di PIERLUIGI FAGAN
Il termine “ideologia” nasce in Francia nella prima parte dell’Ottocento ad opera di alcuni filosofi materialisti che intendevano sviluppare una conoscenza (logos) su come nasce, si compone e funziona il sistema di pensiero (idee). Cercavano cioè di pensare al come pensiamo. Non a cosa pensiamo, il “cosa” viene dopo, prima c’è il come.
Vennero chiamati “ideologues” e su loro si abbatté l’ira di Napoleone: “È alla ideologia, a questa tenebrosa metafisica che ricercando con sottigliezza le cause originarie, vuole su tali basi fondare la legislazione dei popoli in luogo di adattare le leggi alla conoscenza del cuore dell’uomo e alle lezioni della storia, che vanno attribuiti tutti i mali che ha provato la nostra bella Francia” (1812). Insomma, a Napoleone questa ricerca su come pensiamo e quindi poi agiamo non piaceva, bisognava agire e basta, naturalmente come piaceva a lui.
Da Vilfredo Pareto a Francis Fukuyama via Popper, il pensiero liberale ha da sempre mostrato vivo fastidio per le ideologie e ne ha celebrato la fine eccitandosi per il crollo dell’ideologia marxista al passaggio tra anni ’80 e ’90. Finalmente, non c’erano più ideologie, era rimasta solo la loro. In effetti, già Destutt de Tracy, l’animatore degli “ideologues” francesi, aveva segnalato come la morale utilitaristica e la conseguente politica liberalistica non avessero nulla di oggettivo e naturale e fosse appunto una “ideologia”. Ma i liberali sono così, irriflessivi, se c’è più di un sistema di pensiero oltre al loro danno condanne di “ideologia!” a qualsiasi altra forma del pensare, quando rimane solo il loro sono felici, le ideologie sono morte, la natura oggettiva delle cose ha trionfato.
Arriviamo così ad un articolo de Il Foglio che è un giornale di ideologia liberale. Qui, un giornalista con le idee chiare e distinte titola contro il “dogma” della complessità. Poi declina l’occhiello con “La complessità è diventata ideologia, rifugio d’intelligenze vanitose, benintenzionati smarriti e professori cialtroni”. Sta recensendo il saggio di una giovane filosofa francese, Sophie Chassat, “contro questo mito culturale odierno”, il mito della complessità. Wow!
Dopo aver segnalato che il saggio della francese è “favoloso”, continua con abuso di aggettivi squalificativi. Quello della “complessità” è “un mito” che porta ad esser “inebetiti dal caos”, “in bilico tra solennità e supercazzola”, “un rifugio dell’ignoranza”. Chiude alla grande con: “Il suo è un invito a ritrovare il senso del “cruciale”. Il mondo è complesso? A maggior ragione è necessario scegliere: modelli -di vita, di valori, di produzione-. Sapendo che decidere è inevitabilmente semplificare. […] L’alternativa, è vivere complessati.”. Bella la chiusura, maschia, decisa, pragmatica.
Viene così curiosità di andarsi a leggere questa intemerata della francese contro la complessità. Ma poiché di questi confusi tempi capire chi emette il discorso è la prima cosa da fare per capire come pensa chi poi ci dice cosa pensa, scopriamo che il suo piccolo saggio contro il pensiero della complessità è ospitato dal sito di un think tank “liberale, progressista, europeista” che ovviamente sono verità di natura, non ideologie.
Wikipedia, di questi signori, riferisce che: “Per quanto riguarda l’economia, la Fondazione auspica, […] una riduzione della tassazione, un rilancio delle privatizzazioni, una riduzione della spesa sanitaria e la non sostituzione un funzionario su due. Secondo la Fondazione, [… ] “lo Stato non ha lo scopo di ridurre le disuguaglianze” e dovrebbe “rinunciare ad alcune aree di competenza” a vantaggio del settore privato”.
Agatha Christie, grande Maestra della logica abduttiva, diceva che due indizi sono una coincidenza per cui che il giornale liberale si esalti per un articolo sul sito di un think tank ultraliberale è, appunto, solo una coincidenza, al momento. Andiamo allora alle tesi.
