Il regionalismo differenziato è tornato al centro dell’agenda politica del Paese dopo l’insediamento del nuovo governo, che lo ha inserito fra i propri punti programmatici. Recentemente, dunque, il Consiglio dei Ministri ha approvato un ddl nel tentativo di spianare la strada all’attuazione dell’art. 116, III comma, Cost. che consente alle regioni di ottenere «forme condizioni particolari di autonomia».
Si tratta di un processo rischioso e difficilmente attuabile[1].
Per comprendere i rischi del processo in corso occorre spendere qualche riflessione sulla riforma del titolo V del 2001, che ha sancito in Costituzione tale possibilità. Se il Titolo V del 2001 è stato efficacemente definito un «monumento di insipienza politica e giuridica»[2] (così Gianni Ferrara, fra i pochi che si spesero per il no al referendum del 2001), sarà quasi impossibile trovare le parole adatte per definire l’attuazione di una disposizione che rischia di cancellare ogni residua traccia di razionalità, che ancora tiene assieme le nostre sfilacciate istituzioni.
Chiunque si mettesse a leggere, con la dovuta attenzione, l’articolo 117 della Costituzione, così come riscritto nel 2001, resterebbe basito. Si renderebbe conto che alle regioni sono state attribuite competenze su materie che trascendono il loro interesse, che nemmeno in ordinamenti federali sfuggono alla competenza della federazione.
Le regioni «legiferano», infatti, in tema di «grandi reti di trasporto e di navigazione» (se sono «grandi» non superano, per definizione, i confini regionali?), di «porti e aeroporti» (può esistere un «aeroporto» di interesse regionale, cioè per collegare Venezia con Verona o Milano con Bergamo?), alle regioni è attribuito il compito di «coordinare» (sic!) la finanza pubblica, di disciplinare le «professioni» (ingegnere, avvocato, medico, ecc.), di occuparsi «dell’ordinamento della comunicazione» (cioè di una materia che sfugge allo stesso dominio dello Stato), finanche di dettar legge su «produzione, trasporto e distribuzione nazionali (sì, avete letto bene, «nazionali»!!!) dell’energia elettrica», di legiferare in tema di «commercio con l’estero» ad altre amenità. Per non citare le competenze residuali, quelle non espressamente attribuite né allo Stato, né alle regioni, che spettano – ca va sans dire – alle regioni: servizi e lavori pubblici, turismo, agricoltura, commercio, industria.
Se il sistema Paese non è imploso, lo si deve alla saggia opera di «riscrittura» (così in dottrina una rara voce critica) del Titolo V fatta, tra mille difficoltà, dalla Corte costituzionale. Un compito complicato, peraltro, perché la Consulta è nata per giudicare della costituzionalità delle leggi, non per riscrivere, in via interpretativa, disposizioni (irragionevoli) della Costituzione stessa[3].
Per comprendere che il riparto di competenze previsto dall’art. 117 Cost. sia privo di senso (logico, prima ancora che giuridico) non occorre essere laureati in giurisprudenza: le regioni hanno competenze su materie che incarnano interessi che superano i confini regionali. L’art. 116.3 comma, che consente alle regioni di acquisire «ulteriori» poteri, rappresenta, pertanto, un’irragionevolezza che si aggiunge ad irragionevolezza. Che senso ha attribuire «ulteriori» competenze alle regioni se già su quelle che hanno attualmente non sono, di fatto, in grado di provvedere?
Questo articolo contiene in sé un principio di dissoluzione del sistema, in grado di trasformare le regioni in tante piccole patrie.
Il processo, oltre ad essere rischioso, come si osservava all’inizio, è anche di difficile attuazione. Come se non bastasse, infatti, la stessa procedura prevista dall’art. 116.3 è scriteriata: non si chiarisce chi sono gli attori del processo (parlamenti o governi); si fonda su un inammissibile principio pattizio che mette Stato e regioni sullo stesso piano (così come fa l’art.114 Cost. che considera la Repubblica «costituita» da comuni, province, città metropolitane regioni e stato[4]). La procedura prevede, infatti, una «intesa» fra Stato e regione e una successiva legge dello Stato votata a maggioranza qualificata. Se ci si rendesse conto di aver fatto un errore, per riappropriarsi della competenza dismessa lo Stato dovrebbe ottenere il consenso della regione con una nuova «intesa»[5]. Ma quale regione acconsentirebbe a privarsi di una competenza?
