Le «inutili» lauree umanistiche danno sempre più lavoro
di IL SOLE 24 ORE (Alberto Magnani)
Trovano lavoro, guadagnano tanto da «permettersi tutto quello che vogliono», soffrono di tassi di disoccupazione simili a quello degli altri dipartimenti. I luoghi comuni sui laureati in discipline umanistiche, diffusi anche al di fuori dell’Italia, rischiano di essere contraddetti dalla loro stessa argomentazione: le prospettive economiche. Mentre a Milano i licei classici sono assediati da un numero di iscrizioni superiori alle proprie disponibilità, negli Stati Uniti un report dell’American academy of arts and sciences rivela che gli studi nelle «arti liberali» garantiscono margini di entrate e soddisfazione in linea agli altri corsi di studio.
I laureati nelle humanities percepiscono un reddito “mediano” (il valore al centro della curva di distribuzione) di 52mila dollari l’anno dopo il titolo triennale, per salire a 72mila dollari dopo l’equivalente della laurea magistrale. Meno rispetto ai picchi di classi come ingegneria, dove si arriva a 82mila dollari, ma comunque sopra agli standard necessari per la stabilità economica e soprattutto di chi si è fermato alla formazione superiore: i colleghi che hanno intascato un solo diploma non vanno oltre i 34mila dollari.
Quanto alla financial satisfaction, la soddisfazione finanziaria, i laureati nel settore mostrano conquiste e disagi simili a quelli degli altri corsi di studio. Ad esempio la quota di chi dichiara di «guadagnare abbastanza per fare tutto quello che si desidera» supera quella registrata tra i laureati nell’ambito del business, giudicato di norma più «professionalizzante» rispetto a filosofia, letteratura antica o storia. Un ritratto non dissimile da quello che emerge in Italia, secondo i dati del consorzio Almalaurea. A fronte di stipendi comunque più bassi rispetto ai laureati in ingegneria o del gruppo economico-statistico, i professionisti di estrazione umanistica registrano un tasso di soddisfazione identico: 7,5 su 10.
Il futuro tra Ict, intelligenza artificiale ed…etica
Il valore aggiunto delle lauree umanistiche potrebbe essere proprio l’assenza di una traiettoria univoca tra studi e lavoro. E in questo senso, il parametro della «efficacia della laurea» valutato da Almalaurea finisce per essere secondario. Nella ricerca dell’American academy of arts and sciences emerge che l’11% dei laureati nel settore fa carriera nel management, accanto a quote interessanti di professionisti riconvertiti in ambiti come Ict, finanza, vendite, servizi. Le industrie del digitale e del tech si stanno rivelando come due tra le più «affamate» di laureati in possesso delle competenze intellettive fornite da studi umanistici. Nella Silicon Valley spopolano precedenti illustri come il fondatore della software company Slack Stewart Butterfield (laureato in filosofia) o della Ceo di Youtube Susan Wojcicki, laureata in storia e letteratura ad Harvard prima di virare sull’economia con un dottorato. Ma non è necessario capitanare colossi del settore per ambire a un’occupazione nella digital economy, anche partendo da una base minima di conoscenze delle tecnicalità.Ad esempio studi in linguistica e semiotica possono essere decisivi quando si tratta di “istruire” robot con le tecniche del machine learning, mentre una base in filosofia etica e morale è necessaria per un automation ethicist: gli specialisti chiamati a valutare gli impatti economici e sociali dell’automazione, «dando un senso» a macchinari concepiti per dialogare con i dipendenti umani.
Un ponte tra uomo e macchina
«I laureati in ambito umanistico hanno un approccio teorico che si applica anche in ambiti che sembrano distantissimi – spiega Lorenzo Tomasin, ordinario di storia della Lingua italiana all’Università di Losanna – Prendiamo il machine learning o lo speech recognition: chi li può analizzare meglio di un umanista?». Oltre alle contingenze della tecnologia, però, la versatilità dei laureati del settore nasce da una «predisposizione psicologica»: chi si iscrive a lettere antiche o filosofia della scienza è già abituato all’idea che potrà o dovrà reinventarsi in un ambito diverso da quello di studi, applicando altrove la duttilità di pensiero acquisita: «Chi entra in una facoltà umanistica sa dal primo giorno che non andrà a ‘professionalizzarsi’ – dice Tomasin – E questo predispone dal punto di vista della reazione psicologica: devi essere versatile perché sai che i problemi che affronterai saranno diversi da quelli studiati».
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