Considerazioni sul “Jobs Act”
Anche se il dibattito politico e giornalistico sul c.d. “Jobs Act”, si è concentrato prevalentemente sull’annosa questione dell’articolo 18, il disegno di legge delega presentato dal Governo alle Camere contiene numerose altre misure in materia di disciplina del contratto di lavoro, politiche del lavoro e ammortizzatori sociali. Di seguito si espongono le principali proposte contenute nel disegno di legge, unitamente ad alcune considerazioni economiche e sociali sulle singole misure all’esame del Parlamento.
In materia di CONTRATTO DI LAVORO, l’obiettivo proposto dal Governo è il nuovo “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, che tendenzialmente dovrebbe sostituire tutte le forme contrattuali attualmente esistenti e che dovrebbe collegarsi all’introduzione del principio del “compenso orario minimo”. Il nuovo contratto sarà riservato a fasce di età superiori ai 29 anni, per evitare sovrapposizioni con l’apprendistato. Non è assolutamente condivisibile la proposta di innalzare i limiti di reddito (pari per il 2014 a 5.050 € netti nel corso di un anno solare) entro i quali è consentito il ricorso al lavoro accessorio con i c.d. “buoni lavoro” o “voucher”, che già oggi costituiscono un espediente legalizzato per mascherare rapporti di lavoro subordinato o attività artigiane. Per quanto riguarda l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300), peraltro già pesantemente colpito dalla “riforma Fornero” che ha mantenuto la piena vigenza dell’istituto della tutela reintegratoria solo per i licenziamenti discriminatori, lasciando alla discrezionalità del giudice la scelta tra tutela reintegratoria o risarcitoria nella maggior parte degli altri casi (licenziamento disciplinare, per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo od oggettivo). E’ ormai assolutamente evidente che l’attenzione dedicata a questo problema non discende né dalla rilevanza statistica del problema (pochissimi casi l’anno in tutti i Tribunali italiani), né dal beneficio che la sua modificazione porterebbe al mercato del lavoro (si è piuttosto ipotizzato, in sede scientifica, il contrario). Il dibattito sull’articolo 18 è piuttosto uno dei casi in cui massimamente emerge l’inconciliabilità assoluta, dal punto di vista sociale, ideologico e valoriale, tra la concezione economica ultra-liberista e mercatista contenuta nei Trattati europei e il sistema di tutela del lavoro e di sicurezza sociale dettato dalla nostra Costituzione. L’applicazione dell’articolo 18 resterà comunque inalterata nei casi di licenziamento illegittimo di tipo discriminatorio e disciplinare. La tutela reintegratoria di cui all’art.18 non si applicherà solo per i primi 3 anni in caso di licenziamenti economici. Desta preoccupazione la prospettiva di una revisione della disciplina delle mansioni, con la prospettiva della legalizzazione del demansionamento dei lavoratori sotto la velata minaccia della perdita del posto di lavoro. Allo stesso modo, appare come un ulteriore cedimento rispetto ai livelli di tutela conquistati con lo Statuto dei lavoratori l’idea di annacquare il principio del divieto dei controlli a distanza nei confronti dei lavoratori. Per quanto concerne la proposta di mettere il TFR in busta paga ai lavoratori, occorrerebbe ricordare le eventuali conseguenze negative sulla liquidità delle imprese di dimensioni medio-piccole, mentre per le imprese con più di 50 dipendenti, come è noto, il TFR inoptato – ovvero la cui destinazione, ad esempio a un fondo di previdenza complementare, non è stata scelta dal dipendente – viene accantonato in un fondo gestito dall’INPS.
