Il decreto Caivano: la guerra ai poveri non si ferma neanche di fronte alla minore età
di GLI ASINI (Susanna Marietti)
Il cosiddetto decreto Caivano (D.L. n. 123 del 13 settembre 2023 recante “Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale”) è solo uno dei vari atti normativi di supposta necessità e urgenza con effetti sul sistema della giustizia penale emanati dall’attuale governo sull’onda emotiva di fatti di cronaca appena accaduti. I nomi informali dei decreti testimoniano tale pratica deteriore, fin dal ‘decreto rave’ uscito dalla prima riunione in assoluto del Consiglio dei Ministri alla fine dell’ottobre 2022 e passando per il decreto Cutro del marzo di quest’anno.
Non è mai una buona idea quella di legiferare all’indomani di eventi più o meno drammatici. Il diritto penale, nella propria ordinarietà, dovrebbe costituire un sistema coerente di norme atte a individuare comportamenti punibili e corrispondenti punizioni lungo una scala di gradazione disegnata con criteri razionali secondo la gravità del danno arrecato al bene comune, le quali norme dovrebbero avere di per sé la forza di far fronte ai singoli accadimenti che di volta in volta possono presentarsi. Il sistema è forte se sa restare costante nel tempo, se sa predisporre le regole a monte della realtà concreta senza doverla rincorrere giorno dopo giorno rotolando a valle. Inevitabilmente perderà la propria coerenza qualora la produzione di norme penali venga effettuata non in base a un’astratta valutazione della gravità dei comportamenti ma piuttosto a seguito di questo o quell’evento che infiamma l’opinione pubblica. L’eccessiva e spesso sconsiderata produzione di leggi penali cui purtroppo abbiamo assistito da ben prima dell’attuale governo ha condotto a un sistema penale oggi irrazionale e poco ispirato al principio di proporzionalità.
È in questo quadro che si inscrive, tra gli altri, il decreto Caivano, convertito in legge nel novembre scorso. Un esempio evidente di tentativo di guadagnare facile consenso presso l’opinione pubblica introducendo reazioni repressive contro falsi allarmi sociali. Non vi è infatti alcuna emergenza che riguardi oggi la criminalità minorile. Ma i cosiddetti populismi penali – quelle strategie politiche che usano la repressione penale verso la criminalità di strada per ottenere facili consensi nei confronti di paure poco razionali e a loro volta manovrate – condividono tutti un totale disinteresse nei confronti del dato statistico.
Se infatti guardiamo ai numeri dei minori denunciati all’autorità giudiziaria dalle forze di polizia negli ultimi dieci anni, troviamo un andamento oscillatorio che vede gli ultimi dati del tutto in linea con gli anni precedenti.
A fronte di tali falsi allarmi e di tale ricerca di facile consenso, si rischia oggi di smantellare un sistema che da vari decenni ha dato prova in Italia di funzionare. Mi riferisco al sistema della giustizia penale minorile, che le ultime norme tentano di sovvertire fin nei suoi principi ispiratori. Il sistema italiano della giustizia penale minorile costituisce un modello al quale si rivolge l’intera Europa. Non a caso la direttiva dell’Unione Europea del 2016 (n. 800) sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali, alla quale l’Italia ha fornito un contributo decisivo, guarda in maniera essenziale al nostro modello. Il processo penale minorile disciplinato dallo specifico codice di procedura penale del 1988 (D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448) è stato capace di abbracciare un modello sostanzialmente educativo nella gestione del giovane autore di reato, minimizzando il ricorso alla pena carceraria.
Il codice di procedura penale minorile viene approvato a seguito di un grande dibattito che si produce nella società italiana fin dai decenni precedenti. Vi è un forte movimento culturale che – in vari ambiti, si pensi al percorso che portò alla chiusura dei manicomi – guarda in generale a scelte anti-istituzionali.