Ecco perché molti studi hanno indicato come costituzionalmente necessaria una legge di attuazione del 116.3 comma, proprio al fine di chiarire gli aspetti più controversi di una procedura solo abbozzata, con errori impostazione tali, tuttavia, che difficilmente possono essere sciolti con un disegno di legge ordinaria.
Ad esempio, il disegno di legge approvato in Consiglio dei ministri cerca, senza riuscirvi, di mettere un argine a questa inammissibile conseguenza di un trasferimento perpetuo: è prevista la durata di 10 anni della cessione di competenze. Ma se ci si è resi conto di aver commesso un errore, 10 anni è un tempo infinito! E poi, cosa accadrebbe dopo 10 anni? Lo Stato non avrebbe nemmeno più un ufficio, mentre la regione, inefficiente, disporrebbe di soldi e burocrazia; e con quali ulteriori danni per i cittadini si tornerebbe indietro?
Se l’art. 116.3 comma risulta privo di logica (comune, prima ancora che giuridica), questo non vuol dire che la sua attuazione non possa far gola e che dalla sua irragionevolezza classi dirigenti irresponsabili non possano trarre profitto a detrimento dell’interesse generale.
Questo articolo è, infatti, diventato un pass par tout usato da burocrazie e ceto politico regionali per acquisire maggiori poteri di spesa in ambiti dov’essa è ingente (scuola, istruzione, ambiente, beni culturali) o dov’è possibile ottenere entrate importanti (autostrade, ferrovie, porti, infrastrutture). Questo è il vero motore che spinge gli attori regionali a invocare l’attuazione di questa disposizione: l’egoismo delle burocrazie regionali assetate di potere. Questo è il ricatto cui lo Stato da anni si sta piegando, non senza opporre resistenze; ricatto reso possibile dall’immenso peso politico acquisito dai presidenti delle regioni grazie alla loro elezione diretta, altra ‘innovazione’ del ‘glorioso’ riformismo degli anni Novanta, che ha contribuito ad emarginare le assemblee elettive, a disgregare il sistema politico e ad esautorare ogni forma di partecipazione dei cittadini, al di là del mero esercizio del diritto di voto (per scegliere fra alternative politicamente indistinguibili): sperimentazione realizzata prima a livello comunale, poi estesa alle regioni.
Questo obiettivo che le burocrazie regionali si propongono è del tutto avulso da esigenze di funzionalità del sistema e dall’interesse dei cittadini: nessuno ha spiegato perché concessioni autostradali regionali sarebbero un vantaggio per i cittadini lombardi o perché un bene culturale patrimonio dell’umanità come, ad esempio, la Cappella degli Scrovegni, dovrebbe essere gestito più efficacemente da un assessorato della regione Veneto. E via dicendo.
L’articolo 116.3 comma, come si accennava, è stato al centro dell’agenda di tutti, dico tutti, i governi (Conte I, Conte II, Draghi, e, adesso, Meloni), che si sono succeduti a partire da quello Gentiloni, che si è macchiato del peccato originale di aver dato, a legislatura scaduta (28 febbraio 2018), irresponsabilmente il via a questo processo, firmando delle scellerate pre-intese con il Veneto di Zaia, la Lombardia di Fontana e l’Emilia-Romagna di Bonaccini, che miravano «esplicitamente» a una redistribuzione del reddito all’incontrario, come fu efficacemente sottolineato da Gianfranco Viesti e pochi altri (cito dalla pre-intesa firmata dal Governo Gentiloni con l’Emilia Romagna: i fabbisogni standard sono calcolati con riferimento «al gettito dei tributi maturati nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali, fatti salvi gli attuali livelli di erogazione dei servizi»). Tutta la propaganda in favore dell’autonomia differenziata, infatti, si è fondata sulla tesi, inaudita in qualsiasi Stato, per cui ci sarebbe un fantomatico quanto paradossale residuo fiscale (cioè la differenza tra tasse pagate e servizi ricevuti) negativo per le regioni del Nord e positivo per quelle del Sud, cui si sarebbe dovuto rimediare. Come? Finendo, così, per attribuire ai ricchi un diritto al rimborso a carico dei poveri!
