Storia del collasso del Venezuela
di LIMES (Mario Giro)
Chávez, Bolívar e Maduro ritatti in un murales a Caracas, 30/1/2019. Foto di Marco Bello/Getty Images.
Il paese latinoamericano è passato da una condizione di capitalismo selvaggio e predatorio all’autoritarismo chavista para-comunista. Prima lo Stato era privatizzato; ora è fallito.
Davanti all’ennesimo scossone della lunga crisi in Venezuela, la comunità internazionale è divisa e non sa cosa augurarsi. Le parole di papa Francesco che insistono sul dialogo pacifico non devono sorprendere: secondo il pontefice ogni aumento della tensione può spingere alla catastrofe della guerra civile. Per questo lo schierarsi progressivo della comunità internazionale pare imprudente.
Anche lasciando da parte le posizioni geopoliticamente “interessate” di Usa, Russia e Cina, l’incertezza resta grande. Lo stesso Bernie Sanders, che si prepara alle prossime primarie democratiche, sposa l’affondo di Donald Trump ma gli chiede di non intervenire militarmente. Nelle sinistre europee c’è divisione: in Italia troviamo Pd da una parte e Cgil dall’altra, una dicotomia che si ripete quasi ovunque. Anche nel M5s non sono tutti convinti del sostegno al governo Psuv – il partito socialista di Hugo Chávez e del suo successore Nicolás Maduro. Questa volta la Lega sta con il Pd, a favore del presidente autoproclamato Juan Guaidó.
La questione si complica perché i sostenitori di Maduro sono stati a lungo ben attenti a non travalicare totalmente la Costituzione e a dare una parvenza di legalità alle loro mosse. Rimaneggiata più volte a colpi di referendum dall’indefinibile partecipazione, la carta fondamentale rimane comunque un riferimento per tutti. Nello spirito della tradizione comunista, i dirigenti Psuv si vogliono legalisti: l’hanno stiracchiata senza mai romperla del tutto. De facto hanno esautorato il parlamento (Assemblea nazionale, An) a loro avverso, creando una parallela Costituente che mai nessuno ha davvero avvallato a livello internazionale.
Ora si preparavano anche a sciogliere del tutto l’An, da cui la reazione dell’opposizione. I sostenitori di Maduro sono riusciti anche a intentare processi contro gli oppositori più in vista, facendoli decadere dalle loro cariche amministrative e arrestandone molti. Tenere sotto controllo il sistema giudiziario è un atout essenziale per il governo. Per questo, anche se legalisti, hanno contravvenuto ai contenuti fondamentali di una democrazia liberale, schierando il paese nel campo delle democrature, ancorché di sinistra. Ecco spiegata la simpatia di Turchia, Russia, Cina ma anche Teheran.
Sul terreno tutto è complicato: Maduro ha ottenuto prestiti cinesi ma paradossalmente le major Usa del petrolio hanno continuato a operare senza soverchi problemi, almeno fino alle ultime sanzioni decise da Trump. Il petrolio è tutto per il Venezuela, che importa il 97% dei beni di consumo. A Caracas non si produce niente (anche la carta igienica è importata): le merci vengono dall’estero e l’economia tradizionalmente è basata sull’esportazione di greggio di cui il paese rappresenta una delle massime riserve mondiali. Anche l’Eni ha finora operato senza grandi problemi mentre altre nostre imprese (Salini, Ghella, Astaldi, Iveco…) soffrono, non sono pagate e hanno dovuto bloccare i lavori tempo fa.
Finché il prezzo del petrolio è stato alto, Chávez finanziava i programmi sociali e di sussidio non solo ai poveri venezuelani (suoi elettori) ma anche ai paesi limitrofi, “regalando” (con Petrocaribe) petrolio a Stati economicamente fragili come Cuba, Suriname, Bahamas, Nicaragua, Antigua, Giamaica e così via. Controllava poi le importazioni di beni di consumo con rigide selezioni nei porti, favorendo i piani di distribuzione di Stato e osteggiando gli importatori privati. Così ha cercato di riequilibrare in maniera autoritaria ma popolare la diseguaglianza tra ricchi e poveri, una delle più forti di tutta l’America Latina.
Per un certo tempo è divenuto un leader molto popolare, anche se andava per le spicce. L’Alba, l’alleanza boliviariana di paesi latini, voleva essere un attore della sinistra mondiale. Dall’Europa si è cominciato a guardare a lui, per esempio da parte di Podemos spagnola o M5s italiana: piaceva (e piace) la retorica redistributiva ed egualitaria del “bolivarianismo”, un misto ideologico tra comunismo, sovranismo e terzomondismo che si può includere a giusto titolo tra i populismi di sinistra di cui l’America Latina è generosa.
