Il mio regno per un bidet!
DA GAZZETTA FILOSOFICA (Di Michele Rossi)
Da qualche tempo Milano è inebriata da una nuovissima forma di abitazione. Si chiama co-living e rappresenta il futuro per tutti quelli che vorrebbero stare in affitto e vivere tante magiche esperienze… o forse no? Scopriamolo in questa nuova Incursione smart, trendy e cool, proprio come la Madonnina.
Come si dice quando si spaccia una cosa per un’altra? Semplice: fregatura.
E in questo caso la fregatura propagandata sul principale quotidiano italiano ha un nome incredibilmente sexy: co-living. In fondo, siamo di fronte a professionisti dell’informazione che studiano comunicazione a tavolino: prendete il termine italiano “convivenza” e traducetelo nella lingua della perfida Albione. Poi, basta una spruzzata di appeal evocando la città che più piace alla gente che piace: Milano.
Il-co-living-debutta-a-Milano.
Sentite già il profumo di opportunità, modernità, nuova vita aeroplanica e affamato dinamismo operoso (e poco operaio)?
Perché se non lo avvertite siete solo dei malfidenti passatisti, ma una descrizione accurata di questa conviv…pardon, del co-living vi farà senz’altro aprire gli occhi.
Immaginate l’ambientazione, anzi il setting: una vecchia casa in centro, zona Dateo, oculatamente ristrutturata per «mantenere l’impronta storica, dando però nuova vita agli oggetti e agli spazi» (di solito le case si ristrutturano per lasciare spazi decadenti e oggetti inutili, ma tant’è).
Ora immaginate di condividere questa casa non con due o tre inquilini, ma con ventisei.
Ventisette persone in totale, ciascuna con la sua cameretta, che si spartiscono una lavanderia, un barbecue con forno per la pizza, un giardino, una piccola palestra e addirittura due bidet (non è chiaro quanti bagni).
La prima cosa che mi chiederei, da inquilino, sarebbe dove diavolo sedersi: gli spazi sono tutti comuni, dal giardino con griglia al salotto e l’angolo cottura; dove si piazzano tutti? C’è da sperare che la passione per la Playstation non coinvolga più di sette inquilini allo stesso tempo, altrimenti va a finire che uno deve cenare in stanza.
E se state appunto pensando di rifuggire il problema chiudendovi tra le mura rassicuranti della vostra camera, spiace deludervi: il team dell’azienda belga che ha finanziato questo meraviglioso spazio prevede degli eventi organizzati «utili per fare gruppo», come un croccante brunch o una masterclass condotta da un pizzaiolo (così almeno si può riempire il forno con ventisette pizze).
I più maligni tra voi potrebbero chiedersi se questi eventi mondani siano compresi nei millequattrocento (!) euro d’affitto mensili per una singola stanza, ma queste sono quisquilie: sentite come tutto suona così attraente?
Certo che non sono inclusi pranzi, cene, o biglietti gratis per concerti e musei! I giovani professionisti, quelli cool, quelli che girano il mondo, non cercano queste cazzatine (anche perché, spiega l’articolo, nel giro di sei mesi si sono tutti levati di torno): vogliono il brunch, l’happening, la masterclass, il meeting, il crossfit, ma soprattutto l’abbonamento a Netflix, sapientemente incluso nel canone mensile.
Un cocktail perfetto, insomma, degno di una capitale europea quale Milano dovrebbe – o forse vorrebbe – essere; e pazienza se l’abbonamento base a Netflix costa al massimo 20 euro su 1400, l’1,4% dell’affitto totale: non vorrete mica sputare su questo enorme ventaglio di opportunità!
L’offerta di co-living si schiude come un bulbo durante la bolla dei tulipani del Seicento: per stare poco sopra il millino di euro basta chiedere una stanza più piccola. Le più convenienti sul sito dell’azienda – stranamente non riportate nell’articolo del Corsera – partono dai nove metri quadri con bagno in comune che, se siete fortunati, è uno di quelli col bidet. Un vero affare, visto che dalla ditta si affrettano a specificare che «se si considera ciò che è compreso siamo in linea coi prezzi di Milano». Sono soddisfazioni!
Ma attenzione: dobbiamo ancora parlare degli enormi benefici tratti dal co-living.
“Altri vantaggi? – vi stupirete – Non abbiamo ancora finito il carico di roboanti benefit in questa convivenza super-smart? Che altro ci può essere?”
Ma la conoscenza di culture diverse, ovviamente!
Spiegano gli entusiasti inquilini che sì, forse il prezzo appare un po’ altino, «ma questo cocktail culturale è la soluzione perfetta» per vivere la metropoli meneghina, arcinota per la sua peculiare internazionalità. Cosa ben diversa – sia detto a scanso di equivoci – dallo sporco internazionalismo che potrebbe venire a formarsi tra lavoratori sottopagati nelle periferie di molte città italiane: qua si parla della «generazione affitto», quei ragazzi e ragazze che non possono permettersi una casa ma vivono la condanna all’affitto sub specie aeternitatis come una splendida opportunità.
