Condannati gli ex proprietari e vertici dell’Ilva di Taranto, così come i principali politici e uomini delle istituzioni imputati. La Corte d’Assise del tribunale jonico ha giudicato colpevoli i principali imputati del processo Ambiente Svenduto sul presunto disastro ambientale causato dall’acciaieria sotto la gestione dei Riva, tra il 1995 e il 2013. La giuria – che ha letto il dispositivo per 1 ora e 46 minuti a partire dalle 10.43, dopo 11 giorni di camera di consiglio – ha condannato Fabio Riva a 22 anni di reclusione e Nicola a 20 anni. Al responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, sono stati inflitti 21 anni e 6 mesi, sei mesi in meno all’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso.

Vendola condannato attacca i giudici – Ai principali fiduciari dell’acciaieria – considerati una sorta di “governo ombra” dei Riva – sono stati inflitti 18 anni di pena, mentre l’ex governatore Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso, ha ricevuto una pena di 3 anni e 6 mesiLa reazione dell’ex presidente della Regione è stata veemente, un attacco frontale alla giuria: “Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata. Sappiano i giudici che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia”, ha scritto definendosi un “agnello sacrificale” e sostenendo che “non starò più zitto”. Quindi ha definito la sentenza una “vergogna” e una “carneficina del diritto e della verità”.

Condanna per ex presidente della Provincia e consulente del pm – L’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, è stato condannato a 3 anni: era accusato di aver fatto pressione sui dirigenti della sua amministrazione perché concedessero l’autorizzazione all’Ilva per l’utilizzo della discarica interna alla fabbrica. Stessa pena per per l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva. L’ex consulente della procura Lorenzo Liberti, imputato con l’accusa di aver accettato una tangente di 10mila euro per “ammorbidire” una perizia sul siderurgico, ha ricevuto una pena di 15 anni. Condannato a 2 anni per favoreggiamento anche l’ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, che aveva annunciato durante il dibattimento di voler rinunciare alla prescrizione e per il quale la procura aveva chiesto 1 anno. Assolto invece il prefetto Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva del periodo del periodo più difficile del siderurgico per la quale l’accusa aveva chiesto 17 anni.

Le confische – A Ilva è stata comminata una sanzione di 4 milioni euro e l’area a caldo dello stabilimento è stata confiscata. La confisca disposta dalla sentenza non dovrebbe avere effetti sulla produzione del siderurgico, perché sarà operativa solo nel momento in cui dovesse essere confermata dalla Cassazione. Al momento resta attivo il sequestro con facoltà d’uso da parte di Acciaierie Italia, la join venture tra ArcelorMittal e Invitalia, che gestisce l’impianto. L’acciaieria di Taranto, come già confermato dalla Corte Costituzionale, è infatti dal 2012 considerato per legge un impianto strategico per l’economica. I giudici hanno stabilito la confisca per equivalente del profitto illecito nei confronti delle tre società Ilva spaRiva fire spa, oggi Partecipazioni industriali spa in liquidazione, e Riva forni elettrici per gli illeciti amministrativi per una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro in solido tra loro.

Le accuse – La Corte d’Assise – presieduta da Stefania d’Errico, giudice a latere Fulvia Misserini – ha sostanzialmente giudicato valido l’impianto accusatorio dei pm Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano, coordinati dal procuratore facente funzione Maurizio Carbone che avevano portato alla sbarra, a vario titolo, associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, avvelenamento di sostanze alimentari, corruzioni in atti giudiziari, omicidio colposo e altre imputazioni. Gli imputati erano stati rinviati a giudizio nel 2015, ma il dibattimento iniziato davanti alla Corte d’Assise era stato annullato qualche mese più tardi e si era tornati in udienza preliminare. Il secondo processo, cominciato nel 2016, si è concluso oggi e ha visto 47 imputati alla sbarra (44 persone fisiche e 3 società).

Come iniziò la vicenda – La vicenda legata al presunto disastro ambientale era deflagata il 26 luglio 2012 quando venne notificato il decreto di sequestro degli impianti, firmato dalla gip Patrizia Todisco, quando gli operai avevano già isolato la città perché il provvedimento era sostanzialmente “annunciato” da quanto stava avvenendo da settimane. Per quaranta giorni i carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Lecce avevano filmato gli sbuffi dell’acciaieria più grande d’Europa, le nuvole di minerale, come chiamano a Taranto le polveri di ferro e carbone che viaggiavano verso il quartiere Tamburi dai parchi, allora scoperti, dove venivano stoccate in attesa di diventare acciaio.

Le reazioni del sindaco e della procura – “Credo che da oggi cambia tutto per questo Paese, cambia tutto per Taranto, per i diritti dei tarantini. Tutte le sofferenze che ci portiamo dietro finalmente vengono riconosciute dallo Stato italiano”, ha detto il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci. Per la procura di Taranto, la sentenza “rappresenta un momento importante per la città di Taranto” che chiude “la prima fase di una delicata e complessa vicenda giudiziaria”, ha scritto il procuratore facente funzioni Carbone. “È stato un percorso giudiziario lungo e travagliato, una strada in salita e con tanti ostacoli, ma oggi – aggiunge – possiamo esprimere la nostra soddisfazione per questo primo importante risultato. Leggeremo con attenzione le motivazioni di questa sentenza che rappresenta una svolta storica sul piano giudiziario per la città di Taranto, e non solo”.