Su questo punto, per la verità, il ddl appena approvato tenta (invano, sia chiaro!), di porre un rimedio. Prescrive, infatti, che l’autonomia differenziata possa farsi solo a condizione che siano approvati i LEP, cioè i livelli essenziali delle prestazioni che debbono essere erogate su tutto il territorio nazionale in condizioni di uniformità (approvati, ‘ovviamente’ con un DPCM; tanto, a che serve più il Parlamento!). Un pannicello caldo, ha scritto giustamente Massimo Villone, anzi tiepido: i livelli essenziali sono un bluff. Si tratta di un’eguaglianza costruita sul minimo, che lascerebbe invariate le attuali e gravi diseguaglianze. Sia consentito solamente aggiungere che questa disposizione dell’ultimo ddl, assieme a quella della clausola dell’invarianza finanziaria (una clausola che prevede che nessuna regione possa avere meno risorse di quante non ne abbia attualmente), si pone almeno il problema non di non ampliarle (le diseguaglianze), cercando di porre un argine al paventato scippo dei ricchi a danno dei poveri. Può apparire surreale, ma questa previsione è, comunque sia, un tentativo di fare un passo avanti rispetto alle ipotesi avanzate negli anni precedenti: il ddl elaborato dal ministro Boccia del PD, al tempo del Conte II, consentiva, ad esempio, persino di prescindere LEP e prevedeva che gli stessi LEP e i fabbisogni standard andassero realizzati attraverso la «sostituzione delle risorse erariali con autonomia di entrata, territorialità dei tributi e perequazione»[6]; era novembre 2019: ci salvò la pandemia, cioè una catastrofe di diverso tipo che riuscì a distogliere il ceto politico da questo percorso.
Oramai occorre prendere atto che le politiche meridionaliste sono un ricordo del passato: sono fuori dell’orizzonte della politica attuale, indipendentemente dagli schieramenti. Chi ha una posizione meridionalista deve farsene una ragione. Potrà considerare una vittoria se le politiche messe in campo non determinino un ulteriore peggioramento della situazione del Mezzogiorno. Migliorarla, dovrebbe essere chiaro, non interessa più a nessuno: servirebbero risorse, che non si vogliono trovare. Del resto, non fu proprio il Titolo V del 2001 a eliminare ogni esplicito riferimento al Mezzogiorno dalla Costituzione? Non si sarebbe potuti essere più espliciti. Il Mezzogiorno non è più una questione nazionale da tempo. Nel 2001 lo si è dichiarato in modo incontrovertibile.
Per evitare che l’art. 116.3 comma svolga l’unica funzione realisticamente possibile, quella cioè di trasformarsi in un micidiale strumento nelle mani di burocrazie e ceto politico regionali bramosi di aumentare il loro potere di spesa, si dovrebbe mettere mano a una seria revisione del Titolo V, riattribuendo alle regioni questioni di interesse regionale, come faceva il testo del 1948, che specificava, quando ve ne fosse bisogno, che l’attribuzione di competenze era relativa alla dimensione regionale dell’interesse («lavori pubblici di interesse regionale», ad esempio).
L’occasione potrebbe servire anche per superare le incongruenze procedurali che si trovano nell’attuale 116.3 comma, frutto dell’idea perversa che le regioni siano delle entità paragonabili allo stato, da cui nasce un inconcepibile (per la dottrina dello Stato) procedimento pattizio per l’acquisizione di nuove competenze. Questa dovrebbe essere la prima preoccupazione di una classe dirigente responsabile, che voglia conservare un minimo di coerenza al sistema, evitando che l’Italia si disgreghi in tanti piccoli mini-stati.
Solo a valle di una riforma del Titolo V, che riporti le competenze regionali in un quadro di ragionevolezza, si potrà poi concepire l’attribuzione di «ulteriori» competenze alle regioni che non le renda delle piccole patrie.
Il peccato originale, infatti, si trova nel Titolo V, ultimo frutto, in ordine temporale, del cosiddetto ‘riformismo’ degli anni Novanta, che ha intrapreso un percorso che ci ha allontanati dallo spirito della Costituzione del 1948; oggi rimettere assieme i cocci è davvero complesso (come dimenticare le privatizzazioni e le liberalizzazioni, la precarizzazione del mercato del lavoro, l’aziendalizzazione della sanità, i tagli alla spesa sociale?).