Le tesi della francese sono varie e non riassumibili in un articolo breve. In parte sono quelle del virgolettato riportato da Il Foglio, impresa privata liberale che prende circa 1 milione di euro l’anno (2021) di sovvenzioni statali altrimenti sparirebbe dal mondo del visibile. Qualcuno l’ha chiamato, “il reddito di giornalanza”, utilissimo per tenere in piedi i megafoni contro il reddito di cittadinanza la cui negatività è lampante, non è certo un giudizio ideologico.
In pratica, la filosofa imputa al pensiero della complessità, il farla sempre più difficile del necessario, tanto da portare ad un tedioso smarrimento inattivo, irresponsabile, troppo intellettualizzato, paralizzante. Essendo filosofa conosce i trucchi del mestiere (Retorica, Aristotele) ad esempio la cattiva categorizzazione, quella della “complessità” per lei è una “ideologia” e sappiamo che ideologia è male, la Verità è il Bene, quale poi sia la Verità non conviene domandarselo.
Segnalo solo che nel riferire dell’archeologia dei concetti, su “ideologia” passa da Destutt de Tracy a Marx, dimenticandosi di Napoleone che diceva del pensiero del filosofo “ideologue” le stesse cose che lei imputa oggi al pensiero complesso. Ce l’ha anche con l’approccio complesso al problema climatico e guarda un po’, anche con l’IPCC e la COP27, ma non perché è negazionista sul fatto che c’è un problema, ma perché si perde troppo tempo a non fare le poche, chiare cose che andrebbero fatte, le cose “oggettive”. La Signora poi ha fatto di necessità virtù e visto che di sola filosofia non si campa, ha messo su una società di consulenza su “filosofia e branding”, marketing, comunicazione. Tra i suoi clienti Total. Immagino che lavorando con Total abbia appreso le giuste cose da fare sul problema climatico, cose semplici vivaddio!
Leggetevelo l’articolo, è davvero fantastico, sarebbe puro piacere rintuzzare argomento per argomento notando gli slittamenti logici e di inferenza, cioè in sostanza la voluminosa confusione che l’adepta delle idee “chiare e distinte” fa a proposito della cultura della complessità. Ma qui non abbiamo lo spazio sufficiente. Le conclusioni sono chiare, siamo in una epoca speciale: “Le crisi che stiamo affrontando oggi ci impongono quindi di stabilire delle priorità, di scegliere le giuste battaglie, di porci obiettivi chiari e, per farlo, di porci le giuste domande. Cosa è in definitiva essenziale? Cosa conta davvero? Quali sono i nostri bisogni primari? In quale direzione vogliamo andare?” Ecco le giuste domande! Sicura?
Vado per grandi sintesi, semplifico. Nel lungo Paleolitico, ci svegliavamo la mattina e ci domandavamo “oggi che si mangia?”, ci davamo da fare e più o meno davamo la risposta concreta agendo. Nel tardo Neolitico, quando arrivammo a vivere in 40.000 ad Uruk, non potevano farlo più perché non avremmo trovato da mangiare per così tanti coi vecchi metodi. Cominciammo così a prevedere i bisogni, coltivando ed allevando fonti di cibo. Ne nacque la civiltà e le società che i sociologi di ogni ordine, grado ed ideologia chiamano “società complesse”. Società complesse in un mondo ancora sostanzialmente abbastanza semplice in cui potevi sfruttare la natura a piacimento e massacrare i vicini fastidiosi che magari avevano fatto un colpo di stato locale e non ti volevano vendere più l’uranio per le tue centrali nucleari che, quelle sì, risolvono bene il problema climatico. Oggi non solo le società sono sempre più complesse, lo è diventato anche il mondo! Siamo 8 miliardi con 200 Stati e la natura non ci dà cinque Terre per vivere tutti come gli americani e gli europei e gli americani e gli europei non vogliono certo abbassare il loro tenore di vita per diventare compatibili. Anche perché la colpa di questo disequilibrio non è certo loro ma di quegli umani di seconda fascia che sono gli asiatici, gli africani ed i sudamericani che vogliono stare meglio facendo saltare il banco. Da cui numerosi problemi sul piano economico, finanziario, logistico, migratorio, culturale, sociale, politico ed in definitiva geopolitico.
