti