Arabia Saudita-Cina: una nuova via al multipolarismo in Medio Oriente
DA CeSI|CENTRO STUDI INTERNAZIONALI (di Isabella Chiara)
A fine giugno, un’ampia delegazione saudita si è recata al quattordicesimo World Economic Forum Annual Meeting – noto anche come “Summer Davos” – organizzato nella metropoli cinese di Tianjin. L’incontro, della durata di tre giorni, ha visto la partecipazione di circa 1.500 esponenti di imprese, governi, società civile, organizzazioni internazionali e mondo accademico; tra i temi trattati, l’imprenditorialità come driver dello sviluppo economico globale.
La delegazione partita da Riyadh, in particolare, era composta da 24 funzionari e personalità del mondo politico e capeggiata dal Ministro dell’Economia e della Pianificazione, Faisal Alibrahim, e dal collega delle Comunicazioni e della Tecnologia dell’Informazione, Abdullah Alswaha. Il ruolo del Ministro Alibrahim, durante l’incontro, è stato notevole, in quanto è servito a chiarificare quale sia la priorità dell’Arabia Saudita in questa fase: diversificare l’economia del Paese implementando la Vision 2030 , il grandioso piano economico con cui il Regno mira a ridurre la propria dipendenza dalle esportazioni petrolifere, ponendo l’accento sulla privatizzazione , sulle riforme strutturali e lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Per farlo, Riyadh spera di poter contare sulla Cina: gli investimenti della Repubblica Popolare andrebbero infatti a coprire settori diversi da quelli tradizionalmente attenzionati, ossia petrolio, raffinazione e telecomunicazioni, fino al turismo, al gioco, all’industria pesante e alle piattaforme digitali. Il rapporto solido tra i due Paesi è legato, da un lato, alla dipendenza cinese per le risorse energetiche saudite , che rende Pechino il primo partner commerciale del Regno e, dall’altro, alla necessità di Riyadh di attrarre investimenti , conoscenze ed expertise per portare avanti il processo di diversificazione economico-energetica nazionale.
In questa prospettiva, i segnali di un’espansione dei legami sono sempre più evidenti, soprattutto nel breve periodo, anche a causa di una convergenza di ambizioni e interessi incrociati. La componente essenziale di questi ultimi è, come noto, di natura economica. Ad oggi, le importazioni cinesi dall’Arabia Saudita, unitamente alle esportazioni verso quest’ultima, hanno sorpassato il volume dei commerci che il Regno ha con Stati Uniti ed Unione Europea, rendendo la Repubblica Popolare cinese il principale partner commerciale di Riyadh. La parte del leone, in questi scambi, la fa il petrolio : nei primi dieci mesi del 2022, infatti, l’Arabia Saudita ha esportato verso la Repubblica Popolare ben 1,77 milioni di barili al giorno, per un valore di 55,5 miliardi di dollari. Al di là dell’interscambio commerciale, l’Arabia Saudita punta, sotto l’ombrello della Vision 2030, a incrementare gli investimenti cinesi – attestatisi, nel 2021, a 3,5 miliardi di dollari – in vari settori. Anche per questa ragione, a dicembre dello scorso anno, il Presidente cinese Xi Jinping ha incontrato il Principe ereditario saudita Mohammed bin Salman al-Saud a Riyadh al fine di firmare una serie di accordi, tra cui uno di partenariato strategico globale – definito dal Ministero degli Esteri cinese “una pietra miliare epocale nella storia delle relazioni Cina-Arabia” – e uno con il gigante delle telecomunicazioni Huawei, inerente al cloud computing. Ad aprile 2023, invece, il Ministro degli Investimenti saudita Khalid al-Falih ha invitato l’operatore cinese di parchi a tema Haichang Ocean Park a investire in una nuova struttura nel Paese; a maggio, la più grande azienda siderurgica cinese Baowu Steel ha rivelato un piano per pagare 437,5 milioni di dollari per una partecipazione del 50% in una joint venture con Saudi Aramco e il Fondo sovrano per gli Investimenti Pubblici (PIF). Infine a giugno scorso, due settimane prima della Summer Davos, Cina e Arabia Saudita hanno annunciato accordi di investimento per un valore di 10 miliardi di dollari, attinenti a settori quali la tecnologia, le energie rinnovabili, l’agricoltura, il settore immobiliare, l’industria mineraria, il turismo e la sanità. La portata di queste intese, qualora venissero implementate, è tale da impattare sugli equilibri economici dell’area. Letta in un quadro più ampio, infatti, l’intesa bilaterale prevede un allineamento non solo economico ma anche e soprattutto strategico, col coordinamento tra la Vision 20230 saudita e la Belt and Road Initiative (BRI) cinese.
Sebbene la componente economica di questi legami sia particolarmente consistente, sarebbe un errore trascurarne la natura politica . Infatti, il recente riavvicinamento tra l’Arabia Saudita e l’Iran – storico antagonista del Regno – è stato mediato da Pechino, che ha favorito anche il ripristino dei rapporti tra Arabia Saudita e Siria. Benché l’intesa saudita-iraniana non rappresenti l’appianamento di tutte le divergenze esistenti sul piano bilaterale, ha però mostrato un momento nuovo per i due Paesi e per il ruolo giocato dalla Repubblica Popolare nell’intesa. Ciò ha comunque comportato un ulteriore avvicinamento di Riyadh e Teheran alle esigenze cinesi di politica estera. L’Arabia Saudita, per esempio, ha espresso la propria adesione al principio di “una sola Cina”, ribadendo il suo sostegno alla Repubblica Popolare in merito a questioni politiche che, per Pechino, sono fondamentali, come Taiwan, Hong Kong, lo Xinjiang e i diritti umani. Il Regno degli al-Saud, quindi, appare sempre più orientato a perseguire le sensibilità della Cina, nel chiaro intento di godere di reciproci benefici economici e politici, che suggellino una possibile e forte partnership, mutualmente vantaggiosa.