Una serie di sentenze della Corte Costituzionale, che già dai primi anni ’70 ha saputo cogliere le trasformazioni profonde nella società italiana, aiutano tale percorso diventando una guida autorevole verso l’adozione del codice del 1988. Molte delle sentenze si rifanno all’art. 31 della Costituzione: “La Repubblica (…) protegge (…) l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Il sistema penale viene inserito in queste considerazioni e anche al suo interno si cominciano a ricercare tali istituti necessari. Nel 1973 la Consulta arriva perfino ad affermare che la realizzazione della pretesa punitiva da parte dello Stato deve venire subordinata al dovere pubblico verso il recupero del minorenne.
Si afferma sempre più l’idea che la prima finalità del diritto minorile sia quella di educare – e non certo di punire – il giovane autore di reato, espressione di una personalità ancora in divenire che non può in alcun modo venire inchiodata al momento della commissione del crimine. Il codice di procedura penale minorile vuole incorporare in sé tali principi. Il processo minorile, al contrario di quello per gli adulti, non si limita alla valutazione del fatto di reato, ma è teso innanzitutto a valutare la personalità del giovane, al fine di progettare interventi mirati sui suoi bisogni e sulla sua condizione sociale e psicologica e di restituirlo alla società. Il principio del superiore interesse del minore, che nel 1989 sarà sancito all’art. 3 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, è rispecchiato nelle norme che il legislatore italiano ha introdotto al momento della riforma del codice di procedura penale.
Tale principio, che entra formalmente nel nostro ordinamento in quanto sovraordinato alle norme nazionali, è del tutto calpestato dalle recenti evoluzioni normative di supposto contrasto alla criminalità minorile. Oggi, a fronte di oltre 14.000 ragazzi e ragazze in carico ai servizi della giustizia minorile, troviamo nei diciassette Istituti Penali per Minorenni d’Italia circa 500 minori o giovani adulti, il 3,5%. Per la stragrande maggioranza, il sistema riesce a trovare alternative di vario genere alla risposta carceraria e spesso anche alla stessa risposta penale. È facile prevedere che non sarà così in futuro e che le nuove norme produrranno un aumento significativo nei numeri della carcerazione minorile.
Inoltre, si accentuerà ancora di più quella selezione sociale che già si effettua alle porte del carcere. Oggi le carceri minorili italiane ospitano per ben il 53,2% giovani detenuti stranieri. Una accentuata sovra-rappresentazione che non si spiega con la gravità del reato commesso, solitamente minore rispetto a quella dei reati commessi da italiani, bensì con la difficoltà a trovare collocazioni alternative vista la maggiore marginalità sociale e l’assenza di relazioni sul territorio.
Il decreto Caivano va ad agire direttamente sul codice di procedura penale minorile, nonché su altre norme dalla valenza penale e amministrativa. Si estende, tra le altre cose, la possibilità di disporre la custodia cautelare in carcere, che vedrà inevitabilmente un aumento delle presenze nel sistema penitenziario. Si diminuisce infatti il massimo della pena dei reati che la prevedono, ma si introducono anche i reati di scippo, resistenza a pubblico ufficiale e fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti tra quelli per i quali la si può disporre.
Per quanto riguarda in particolare la normativa sulle droghe, si alzano le pene per i comportamenti di lieve entità, che spesso riguardano giovani che consumano sostanze psicotrope anche leggere e sono coinvolti solo occasionalmente nel piccolo spaccio. Il populismo penale è qui più evidente che mai: la storia ha dimostrato la totale incapacità preventiva e la mancanza di deterrenza della sola repressione penale in materia di droghe, dal 1990 – anno di entrata in vigore del Testo Unico – il traffico e il consumo di stupefacenti non sono diminuiti, oltre un terzo dei detenuti nelle carceri italiane è recluso per violazioni alla normativa sugli stupefacenti (quasi il doppio della media europea) con un grande peso sui costi e sull’affollamento penitenziario. L’intero mondo, a partire dalle Nazioni Unite, ha riconosciuto come fallimentare tale sistema repressivo. Guardando ai più giovani, invece di intervenire sui servizi per la tossicodipendenza e sull’educazione nelle scuole, si va ad inasprire un sistema sanzionatorio che ha dimostrato avere altissimi costi economici e sociali.
