Processi giudiziari, processi politici e processi storici per l’ex Ilva di Taranto
di MARX XXI (Salvatore Romeo)
Un’analisi delle tre dimensioni dello storico Salvatore Romeo, autore de “L’ acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 a oggi” (Donzelli,2019)
– Il purismo, il giustizialismo, la propensione al pensiero magico sono elementi quasi strutturali di una società frantumata.
Una sentenza di primo grado è una sentenza di primo grado. L’iter processuale è ancora apertissimo e verosimilmente lungo. Essa però può dare spunto per una riflessione su alcuni dati di realtà, che è opportuno non tralasciare.
1) I commenti a caldo dei legali dei Riva appaiono proiettati da un’altra epoca. Vent’anni fa si poteva dire che non c’è prova del nesso causale fra inquinamento e danni sanitari nel caso di Taranto; ancora dieci anni fa lo si poteva ritenere incerto. Ma oggi, dopo che si sono sedimentate indagini scientifiche di diverso tipo, è davvero improbabile continuare a sostenerlo “in scienza e coscienza”. Esiste una verità di fatto che gode di ampio consenso nella comunità degli esperti, una verità che è forse il frutto più maturo della presa di coscienza del problema, emersa con fatica nel corso di diversi decenni, e del suo studio attento. Altro è stabilire le responsabilità personali in relazione a quel fatto: su questo piano, la sentenza di oggi è un primo momento che dovrà passare da altri due gradi di giudizio. Ma anche se le sentenze definitive accertassero l’innocenza degli ex dirigenti di Ilva, il fatto non verrebbe meno (a meno di nuove clamorose scoperte in grado di mettere in discussione l’interpretazione corrente).
2) È altresì un fatto che la Regione Puglia, fra il 2005 e il 2012, ha sviluppato un’iniziativa in ambito ambientale rivelatasi indispensabile per la stessa istruttoria del processo. I dati raccolti per dimostrare l’impatto del siderurgico hanno come fonti principali e imprescindibili ARPA E ASL. Il lavoro di queste istituzioni ha ricevuto un impulso decisivo dopo l’elezione a presidente di Nichi Vendola. Fino ad allora ARPA era un guscio vuoto; tutto quello che è diventata in seguito lo si deve al prof. Giorgio Assennato. Egli ha anche ispirato innovazioni legislative fondamentali, come la Valutazione del Danno Sanitario, per la quale la Puglia ha fatto da apripista a livello nazionale. Le condanne di Vendola e Assennato non possono oscurare quest’altra verità di fatto. Anche perché esse si riferiscono a un episodio circostanziato che, pure se dovesse essere confermato dai due gradi successivi, non potrebbe incidere sul giudizio complessivo intorno a quella stagione.
3) Vendola tuttavia, in un senso più ampio, non può essere considerato “innocente”. Egli ha responsabilità gravi. Ma queste non hanno niente a che vedere con l’aver trattato coi Riva – cosa che un presidente di Regione è tenuto a fare – o con gli inevitabili compromessi che ha dovuto accettare dati i rapporti di forza. La sua principale “colpa” è squisitamente politica. Proprio mentre, a livello di opinione pubblica, esplodeva il caso Ilva (fra il 2008 e il 2009) Vendola stava distruggendo la sua comunità politica in nome di un modello che allora sembrava vincente: il rapporto plebiscitario fra il leader e i “movimenti”. Questa strada, che lo stesso Bertinotti aveva provato a battere senza successo, aveva fruttato la vittoria del 2005 (o almeno così pensava il suo entourage, sottovalutando l’oscuro lavoro di mobilitazione dei partiti). L’obiettivo strategico era riportate “in partita” la sinistra dopo le catastrofiche elezioni del 2008, sfidando il PD per la guida di una nuova coalizione. Le amministrative del 2010-2011, e il referendum dello stesso anno, sembravano confermare le attese. Nel frattempo però veniva sottovalutato lo smottamento sociale e ideologico provocato dalla crisi e non si coglieva adeguatamente la portata della svolta dell’estate 2011, che avrebbe condotto