Politica a perdere
di Gazzetta Filosofica (Valentina Gaspardo)
La politica ha fallito. Fallisce costantemente quella odierna, che punta al ribasso e la cui unica relazione con i cittadini rimane il momento della demagogia elettorale; ma ha fallito anche quella “vecchio stile”, ormai sparita dalla scena, eccezion fatta per piccoli e sparuti gruppi. D’altro canto, proprio quest’ultima non ha retto l’urto dello scioglimento delle grosse compagini partitiche né la caduta dei paesi “altri”, baluardi di quell’anticapitalismo che pareva destinato al trionfo. La morte dei vecchi ideali meriterebbe un approfondimento a parte; qui ci limiteremo a osservare che, evidentemente, il suo rigetto deriva da una sua mancanza.
Oggi spadroneggia il populismo. Una parola di moda che però denota, a nostro avviso, qualcosa di più complesso e importante del solito “riduzionismo” concettuale cui viene soggetto il populista. Ora, la parola è utilizzata come sinonimo d’ignoranza, di faciloneria politica che non tiene conto delle complessità e delle difficoltà che abitano il mondo della gestione statale, economica, sociale di una patria. Allora va bene, si dica pure che la risposta “di pancia” o da bar sia dovuta all’ignoranza delle circostanze. Ma con ciò non se ne è ancora spiegato il perché. Cioè perché esiste il populismo e proprio questa “corrente” va per la maggiore? Le cause saranno molteplici; però influisce certamente la fine della politica di massa, che educava i cittadini al continuo confronto con le complicanze celate nel governo della cosa pubblica. Tempi in cui le masse si riversavano entusiaste entro le sedi di partito – quale che fosse; parlamentare o meno – e che già per questo fatto dimostravano un interesse differente e senz’altro una capacità politica più ampia, temprata dai mille dibattiti e dalle scuole formative. Ma non è solo questo. C’è dell’altro: chi, fra noi, riuscirebbe a carpire il pensiero politico di uno soltanto dei candidati? Chi conosce il pensiero politico di segretari il cui unico legame col pubblico risiede nella fugace battuta da social? O qualche stralcio di intervista? Non esistono neppure più i veri e propri giornali di partito, in cui un politico scriva articoli, pubblichi saggi, esponga i suoi studi. Quali studi, poi?
Se queste affermazioni non sono campate per aria, allora sembra assai naturale che sorga il populismo. Nessuno è a conoscenza di nulla. Nessun giornale alternativo che smascheri le frodi, gli inganni – che faccia, in una parola, opposizione. È naturale perciò il conseguente proliferare di fake news: i conti non ci tornano rispetto ai media ufficiali, alle garanzie del leader di turno, alle conseguenze dei loro gesti. Allora, come ciechi, brancoliamo nel buio e ci beviamo ogni intruglio possibile.
Ma, dicevamo, neppure la politica vecchio stampo se la passa bene. Dio sa quante siano le faide interne ai gruppi d’estrema sinistra, che hanno, nella quasi totalità dei casi, ragioni personali. Amicizie, inimicizie, possibilità di carriera e visibilità. Attorno a questi punti – piuttosto ignobili, a nostro avviso – ruota tutta l’alternativa all’esistente. Non ci si raccapezza più. E l’appeal cala sensibilmente. Cala ora per ragioni di questo genere, ma era già caduto in passato, dopo le varie debacle e prepotenze più disparate. E vorremmo dire che il punto è proprio questo. Non si trovano alternative soprattutto perché non si trovano uomini capaci di pensarle e compierle. Ci provano e si mettono in gioco. Però non basta la buona volontà se poi le dinamiche riproposte sono le stesse, come nelle telenovele.
E perché nessuno riesce a pensarle, queste alternative? Perché ci sono delle condizioni preliminari da rispettare, in “attesa” dell’epifania. Per trovare il nuovo bisogna cercarlo, e cioè va messa in discussione tutta la mole di dogmi ereditati dal passato. Se non ha funzionato allora non funzionerà neppure oggi, e non vale cercare le cause più estrinseche, per raccontare a sé e agli altri, implicitamente, che “non è stata colpa nostra; sono le circostanze!” Gli sconfitti sono i più sfortunati. Dicevamo: bisogna cercare, e per cercare è indispensabile misurarsi con la vita odierna, in un confronto pluridisciplinare che metta a fuoco le dinamiche presenti, anche in raffronto con il Novecento. Perciò un’analisi che dica solamente, contro il fatto di turno, che l’attività politica fa gli interessi del più forte è ben poca cosa rispetto a quanto servirebbe per svelare, appunto, quelle dinamiche di cui siamo ben poco a conoscenza. Osteggiamo questa politica proprio perché serve il più forte e nega il giusto (e vi sarebbe bisogno d’intendersi anche qui); perciò che essa serva il più forte rimane un’ovvietà, una tautologia che ribadisce la tesi di fondo. Ci sarebbe da chiedersi: cosa è cambiato e cosa perdura rispetto a un tempo? Quali visioni sono sorte in contrapposizione alla nostra vecchia politica che fungeva da alternativa e che noi abbiamo ripreso paro paro, invece, come il catechismo? Alla luce dei risultati, quale alternativa sarebbe auspicabile e dove ha fallito quella sconfitta? Ebbene, manca chi si interroghi davvero, si guardi tutto intero e metta in gioco se stesso.
« Il vero uomo di partito ha finito di imparare, egli continua soltanto a sperimentare e giudicare, mentre Solone, che non fu mai uomo di partito […] è caratteristicamente il padre di quel semplice detto, in cui è racchiusa la sanità e l’inesauribilità di Atene: “divento vecchio e continuo sempre ad imparare”. » (F. Nietzsche, Umano troppo umano, II, 301)
In seconda battuta, è un’altra la virtù su cui la nostra società non si interroga mai, né perciò indaga la sua condotta. Le relazioni umane che si intessono oggigiorno sono spesso e volentieri malsane, manipolatrici, false. Anche qui vi sarebbe di che approfondire a lungo sulla scorta della grande psicologia, ma per ragioni contestuali potremo solo accennarvi. Se la menzogna e il risentimento sono i sentimenti che predominano, e causano dolore a chi li subisce per il dolore “inconsapevole” di chi li compie, e se le loro ragioni dipendono da una cattiva educazione (con tutte le complessità che stanno dietro a questo termine), allora va da sé che un compito imprescindibile è trovare la strada per uscire dal circolo vizioso, di feriti che diventano carnefici e carnefici feriti. Jung diceva che non basta mostrare il punto in cui si innesta la nevrosi, la malattia ma serve anzitutto «rendere consapevoli di qualcosa di diverso e meglio». In altre parole, «una forma di vita non può essere abbandonata se non se ne riceve un’altra in cambio» (C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni). Trascurare questi aspetti vale ripeterli ad oltranza, fratelli contro fratelli.
Il guaio, per chi vuole cambiare il mondo, è che anzitutto sembra indispensabile cambiare l’uomo: non ci salveremo disinteressandoci della politica, ma la politica non ci salverà se non estende il suo interesse all’uomo nella sua interezza. Avremo bisogno di un cambiamento antropologico, per dirla con Pasolini.
Fonte: https://www.gazzettafilosofica.net/2021-1/settembre/politica-a-perdere/
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