L’antifascismo ridotto a marketing
di FERDINANDO PASTORE (Pagina FB)
Non esiste un antifascismo sconnesso da una cultura antifascista. Ma è proprio la seconda a essere stata immiserita negli anni del progresso di mercato. Prendiamo ad esempio la filosofia del merito, quella secondo cui un curriculum vitae prestigioso consentirebbe meccanicamente di esercitare le funzioni politiche o di governo. Un medico alla Sanità, un avvocato alla Giustizia, un ingegnere ai Trasporti, un economista al Bilancio; anzi un economista al vertice del Governo, perché oggi sono i mercati a dettare regole e limiti alla democrazia.
Nessuna visione dunque, la tecnica è neutra e va applicato buon senso, o intelligenza studiata, perché sia raggiunta l’efficienza amministrativa. D’altronde lo Stato è un’azienda e anche l’essere umano lo è. Quindi perché logorarsi nella militanza, perché immaginare orizzonti collettivi quando l’applicazione scolastica dei vademecum d’impresa coincide con la razionalità? Chi si è formato nel patinato mondo dell’internazionalismo del business, chi ha accumulato patenti di onorabilità tra le correnti dei fiumi azionari, non ha impostazioni ideologiche; è legittimato di per sé nel porsi al comando delle truppe.
Aldo Grasso nel suo Padiglione domenicale de “Il corriere della sera” parla appunto di invidia per la competenza nel tratteggiare le virtù indiscutibili di Mario Draghi. Assurdo solo pensare di non caldeggiare la sua nomina alla presidenza della Commissione europea. Non servono le elezioni per dimostrare la sua adeguatezza, figuriamoci se si può perdere tempo con la società, il conflitto, la dialettica, le classi. La pensa così anche lo scrittore Scurati, eroe di giornata delle opposizioni di facciata al Governo, autore di uno scritto apologetico nei confronti del banchiere quando presentò sdegnato le dimissioni.
Quindi chi propaga compiutamente una cultura plebiscitaria che esalta gli uomini della salvezza giustamente liberi dai partiti, dalla lotta politica e concepisce una verticalizzazione assoluta delle istituzioni, contemporaneamente straparla accigliandosi di antifascismo, senza aver compreso nulla dell’antifascismo. Che, ricordiamolo, non fu solo lotta per la liberazione dall’invasore nazifascista ma fu anche elaborazione di una cultura costituzionale capace di sostanziare nella realtà la democrazia. Lontana anni luce da quella signorile dell’Italia liberale.
Oggi è quel nesso sostanziale tra anticapitalismo e antifascismo che si vorrebbe nascondere, quel legame capace di portare le masse popolari all’interno dei Palazzi attraverso la cultura dei partiti, la loro formazione costante, giornaliera, che inorgogliva l’impegno, che elargiva stima sociale ai lavoratori. Difficile essere credibili se si racconta un antifascismo elitario, se si caldeggiano censure sul pensiero critico alla modernità grossolana dei mercati, alla guerra, alla tecnocrazia, all’Occidente, per poi indignarsi per la censura più elementare, meno sofisticata.
Quello che si propone è un antifascismo pubblicitario, elettoralistico e ipocrita. Lo stesso che ha portato al governo gli ex repubblichini, oggi indorati dalla cultura dell’Agenda Draghi, del maggioritario, della spoliticizzazione individualista che permette a tutti di promuovere una lista elettorale con il proprio nome. Così come vorrebbe l’antifascista Schlein.
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