Uno sguardo alla parte del decreto che riguarda norme di carattere amministrativo mostra altrettanto chiaramente l’irrazionalità degli interventi, nonché la loro forza discriminatoria e del tutto contraria a qualsiasi principio di tutela dell’infanzia. Si estende ai minori tra i quattordici e i diciotto anni la possibilità di disporre l’ordine di allontanamento da infrastrutture cittadine quali le stazioni per chi vi commercia senza autorizzazione, per chi dice parolacce, per chi è ubriaco o per chi semplicemente vi si trattiene.
Per i condannati di recente, anche non in via definitiva, per reati quali, tra gli altri, oltraggio o resistenza a pubblico ufficiale in occasione di disordini presso luoghi pubblici, il questore può disporre il divieto di avvicinamento a essi. Si tratta del cosiddetto Daspo urbano, introdotto dal decreto Minniti del 20 febbraio 2017, n. 14, recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città” e oggi esteso ai minorenni. Una misura di prevenzione che si applica prima della commissione di un reato, allo scopo di prevenirlo piuttosto che di sanzionarlo.
Questa sorta di amministrativizzazione del diritto penale, che lo sottrae al sistema di garanzie previste per quest’ultimo pur mantenendone tutto il carico afflittivo, è un problema già di per sé.
Non a caso la giurisprudenza nazionale e sovranazionale ha da sempre cercato di ricondurre tali misure entro limiti rispettosi del principio di legalità, cosa che non sembra fare l’ampia discrezionalità concessa in questo contesto al questore in ambito urbano.
Sarà lui a decidere chi allontanare da quali luoghi, chi ha diritto a vivere pienamente la città e chi invece ne compromette il decoro, evidentemente coloro cui il disagio e l’assenza di domicilio costringono a comportamenti così sanzionabili. I ragazzi più poveri, gli immigrati, i minori stranieri non accompagnati – che negli ultimi tempi hanno fatto prepotentemente ingresso anche nel sistema penale minorile – saranno i primi destinatari delle nuove norme allargate, creando un circolo vizioso che aggiungerà esclusione e marginalità sociale a persone già altamente sofferenti e penalizzate.
La vera prevenzione si fa con le politiche sociali, con le politiche economiche e del lavoro, con le politiche sanitarie e abitative, non con questo modello di gestione repressiva della convivenza urbana che vuole dare inutili e dannose risposte simboliche a problemi sociali complessi.
E quale valenza educativa potrà mai avere l’ordine di allontanamento – o l’avviso orale del questore, previsto da un altro articolo del decreto e pericolosamente allargato fino ai dodici anni di età – impartito da una figura che di educativo non ha nulla e che un adolescente percepirà quale inutile strumento di burocrazia repressiva? Il ragazzo, ancora più se straniero e con un vissuto migratorio alle spalle, ha bisogno di dialogo e di ascolto, non certo di avvisi orali e ordini di allontanamento, del tutto in contrasto con il principio del superiore interesse del minore, che difficilmente sarà quello di venire allontanato da luoghi di frequentazione.
Così come di dialogo hanno bisogno quegli ambienti nei quali può maturarsi la dispersione scolastica.
Il decreto introduce il reato di inosservanza dell’obbligo dell’istruzione dei minori, punendo con pene fino a due anni il responsabile dell’adempimento dell’obbligo scolastico che, già ammonito dal sindaco, non adempia adeguatamente a tale sua responsabilità. Una norma pensata in primo luogo contro la comunità rom e del tutto priva di efficacia preventiva. I contesti nei quali si riscontra generalmente la dispersione scolastica non sono permeabili alla minaccia di sanzioni che spesso neanche comprendono, ma necessitano piuttosto di interventi sociali ed educativi sul territorio.
La filosofia di questo decreto, che abbiamo voluto analizzare quale esempio plastico della filosofia che guida gli interventi dell’attuale governo in materia penale, va contro il buon senso, contro le norme internazionali e contro quarant’anni di storia di giustizia minorile. Alla guerra ai poveri ci avevano già abituati in passato. Serviva la guerra ai poveri minorenni per aggiungere un nuovo vergognoso tassello.
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