Per quanto concerne gli AMMORTIZZATORI SOCIALI, gli interventi proposti nel disegno di legge vanno a incidere sul quadro normativo introdotto con la riforma Fornero (legge 92/2012), che ha istituito la nuova ASPI al posto della vecchia indennità di disoccupazione e ha previsto la prossima soppressione della cassa integrazione guadagni straordinaria per procedure concorsuali (dal 01.01.2016) e l’indennità di mobilità (dal 01.01.2017). E’ evidente che, allo stato attuale, i c.d. “Fondi di solidarietà settoriali”, chiamati teoricamente a sostituire le prestazioni di cui è prevista la soppressione, non avrebbero la copertura finanziaria necessaria. E’ tramontata l’ipotesi, ventilata in un primo momento, di sottrarre l’assistenza (le c.d. “prestazioni a sostegno del reddito”) all’INPS. Sugli ammortizzatori sociali, il governo intende a mettere a disposizione risorse aggiuntive per 1,5-2 miliardi. L’obiettivo proposto è quello di un sistema di tutela della disoccupazione a carattere universalistico. Il disegno di legge prevede la riforma dell’ASPI, che dovrebbe essere rapportata alla “pregressa storia contributiva” del lavoratore. Dovrebbe essere valutato l’innalzamento della soglia massima di durata della prestazione, rispettivamente di 12 e 18 mesi per lavoratori sotto e sopra i 55 anni L’ipotesi di estensione dell’ASPI ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa dovrebbe auspicabilmente includere anche i lavoratori iscritti alla Gestione Separata INPS con caratteristiche di mono-committenza. Sicuramente si può concludere, a riguardo degli ammortizzatori sociali, che la loro sostenibilità finanziaria nel medio periodo non sarà assicurabile al di fuori di una prospettiva di ripresa della crescita economica, la cui precondizione è senz’altro il ritorno a un sostegno pubblico alla domanda aggregata mediante una ripresa dell’intervento pubblico in economia, senza timore di recidere i soffocanti vincoli imposti dall’Unione Europea.
Per quanto concerne le POLITICHE DEL LAVORO, il Governo intende dotarsi di un’Agenzia Nazionale per l’Occupazione, vera e propria cabina di regia unica nazionale in materia di mercato del lavoro, sul modello di quelle esistenti in altri Stati europei. Tale proposta, almeno in linea teorica, sembra sottintendere l’idea di un ruolo pubblicistico di indirizzo e controllo della domanda e dell’offerta di lavoro, dopo l’orgia privatizzatrice che a partire dalla fine degli anni ’90 ha demolito il monopolio pubblico in materia di mediazione in materia di lavoro. Non si può tuttavia fare a meno di osservare che la completa sottrazione alla potestà degli Stati, già privati della “leva monetaria”, della c.d. “leva fiscale”, completata con il “Fiscal Compact”, renderà vana ogni velleità di intervento in materia di politiche attive del lavoro, per la palese impossibilità di un intervento attivo in materia senza adeguate risorse finanziarie. Solleva grosse perplessità l’emendamento mirante a introdurre l’Agenzia unica per le ispezioni del lavoro, che dovrebbe nascere dall’integrazione in un’unica struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS e dell’INAIL, prevedendo strumenti e forme di coordinamento con i servizi ispettivi delle ASL e delle Agenzie Regionali per la Protezione dell’Ambiente (ARPA). L’obiettivo che sarebbe alla base dell’istituzione dell’Agenzia unica per le ispezioni sul lavoro, ovvero la necessità di evitare duplicazioni di accessi ispettivi nelle aziende, potrebbe agevolmente essere perseguito mediante la creazione di quella banca dati unica che già avrebbe dovuto vedere la luce dopo l’emanazione del D.Lgs. 23 aprile 2004, n. 124. Occorre altresì tenere conto della profonda diversità di competenze e funzioni esistente tra Ispettori degli Enti previdenziali e Ispettori del lavoro. Il rischio concreto, ancora una volta, è quello di distruggere servizi amministrativi sperimentati ed efficienti senza essere in grado di sostituirli in modo adeguato. L’esperienza della soppressione degli enti previdenziali INPDAP ed ENPALS e della loro incorporazione nell’INPS dovrebbe mettere in guardia nei confronti questi processi di “fusione fredda” che spesso, anzichè far conseguire i risparmi e gli obiettivi auspicati, aggiungono nuovi problemi a quelli già esistenti.
Cagliari, sabato 4 ottobre 2014
Luca Cancelliere (ARS Sardegna)
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