Insomma, prima agivamo, poi prevedevamo ed agivamo di conseguenza, oggi dovremmo agire prevedendo non solo i nostri voleri e soddisfazione di questi bisogni ma i controeffetti di questo agire rispetto al mondo naturale abitato da 8, prossimi 10 miliardi di gente come noi, ora anche con le bombe atomiche e la tecnologia prima nostra esclusiva. Ciò porta a domandarci quali dovrebbero adattivamente essere le forme del nostro pensare stante che certo alla fine dobbiamo agire. Questa è la domanda giusta che la filosofa-consulente aziendale non ha fatto e non vuole che si faccia, lei come il think tank che ne ospita la requisitoria, pubblicizzata qui dal giornale ultra-liberale. Farsi questa domanda è ideologia!
Il pensiero moderno da Galileo e Descartes ad oggi ha avuto quattro secoli di sviluppo. Il pensiero della complessità è giovane, ha solo settanta anni (anche meno) è ancora in formazione, ampliamento, delucidazione. Il pensiero della complessità, tecnicamente parlando, è una onto-gnoseologia ma non vi impressionate sul termine oscuro, si tratta di pensare a come pensiamo per poi agire, il fine del pensiero umano è sempre agire, è definito tale da tre milioni di anni di evoluzione dell’umano, nessuno contesta questo. Noi non siamo l’Homo faber come continua a ripetere la signora e non pochi altri attardati al XIX secolo, secolo di potenti ideologie (liberali-marxiste etc.), siamo l’Homo cognitivus, che pensa prima di fare. Oggi è adattivamente l’epoca in cui dobbiamo pensare bene prima di agire e questo pensar bene non è pensare questo o quello, questo o quello verranno pensati e promossi dai loro portatori, come sempre è accaduto e sempre accadrà.
Pensare bene è pensare prevedendo nei limiti del possibile, gli effetti del nostro agire scelto dopo aver ben analizzato i fatti, i bisogni, le forme della vita associata ed il contesto. Per far questo, secondo il pensiero della complessità, aiuta l’inquadrare le cose, oggetti, fenomeni, come sistemi. Non perché ci piace, ma perché letteralmente “tutto” è descrivibile come tale, non ci sono eccezioni se non per entità metafisiche come le singolarità o Dio. Ogni oggetto del nostro pensare è scomponibile in parti che hanno interrelazioni tra loro, a volte non lineari, ogni sistema ha interrelazioni con altri sistemi e tutti stanno in un contesto su cui hanno influenza e da cui sono influiti e tutto ha una durata, sta nel tempo, in un certo tempo che è storia. Così per la cascata di portati gnoseologici che vanno dai feedback alle emergenze, dalla multi-inter-trans-disciplinarietà alla logica abduttiva e parecchio altro ancora da sistematizzare, almeno un po’ meglio di quanto non sia ad oggi possibile.
Per questo Morin ha chiamato il suo magnum opus Il Metodo (cito Morin ma non è detto aderisca sempre ed in toto al suo pensiero, come per altro non mi capita di far con qualsiasi altro pensatore da Aristotele a Kant a Marx, ho ambizioni di pensatore in proprio), per indicare che il luogo nativo del pensiero complesso non è l’ideologia ma il come le costruiamo, le giustifichiamo, le rendiamo utili a dirigere l’azione che rimane il fine di ogni pensiero umano che non sia dedicato -appunto- a pensare a come pensiamo che ne è la propedeutica.
Nel primo commento una piccola bio della simpatica filosofa, un piccolo quadretto de “Il mondo di Sofia”, dal quale si evince l’allineamento ideologico tra Il Foglio, il think tank, la signora in questione. Agatha Christie avrebbe abduttivamente detto che sì due indizi fanno una coincidenza, ma tre fanno una prova, la prova che tra questi scadenti ideologi liberali ed il pensiero della complessità c’è conflitto sul come pensiamo o forse solo, raccogliendo l’invito a semplificare, sul “se” ed il “come” pensiamo prima di agire. Domande che non vanno fatte.
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