Certo, l’alternativa dell’iper-liberismo autoritario, della dottrina militare e di “sicurezza nazionale” storicamente propugnata dalle destre latine è ancor peggiore, non v’è dubbio. Gli Usa rimangono un attore ambiguo, avendole spesso sostenute nel passato. Così Chávez si è potuto permettere di essere amico di Putin e della Cina, di Saddam ma anche degli ayatollah, di Cuba e dei palestinesi e in genere di tutti gli “Stati canaglia” del pianeta ma anche delle sinistre mondiali, calibrando retorica veemente e pragmatismo. Non ha mai perso del tutto i contatti con Washington, in particolare con il settore privato petrolifero americano dalla cui tecnologia dipende ma anche con il dipartimento di Stato. Alcuni diplomatici statunitensi come Thomas Shannon, sottosegretario agli esteri fino al 2018 e esperto di America Latina, erano ben introdotti a Caracas.
Ogni tentativo di nazionalizzare totalmente il settore petrolifero – la manna del paese – non è mai stato spinto oltre una certa oratoria di propaganda. Ma niente si è fatto per cambiare strutturalmente il sistema economico venezuelano e la dipendenza dal solo petrolio; molti ministri chavisti ci hanno provato, ma son stati scartati, come Giordani – bolognese di origine e fautore di una radicale riforma socio-economica. La quasi totalità della popolazione (30 milioni) vive ammassata nelle città costiere, mentre il resto dell’immenso paese, grande tre volte l’Italia, è vuoto e abbandonato – segno di un’economia di dipendenza. Manca una vera classe imprenditoriale privata (non solo commercianti da importazione), con produzioni nazionali e aumento della produttività del lavoro. In definitiva, da Stato in mano a mercanti predatori alleati al capitalismo petrolifero e finanziario, con Chávez il Venezuela è divenuto la mecca “bolivariana” degli assistiti e dei sussidi a fondo perduto, con tutta la corruzione che si può immaginare.
Ecco perché oggi è tanto difficile scegliere. Quando per esempio l’allora presidente brasiliano Lula da Silva – che pazientemente spendeva ore al telefono con Chávez ogni settimana per tenerlo a bada – inviava navi di merci per aiutare, il governo le bloccava in porto; rallentava lo sdoganamento; favoriva i “suoi” commercianti a discapito degli altri; distribuiva solo ad alcuni; nascondeva la merce accusando la distribuzione privata di mercato nero; creava ad arte la penuria per accusare i privati di accaparramento e provocare “assalti ai forni”. Insomma, roba d’altri tempi che ha reso il Venezuela da paese ricco (ma profondamente diseguale) a paese fallito. Il leader bolivariano aveva carisma e risorse; riusciva a controllare, bene o male, il sistema.
Senza il medesimo prestigio di Chávez, Maduro si è trovato in una situazione peggiorata: il prezzo del greggio era crollato e non c’erano più fondi per tutta questa dispendiosa politica di sussidi. Il sistema si è fatto via via più duro ed escludente: la torta era più piccola e sempre meno potevano accedervi. La classe media, in generale anti-chavista, è stata sacrificata e alla fine si è ribellata. Ma con essa anche parti della classe più povera, stanca della scarsità generale: niente medicine né beni di prima necessità, lunghissime file ai punti di distribuzione. Un’economia in rovina e folle di cittadini in fuga verso la Colombia – una volta accadeva il contrario. La passione ideologica ha fatto il resto: il paese si è spaccato in due e il rancore sociale è cresciuto fino a diventare esplosivo. Anche l’opposizione è divisa: c’è un sistema di coordinamento (Mud, tavola di unità democratica) che si tiene assieme a fatica, con sospetti vicendevoli.
I tentativi di mediazione tra i due schieramenti sono stati numerosi: presidenti latinoamericani, ex presidenti, ex leader europei come Zapatero, paesi europei (anche l’Italia si era offerta) e alla fine direttamente il Vaticano. È stata questa la volta in cui ci si è avvicinati di più a un dialogo reale e si sono fatte anche alcune riunioni presiedute dal Nunzio apostolico. Alla fine è stata l’opposizione a far saltare il negoziato, sostenendo che il formato e le premesse fossero troppo favorevoli a Maduro. Ciò spiega anche le prudenze vaticane oggi: neppure gli interlocutori dell’opposizione sono del tutto affidabili. In ogni caso, riannodare la trattativa ora è difficile, come si nota dalla reazione negativa dell’opposizione alla recente timida apertura di Maduro. L’Unione Europea è passata dalle accuse pesanti dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza dell’Ue, Catherine Ashton, all’atteggiamento più morbido di Federica Mogherini, almeno fino al fallimento delle varie mediazioni; ma l’ambasciatrice Ue a Caracas è stata sempre più o meno discriminata. Più ascolto avevano i rappresentanti di Spagna e Italia, in forza delle loro collettività locali. L’Europa, unita ora nel giudizio negativo su Maduro, è però divisa sul da farsi. I prudenti vorrebbero ancora provare la via del dialogo; gli impulsivi vogliono attaccare e isolare.
