Vero o falso?
DA LA FIONDA (Di Francesco Prandel)
Lo scienziato teorico non è da invidiare. Perché la natura, o più esattamente l’esperimento, è un giudice inesorabile e poco benevolo del suo lavoro. Non dice mai “Sì” a una teoria: nei casi più favorevoli risponde: “Forse”; nella stragrande maggioranza dei casi, dice semplicemente: “No”. Quando un esperimento concorda con una teoria, per la Natura significa “Forse”; se non concorda, significa “No”. Probabilmente ogni teoria un giorno o l’altro subirà il suo “No”.
Albert Einstein
Qualche anno dopo la pubblicazione della teoria della relatività generale, durante una conferenza viennese del 1919, Einstein sosteneva che «se non esistesse lo spostamento delle righe spettrali verso il rosso a opera del campo gravitazionale, allora la teoria della relatività generale risulterebbe insostenibile». In buona sostanza, il fisico tedesco proponeva di eseguire un esperimento che avrebbe potuto confutare la sua stessa teoria. Popper, che era tra il pubblico, così ricorda quel momento: «Sentivo che era questo il vero atteggiamento scientifico. Era completamente differente dall’atteggiamento dogmatico, che continuamente affermava di trovare “verificazioni” delle sue teorie preferite. Giunsi così, sul finire del 1919, alla conclusione che l’atteggiamento scientifico era l’atteggiamento critico, che non andava in cerca di verificazioni, bensì di controlli cruciali; controlli che avrebbero potuto confutare la teoria messa alla prova, pur non potendola mai confermare definitivamente ». Fu così che il filosofo della scienza austriaco elaborò il criterio che stabilisce a quale condizione una teoria può essere considerata scientifica. Se una teoria può essere messa alla prova, se è possibile eseguire un controllo che potrebbe confutarla, allora è scientifica, altrimenti non lo è. Se la teoria non supera il controllo, è semplicemente falsa. Se invece lo supera, non è semplicemente vera: la si può considerare vera fino a prova contraria, cioè fino a quando viene sottoposta a un controllo che non riesce a superare. Per questo la scienza propriamente detta non ha un «atteggiamento dogmatico». Anzi, è continuamente alla ricerca di «controlli cruciali», di «falsificatori potenziali». Cerca continuamente di smentire sé stessa. Chi dice di credere nella scienza, intendendo con ciò affermare che le affermazioni apodittiche di certi sedicenti scienziati non sono in discussione, non sa di che cosa sta parlando.
Mi sono concesso questo preambolo solo perché mette a nudo un’asimmetria la cui importanza può essere difficilmente sopravvalutata, anche fuori dall’ambito strettamente scientifico: è possibile stabilire ciò che è falso, ma non ciò che è vero. E sarebbe terribilmente ingenuo pensare che, una volta tolto il falso, ci rimanga in mano la verità: depurandolo dal falso, il panorama cambia, e si aprono sempre nuovi scorci da controllare. Al limite può accadere che, riconoscendo come falsi certi enunciati portanti, cambi l’intero paradigma, nel qual caso i critici trovano nuovo filo da torcere. Debbono rimboccarsi le maniche, perché il loro lavoro ricomincia quasi daccapo. Così, quello di smascherare il falso, si presenta come un lavoro incessante, un’impresa che non può mai ritenersi conclusa. Una partita che non può essere vinta, neanche in linea di principio: ben che ci vada riusciamo a mantenerla aperta. Se siamo bravi, riusciamo a rimanere in gioco. Se invece rinunciamo a giocare la carta della confutazione, se lasciamo che il falso dilaghi indisturbato, la partita è chiusa. Ed è persa, per tutti.
La ragione della disfatta, che appare ogni giorno più imminente, è presto detta: «l’uomo non ha mai abitato il mondo, ma sempre e solo la sua rappresentazione». L’unica cosa che abbiamo in mano è una “mappa”. Crediamo di osservare il “territorio”, e invece vediamo solo la “mappa” che ce ne siamo fatti. «È la teoria a decidere che cosa possiamo osservare» faceva notare Einstein al giovane Heisenberg il quale, durante una conferenza berlinese del 1925 in cui esponeva la prima formalizzazione della meccanica quantistica, sosteneva di aver basato la nascente teoria «solamente sulla base di grandezze osservabili».
La mappa che stiamo seguendo è èvidentemente falsa. Non lo si intuisce dal confronto col territorio che, come dicevo, è fuori dalla nostra portata, né lo si può evincere dal confronto con la mappa vera, che nessuno ha in tasca: lo si capisce semplicemente dal fatto che, ad ogni piè sospinto, inciampiamo o andiamo a sbattere. Lo si può facilmente dedurre dal fatto che, il più delle volte, il cosiddetto “progresso” crea più problemi di quelli che pretenderebbe di risolvere. È chiaro che, di questo passo, ci stiamo infilando in un vicolo cieco dal quale non si torna indietro.