Tuttavia, la volontà di Riyadh di realizzare le proprie ambizioni economiche in partnership con Pechino rischia di compromettere i rapporti con Washington , suo storico partner. Da più di 80 anni, infatti, gli Stati Uniti garantiscono la sicurezza del Regno declinata in molteplici modi: presenza di installazioni militari nel Paese, fornitura di armi, addestramento e operazioni congiunte. Sebbene tale status quo appaia solido e indiscusso, è innegabile come negli ultimi anni l’influenza di Washington sul Regno sia gradualmente affievolita: già dai tempi dell’amministrazione Obama le relazioni bilaterali avevano subito un brusco rallentamento. Successivamente, l’andamento dei rapporti bilaterali è stato positivo sotto la Presidenza Trump, per poi raffreddarsi nuovamente. Le controversie principali tra Stati Uniti e Arabia Saudita sono sorte in merito all’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul, all’intervento del Regno nel conflitto dello Yemen (2015) e, in tempi più recenti, alle fluttuazioni del prezzo internazionale del petrolio dopo lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina.
Ora, gli ultimi accordi sino-sauditi, compresa l’intesa Riyadh-Teheran mediata da Pechino, vanno ad aggiungersi a una situazione non idilliaca dei rapporti fra i due storici alleati. In particolare, l’Arabia Saudita potrebbe utilizzare la rivalità geopolitica tra Stati Uniti e Cina a proprio vantaggio, sebbene il rischio di una vera e propria rottura tra Riyadh e Washington non appaia probabile nel breve-medio periodo. Infatti, per quanto l’Arabia Saudita stia beneficiando, grazie all’influenza cinese, di un maggiore potere contrattuale nei confronti degli Stati Uniti, Riyadh è ben consapevole di non potersi aspettare da Pechino le stesse garanzie di sicurezza offerte da Washington. Per ora, quindi, la “supremazia” statunitense pare intatta e solo parzialmente scalfita dalla presenza economica cinese nel Regno saudita, che, di recente, ha espresso la volontà di accettare da Pechino pagamenti per il petrolio in valuta cinese, il renminbi. In questo quadro, appare chiaro come la strategia saudita sia quella di diversificare le proprie alleanze.
A tal proposito, l’Arabia Saudita è recentemente divenuta partner di dialogo della Shanghai Cooperation Organization (SCO) e, parallelamente, ha mostrato interesse per il gruppo informale dei BRICS. La decisione di unirsi alla SCO è arrivata meno di tre settimane dopo che Riyadh e Teheran hanno accettato di riprendere le relazioni diplomatiche con la mediazione della Cina. Entrando in questo forum multilaterale, al cui interno sono presenti 4 delle 5 Repubbliche centroasiatiche, Riyadh potrebbe rafforzare le relazioni con l’Asia centrale. Per quanto riguarda invece l’ipotetico ingresso saudita nel gruppo dei BRICS – acronimo relativo ai suoi membri, ovvero Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica –, esso potrebbe provocare un ulteriore inasprimento dei rapporti tra il Regno e l’Occidente, e, in particolare, gli Stati Uniti. Il gruppo dei BRICS, infatti, rappresenta una sorta di alternativa al G7, così come la New Development Bank si pone in contrapposizione alle tradizionali istituzioni finanziarie. Sebbene l’eventuale ingresso dell’Arabia Saudita nei BRICS venga fatto intendere da Riyadh come un mezzo per diversificare le proprie alleanze e darsi nuove opzioni di cooperazione, permane il rischio che Washington percepisca questo avvicinamento del Regno alla Cina e alla Russia come un affronto. Inoltre, l’ingresso dei sauditi aumenterebbe le dimensioni e l’influenza del blocco e fornirebbe al Paese l’accesso a una vasta rete di partner economici.
In conclusione, l’Arabia Saudita pare quantomeno assertiva nel perseguire i propri interessi economici, facendo tutto il possibile per implementare la Vision 2030 e, dunque, stringendo forti alleanze che in Occidente (ma soprattutto a Washington) possono apparire discutibili: quella con la Cina – promettente partner strategico con interessi complementari a quelli sauditi – ne costituisce un esempio emblematico. Sebbene sia eccessivo affermare che Riyadh stia seguendo una deriva apertamente anti-americana (perseguendo un inequivocabile sganciamento dall’influenza degli Stati Uniti), ciò che emerge è che i suoi interessi, in questo momento, non sono pienamente collimanti con quelli degli Stati Uniti: questo aspetto potrebbe costituire il prodromo di un riassetto dello storico status quo che caratterizza il rapporto tra i due attori, sebbene uno scisma definitivo non sia contemplabile nel breve-medio periodo, dato il peso che gli Stati Uniti continuano a conservare, in termini di sicurezza, nella regione.
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