Non saranno la TAV, il caso Diciotti, tantomeno i risultati delle elezioni regionali ed europee a far cadere il governo Lega-M5S. Lo scontro tra i due partiti è una grandissima fakenewspropagandata dai principali mezzi di informazione a sostegno di un’opposizione parlamentare anestetizzata da una dialettica tutta interna all’alleanza tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. La separazione, dopo tutti i compromessi sulle nomine, con la progressiva occupazione del potere e un vero e proprio consenso plebiscitario, non conviene a nessuno. Entrambi lo sanno perfettamente: più passa il tempo, più azzerano qualsiasi forma oppositiva. Il futuro dell’Italia è pentastellato, nel senso che, domani, quando Forza Italia e Partito Democratico scenderanno sotto la doppia cifra percentuale, potranno spartirsi l’intera Italia secondo i principi dettati dalla nuova geografia elettorale del Paese.
Inoltre, e potremmo dire soprattutto, il futuro del governo (e delle opposizioni) è strettamente legato alla rielezione di Donald Trump – il quale aveva già fatto sapere di volersi ricandidare – alle presidenziali del 2020. Se il Tycoon vince, ci sono buone possibilità che l’alleanza Lega-M5S duri più di quanto molti si aspettano. Per capire il corso nazionale occorre studiare le meccaniche globali. In questo momento storico la Casa Bianca ha interesse nello sfaldamento del nostro continente e fa leva sui movimenti più o meno populisti (dalla Brexit passando per la protesta dei Gilets Jaunes, compreso il nostro governo) per mantenere il rapporto di subalternità geopolitica dell’Europa e indebolire l’odioso asse franco-tedesca, che nel frattempo si rafforza in una prospettiva “alter-americana”.
Col patto di Aquisgrana firmato poche settimane fa, Parigi e Berlino, hanno fatto sapere di voler esercitare congiuntamente il mandato alla presidenza del Consiglio di Sicurezza con l’obiettivo di avvicinare le loro politiche estere e forse anche quelle di difesa. Non a caso durante la conferenza di Varsavia organizzata da Washington per formare un asse anti-Iran, a differenza dell’Italia che ha deciso di partecipare con il ministro agli Esteri Enzo Moavero Milanesi, sono mancati i rappresentanti di Francia e Germania, nonché l’Alto Rappresentante per la Politica Estera Ue Federica Mogherini.
Lo scontro tra sovranisti ed europeisti nel cortile di casa imperiale risulta perfettamente funzionale alla dottrina Trump – dettata dai suoi consulenti neocon Abrams, Pompeo, Pompeo, Kushner e Bolton – che consiste, in un isolazionismo rivisitato (molto diverso da quello pronunciato in campagna elettorale). Dopo la sconfitta in Siria e la perdita di influenza in tutto il Vicino e Medio Oriente, gli Stati Uniti stanno spostando il baricentro della politica estera in Sudamerica, prima con il sostegno incondizionato a Jair Bolsonaro in Brasile, ora con la proclamazione di Jean Guaidò a nuovo presidente del Venezuela.
Al di là dell’Oceano Atlantico invece, l’Africa viene lasciata alla Cina, mentre il Medio Oriente alla Russia che pur essendo alleata di Siria e Iran, mantiene un canale diplomatico e commerciale aperto con Arabia Saudita e Israele, le quinte colonne di Washington nell’area. Siamo di fronte ad una spartizione globale in cui l’Europa è assente, per inerzia di Bruxelles, e incapacità di offrire ai Paesi membri prospettive serie e indipendenti, tantomeno un reale riavvicinamento alla Russia con la revoca delle sanzioni e dunque garantisce l’impossibilità di cambiare le alleanze condannandosi ad un isolamento maggiore.
Così sovranisti e populisti hanno la possibilità di aggredire frontalmente l’Unione Europea sostenuti indirettamente da Trump con il rischio però di farsi trascinare della nuova agenda statunitense ossessionata da nemici invisibili e falsi amici. Scelta legittima, ma occorre avere questa consapevolezza: da noi esistono partiti filo-americani ma in America storicamente non sono mai esistiti partiti filo-europei.
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