La domanda, a questo punto, è più che matura: chi falsa la mappa, chi ci fa girare in tondo nelle lande desolate in cui ci siamo incautamente addentrati? Chi ha messo la calamita nella bussola, chi ci costringe a navigare a vista tra le secche di una politica ridotta a servitù volontaria e gli scogli dei mercati finanziari?
Ogni forma di potere si regge, in ultima analisi, sul falso. Prova ne sia il fatto che il potere non è mai stato degli onesti. Il “contratto sociale” altro non è se non un modo elegante per dissimulare questa ovvietà. Chiedetelo alla miriade di piccoli commercianti messi sulla strada da Amazon & Co., e ai neoschiavi sulla cui pelle hanno fatto fortuna, se la legge del più forte è stata abrogata o se è oggi più che mai in vigore. Chiedetelo alla classe politica che ha riempito le scuole di schermi per assecondare le multinazionali del digitale, che ha smantellato la sanità pubblica per compiacere gli interessi di affaristi che lucrano sulla salute.
«Il mondo è dei furbi» ricordava ogni tanto mio padre allargando le dita mangiate dal cemento, quasi a rimarcare l’amarezza delle parole che uscivano dai denti mancanti. Il furbo riunisce in sé due caratteristiche che lo rendono vincente. Non è solo intelligente: al bisogno, sa anche mentire. È soprattutto questa la sua forza, che riserva l’onestà intellettuale ai perdenti. Immaginate di giocare a scacchi con qualcuno che bara. A parità di bravura, chi vince secondo voi? Il baro ha a disposizione tutta una serie di mosse che al giocatore onesto sono precluse. Muove la torre in diagonale, e il vostro re è già andato.
Nella nostra civiltà il falso riveste un ruolo strutturale. Basti a pensare alla pubblicità, cioè a quella menzogna sistematica, continua e capillare che ci esorta a circondarci di cose delle quali non abbiamo bisogno: se ne avessimo davvero bisogno, non occorrerebbe pubblicizzarle, ce le procureremmo da soli senza che qualcuno ci spinga a farlo. Dal punto di vista ambientale la pubblicità è quanto di più tossico l’uomo abbia prodotto, molto più delle scorie nucleari. La menzogna pubblicitaria divora il mondo, ne dissipa le risorse. Lo riempie di spazzatura. Ci riempie di spazzatura. Ma è una menzogna di cui la nostra società non può fare a meno. Se domani sparisse la pubblicità, dopodomani collasserebbe il sistema. Si dice che «la pubblicità è l’anima del commercio». Falso: il commercio è ben più datato della pubblicità.
La menzogna strutturale che tiene in piedi la nostra economia non esaurisce certo lo spettro della falsità. Dalla gestione della pandemia alla narrazione dei conflitti che si sono riaccesi, dai vantaggi sociali della digitalizzazione alle ragioni della transizione ecologica, il falso è stato interiorizzato al punto tale da colonizzare ormai gran parte dell’immaginario collettivo. La menzogna corrode il bene più prezioso di ogni collettività che vuole avere un futuro: la fiducia. Chi si metterebbe in strada se non avesse fiducia negli altri automobilisti? Una società che dissipa la fiducia è una società che corre verso la paralisi.
Il dilagare del falso è sintomatico del fatto che il nostro paradigma è alla frutta. Tanto più il venditore d’auto ha bisogno di mentire, quanto più da rottamare è la macchina che vuole rifilarci. Più menzogne occorrono al potere per mantenere il proprio assetto, più barcollante è il palazzo che tenta di puntellare, più fatiscente è la rappresentazione del mondo su cui si regge. «Non si può fermare una frana» disse Planck ad Heisenberg, riferendosi alla piega che le cose stavano prendendo nella Germania del 1933. Quando il falso viene naturalizzato, è solo questione di tempo. No, non si può fermare una frana. Si può solo sperare di non rimanerci sotto.
I furbi hanno vinto – e stanno vincendo – tutte le battaglie, ma perderanno la guerra. Chi la vincerà? Nessuno. Non è un film a lieto fine, dove vincono i buoni. A furia di mentire per salire più in alto, i furbi stanno trascinando a fondo tutti quanti, loro compresi. Perderemo tutti, perché la mappa che distribuiscono è falsa, e la bussola che vendono è truccata. In un certo senso, mentire vuol dire contrarre un debito, e prima o poi arriva il conto da pagare. Con cospicui interessi, naturalmente. Non ne faccio una questione morale: denunciare la menzogna è una questione di sopravvivenza. E lo si può fare senza avere la verità in tasca.
Il problema è a questo punto quanto può durare una menzogna di questo tipo. È probabile che prima o poi la si lascerà semplicemente cadere, per sostituirla immediatamente con una nuova menzogna, e così via – ma non all’infinito, perché la realtà che non si è più voluto vedere si presenterà alla fine a esigere le sue ragioni, anche se al prezzo di catastrofi e sciagure non indifferenti, che sarà difficile se non impossibile evitare.
Giorgio Agambem
FONTE: https://www.lafionda.org/2024/02/07/vero-o-falso/
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