Il progetto della casa di proprietà, ci ricordava già Cosmopolitan in un articolo del 2022, è un po’ come il posto fisso per il governo Monti: sa di vecchio, è noioso, grigio, abbruttisce le menti e rende le persone pigre e choosy. Volete mettere con la bellezza di spostarsi continuamente, dilapidando i propri soldi per un buco nel centro di una grande città, con la suspence di non sapere se il bagno che dividerete con altre quattro-cinque persone abbia o meno il bidet? Il co-living è rivoluzionario: spezza tutte le desuete illusioni di stabilità abitativa, aprendoci come cozze verso un radioso futuro di nomadismo e migrazione economica.
In fondo, anche nell’Unione Sovietica degli anni Venti e Trenta era diffusa la coabitazione di intere famiglie in piccoli spazi, e i più appassionati di Bulgakov ricorderanno le lamentele del professor Preobraženskij per difendere l’esclusività del suo appartamento moscovita contro la collettivizzazione. È bizzarro che nella nostra epoca, permeata da un viscerale anticomunismo, si finisca per dar torto al dottore protagonista di Cuore di Cane e ragione alle guardie rosse, al grido di “Viva il co-living e la rivoluzione abitativa permanente! Abbasso la casa di proprietà!”.
È bizzarro… perché ovviamente le cose non stanno così, e il co-living è tanto rivoluzionario quanto un paio di infradito indossate coi calzini.
Ovviamente, chi crede alla storiella del co-living come grande opportunità di incontro multiculturale, progresso morale, sviluppo personale e professionale, può tranquillamente procedere per la sua strada.
Per tutti gli altri, forse, occorre iniziare a fare quello che Rosa Luxemburg definiva l’atto più rivoluzionario: chiamare le cose con il loro nome.
Rileggiamo l’articolo del Corsera sostituendo “co-living” con “ostello per ricchi”; “interculturalità” con “incontro fugace tra persone benestanti del Nord del Mondo”; “generazione affitto” con “generazioni che stanno mille volte più nella merda di quelle precedenti”; “flessibilità abitativa” con “precarietà abitativa” e osserviamo l’effetto straniante che ne consegue.
Ancora più vertiginoso sarebbe allargare lo sguardo al contesto cittadino: Milano, la metropoli che da qualche anno vive una crisi immobiliare senza precedenti. Ci sono gli studenti universitari nelle tende e la gente che scappa nell’interland a causa di affitti vertiginosi amplificati dall’inflazione e dalla compressione dei salari. Un docente di ruolo delle superiori, che guadagna 1600 euro al mese grazie al tanto disprezzato posto fisso, non potrebbe permettersi il co-living neanche se piangesse in turco (figuriamoci i precari!). Viene quindi da chiedersi quanti tra i lettori dell’articolo si siano veramente riconosciuti nella narrazione del co-living, quanti possano davvero considerarla una soluzione praticabile, o persino desiderabile. In una città con affitti stellari, proporre la coabitazione di lusso è un po’ come voler salvare un tizio che sta affogando in un barile di Moscato propinandogli un sorso di wodka: cosa potrebbe andare storto?
Infine, se puntiamo i riflettori su come è strutturato lo stile di vita presentato nel co-living, potremmo essere assaliti da ulteriori dubbi: chi vi risiede non ha necessità di uscire, di vivere davvero la città in cui abita. Ha l’abbonamento Netflix, la cena a domicilio con l’ennesima applicazione di sfruttamento dei rider che gli consente di tenere le chiappe sul divano; e anche qualora le chiappe le volesse muovere, non deve manco uscire per andare in palestra, mentre i panni sporchi, come per la migliore saggezza popolare, si lavano rigorosamente in casa. Le relazioni con altre persone esterne al contesto sono ridotte al minimo, o comunque incanalate nelle famose attività di gruppo.
È davvero questo il modello di vita, di relazione e di consumo che riteniamo desiderabile per il futuro?
E anche qualora fosse così… vale davvero tutta quella grana sborsata ogni mese?
Se la sostituzione dei fantasmi delle cose con le cose stesse e le riflessioni di cui sopra vi mettono a disagio e se iniziate a guardare il vostro bidet con occhi diversi, non preoccupatevi: vuol dire che state iniziando a sgamare la fregatura.
FONTE: https://www.gazzettafilosofica.net/2024-1/ottobre/il-mio-regno-per-un-bidet/
Peggio del terzo mondo.
(Tra l’altro per caso avete fatto 1400×27?)