al governo Monti. In quel torno di tempo la partita si chiudeva e a SEL non restava che accettare una posizione di subalternità strutturale come condizione per la permanenza nel centrosinistra. Così, mentre il movimento ambientalista muoveva i primi passi, la sinistra politica si avviava verso un inarrestabile declino. Certo, in Puglia i risultati elettorali sembravano continuare a premiare quella scelta. Ma come erano ottenuti? Spesso riempiendo le liste di spregiudicati “portatori di voti” raccattati nelle pieghe della società locale e con la frustrazione delle energie più sincere. I compagni che avevano mollato dopo la deflagrazione di Rifondazione venivano seguiti da un flusso inarrestabile di militanti, mentre i rapporti fra ex sodali restava segnato da rancori profondi. Vendola non sembrava curarsene molto, arrivando a prefigurare il superamento definitivo del partito con “le fabbriche di Nichi”. E contestualmente inaugurando una politica di “front office” verso i movimenti. Ma erano anche gli anni del “patto col diavolo” Don Verzè per la costruzione del San Raffaele a Taranto. Era un intreccio di governismo e spontaneismo, che passava dall’archiviazione dell’organizzazione politica. Per un po’ ha sembrato funzionare. Gli avanzamenti in campo ambientale, per esempio, sono stati in buona parte frutto di questa combinazione, cioè del dialogo fra l’apparato amministrativo e la società civile. Ma questa forma di disintermediazione ha mostrato tutti i suoi limiti quando si è dovuto gestire il compromesso. Allora si è rivelata fatale la mancanza di un corpo politico in grado di assorbire l’urto e rielaborare la sconfitta – o anche di separarsi dal potere per ritrovare una motivazione. Dopo aver cercato di tenersi in equilibrio fra le spinte dell’ambientalismo e la realtà di rapporti di forza sfavorevoli, Vendola è finito schiacciato. A partire dall’estate del 2011, con il rilascio della prima AIA (da lui accolto positivamente nonostante alcune importanti prescrizioni proposte da ARPA fossero state rigettate) per il movimento è diventato il traditore per eccellenza. A nulla gli è valso, qualche mese dopo, chiedere il riesame di quell’atto, approvare la VDS ecc. Intanto era entrato in campo un nuovo paladino: la magistratura, con tutta la sua perentorietà. Si è trovato isolato, con i media che fino a poco prima lo avevano coccolato diventati ostili. Il caso Taranto d’altra parte è stato usato anche come occasione per ridimensionare definitivamente le sue ambizioni e definire precise gerarchie nel quadro politico. Presto, fiutando il vento che cambiava verso, anche i portatori di voti lo hanno abbandonato. Lo stesso modello che lo aveva spinto in alto lo fagocitava, ma non moriva con lui. Anzi, veniva ripreso e rilanciato – in forme ancora più esasperate – da un comico genovese e dai suoi adepti. Nel giro di poche settimane Vendola diventava una delle incarnazioni più aberranti della “casta”: il potente che se la ride della sorte tragica dei suoi governati con il factotum di uno dei più grandi gruppi industriali del paese.
4) Dopo Vendola e SEL, quel modello ha inghiottito anche i 5 stelle. Anche loro non hanno retto alla prova della mediazione, perché – assai più di Vendola – nei confronti di quest’ultima hanno sempre provato una repulsione viscerale. Ma quel modello – che potremmo chiamare “populismo” se questa parola non fosse ormai logora – è più vivo che mai. E alcune reazioni alla sentenza di oggi lo dimostrano. Il purismo, il giustizialismo, la propensione al pensiero magico sono elementi quasi strutturali di una società frantumata. Prima o poi qualcun altro verrà a cercare nuovamente di verticalizzare quegli impulsi. Siamo quindi condannati a una spirale regressiva? Non necessariamente, ma l’alternativa costa fatica. Riconoscere gli errori del passato sarebbe già un primo passo per muoversi nella giusta direzione.
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