Ci si dovrebbe domandare come sia stato possibile che il parlamento abbia potuto votare disposizioni così irragionevoli, che attribuiscono alle regioni competenze nel momento stesso in cui si qualificano «nazionali»; tutto ciò con il plauso dell’opinione pubblica. Una risposta (anche se parziale) ce l’ha data Gustavo Zagrebelsky nel 2016, durante il noto dibattito televisivo con Renzi sulla sua riforma costituzionale[7]. Alla domanda di Renzi su come avesse votato al referendum sul Titolo V del 2001, il presidente emerito della Consulta disse di non ricordare (1h12mm), aggiungendo, poco dopo, «credo di aver votato no» e, qualche minuto dopo (1h28mm), che «fino a due anni fa» se «non ci fossimo dichiarati federalisti non avremmo avuto diritto di parola, perché l’ideologia era quella».
Insomma, in Italia per partecipare al dibattito pubblico non si deve andare troppo per il sottile.
Per dovere di cronaca, occorre ricordare che, nel testo della riforma cd. Renzi, così come uscito dal Consiglio dei Ministri nel 2014, il 116.3 comma era stato giustamente eliminato. A riesumarlo ci pensò un emendamento Finocchiaro-Calderoli[8], in sede di discussione parlamentare, a conferma che la sinistra, anche dopo il 2001, è stata il vero motore usato dalle idee della Lega (che, nel 2014, era una forza esanime di opposizione, numericamente marginale).
Come spesso accade, non tutti i mali vengono per nuocere.
Che il Governo Meloni abbia deciso, come i predecessori, di dare attuazione all’art. 116.3 comma, potrebbe persino avere risvolti positivi.
Primo fra tutti: criticare il processo di devoluzione sarà più semplice perché non si corre il rischio di essere esclusi dal dibattito pubblico.
Inoltre, la volontà del governo in carica di dare attuazione al regionalismo differenziato potrebbe addirittura portare a qualche ripensamento sull’aumento smisurato dei poteri regionali che non ha influito minimamente né sull’efficienza delle regioni né sui divari territoriali.
Insomma, il centrosinistra, che adesso si sta strappando le vesti per un disegno che attua un testo costituzionale che porta la sua paternità, dovrà pur chiarire la sua posizione. O siamo in presenza di un comportamento incomprensibile, ai limiti della dissociazione, oppure si potrebbe persino essere indotti a sperare che questa nuova posizione rappresenti l’inizio di un processo (auto)critico che prenda atto del fallimento del falso riformismo portato avanti nel quinquennio 1996-2001.
[1] Sul punto si rinvia a C. Iannello, Regionalismo differenziato: disarticolazione dello Stato e lesione del principio di uguaglianza, in Economia e politica, 2019; https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-17-sem-1/regionalismo-differenziato-autonomia-regioni-carlo-iannello/ . Cfr., inoltre, S. Marotta, Regionalismo differenziato: cos’è e quali rischi comporta, in Economia e politica, 2019.
[2] G. Ferrara, Verso la monocrazia. Ovvero del rovesciamento della Costituzione e della negazione del costituzionalismo, in Costituzionalismo.it, 2004.
[3] Occorre evidenziare che, in alcuni casi, anche prima della modifica del Titolo V, la Consulta ha dato una interpretazione delle disposizioni costituzionali non in armonia con il loro significato letterale, come, ad esempio, quando ha trasformato la clausola dell’interesse nazionale da limite di merito a limite di legittimità della potestà legislativa regionale. Nel caso del Titolo V, tuttavia, la riscrittura è stata macroscopica, andando ben oltre una puntuale correzione di un singolo, sebbene importante, aspetto. Con il titolo V è stato l’intero impianto del riparto ad essere oggetto di una continua opera di interpretazione ai limiti della riscrittura.
[4] Articolo che avrebbe introdotto il principio di pari-ordinazione degli enti ivi nominati. cfr., fra i tanti, O. Chessa, La resurrezione della sovranità statale nella sentenza 365 del 2007, in Forum di quaderni costituzionali, 2007 che sostiene la tesi «del pluralismo istituzionale paritario».
[5] Per una critica alla logica pattizia dell’art. 116.3 comma e la riconduzione, in via interpretativa, del rapporto stato regioni nell’ambito di una ordinaria dinamica di uno stato a decentramento regionale, cfr. C. Iannello, La piena sovranità del Parlamento nella determinazione dei contenuti e dei limiti dell’autonomia differenziata, in Diritti Regionali, 20 settembre 2019.
[6] https://www.roars.it/lautonomia-differenziata-secondo-boccia-ecco-la-bozza-di-legge-quadro/
[7] https://www.youtube.com/watch?v=Xevo3V7_paA
[8] https://download.repubblica.it/pdf/2014/politica/20emendamenti.pdf : emendamento 25.2000
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