L’attenzione ora è puntata sui militari, l’unica vera forza residua di un paese sfilacciato. Chávez – che prima di essere eletto nel 1998 tentò un golpe nel 1992 per poi subirne uno (fallito) nel 2002 – veniva dall’esercito e ne ha sempre curato con attenzione gli equilibri interni. Maduro non è altrettanto influente tra gli uomini in divisa, anche se alcuni degli ex compagni del suo predecessore per ora lo appoggiano. Nondimeno molti ufficiali sono stati arrestati nel corso di questi mesi, segno che ci possono essere sorprese.
Un intervento militare toglierebbe le castagne dal fuoco a tutti, ma non è detto che accada e soprattutto che accada ora. Trump ha riconosciuto Guaidó e introdotto le prime sanzioni, ma non basta: solo un reale embargo sul settore petrolifero potrebbe funzionare col tempo, a scapito di immani sofferenze del popolo venezuelano. Pare che Bannon stia indirizzando la politica Usa in quella direzione perigliosa: ora che il prezzo del petrolio è risalito non si vuole dare ossigeno a Maduro. Gli americani non hanno altre armi e oggi è piuttosto inimmaginabile un loro intervento militare diretto. Possono solo sperare in militari venezuelani amici.
Russia e Cina, pur non avendo piacere di buttare via soldi per Caracas – l’ultima volta il presidente cinese Xi Jinping ha resistito alle ulteriori richieste di Maduro – la sostengono per ragioni geopolitiche: il Venezuela è una spina nel fianco degli Usa in America Latina, come una nuova Cuba. D’altronde il sostegno dell’Avana stessa a Caracas è ufficiale.
Lungi dal cedere alle sirene bolivariane, finora l’Italia è stata favorevole al dialogo, assieme a Spagna e Portogallo, proprio perché ha una grande collettività sul posto: 150 mila italiani di passaporto e 1,5 milioni di italo-discendenti. In questi anni di crisi ogni volta che un italo-venezuelano veniva arrestato (ci sono stati decine di casi) si è riusciti a liberarlo. Non è stato così per altri discendenti di europei. Pur consapevoli che la maggioranza assoluta della collettività italiana in Venezuela è anti-chavista da sempre, le autorità venezuelane considerano tale trattamento preferenziale come un atteggiamento di buona volontà verso un paese “fratello” (Chávez celebrò Bolívar a Montesacro a Roma), ma che può mutare improvvisamente. La stessa collettività ha sempre detto alle autorità italiane entrambe le cose: che il chavismo bolivariano è una iattura e che va cacciato; che però non dovevamo esporla troppo, pena sequestri, espropri eccetera.
Anche l’Onu si è offerta di collaborare a trovare una soluzione, basando il suo eventuale intervento sulla crisi umanitaria (per esempio sanitaria a causa della mancanza di medicinali), ma ciò è sempre stato rigettato dalle autorità.
In conclusione, nulla è semplice a Caracas. Da lungo tempo uno dei paesi più diseguali dell’America Latina, il Venezuela è passato da una situazione di capitalismo selvaggio e predatorio all’autoritarismo chavista para-comunista.
Il chavismo non nasce dal nulla, si spiega con una lunga fase precedente in cui i ceti indigenti della società erano totalmente discriminati e umiliati. Chávez ha ridato loro orgoglio e su di loro si è basato per reprimere la classe medio-alta, che fino ad allora aveva governato con un mercantilismo para-democratico. Ma tale rovesciamento non ha portato più giustizia, democrazia, legalità: anzi, nel caos la criminalità si è diffusa a macchia d’olio, senza guardare in faccia a nessuno.
Prima lo Stato era privatizzato; ora è fallito: un vero disastro. Non bisogna credere che Chávez e Maduro non abbiano sostegno di parte della popolazione, anche se è sceso di molto. Né si può confidare solo nell’opposizione: tra i veri democratici si celano alcuni “predoni” autoritari di ieri.
Solo l’accettazione di un governo comune, una lunga fase di transizione controllata che escluda gli estremisti delle due parti, può forse ancora salvare il Venezuela dalla fine.
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