La libertà del neoliberismo
DA LA FIONDA (Di Niccolò Biondi)
Pochi giorni, durante il G7, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicato sui social la foto con il Presidente argentino Javier Milei accompagnata dalla frase “viva la libertà”. Questa foto rappresenta il simbolo della saldatura di tipi diversi di destra politica all’insegna dell’autoritarismo liberale, e cioè della trasformazione contemporanea del neoliberalismo in salsa “smantellamento dello Stato sociale, riarmo & repressione del dissenso” all’interno del panorama del rafforzamento del cappio atlantista sui Paesi vassalli del sistema imperialistico USA: nella nuova grande trasformazione in cui siamo entrati da qualche anno, con la crisi dell’assetto internazionale liberal-capitalistico unipolare e la traiettoria storica verso il multipolarismo popolato da potenze guidate da partiti comunisti e assetti più socialisti e meno liberali (in cui, cioè, l’economia è integrata all’interno della decisione politica e non si ha una oligarchia economico-finanziaria che controlla e direziona la vita collettiva, come negli Usa e nel sistema occidentale), la saldatura delle destre all’insegna del neoliberalismo autoritario è la riedizione della funzione politica svolta dai regimi fascisti negli anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso, nonché il compimento stesso dell’essenza del neoliberalismo.
“Via la libertà”: di quale libertà parlano Meloni e Milei? Quale è la libertà del neoliberalismo?
La “libertà” è probabilmente il termine più polisemico della storia del pensiero e la parola più abusata dalla propaganda politica di tutti i tempi. Tutte le tradizioni di pensiero e le forze politiche della modernità hanno fatto leva sulla potenza spirituale della parola “libertà”, e in modo tutto sommato legittimo: esistono infatti vari tipi “libertà”, e nella realtà della società non si trova mai “la libertà” in generale ma sempre libertà particolari di individui particolari, e cioè – detto in altri termini, facendo emergere la dimensione nascosta dietro a tutti i discorsi sulla libertà: il potere – differenti distribuzioni del potere, inteso in termini sia di “capacità contrattuale” di definire i contenuti dei rapporti sociali ( = quanto le varie parti di un rapporto siano in grado di imporre e / o far valere la propria volontà rispetto alle controparti del rapporto), sia di “capacità di incidere nel divenire delle cose”.
Tra le varie destre della grande alleanza del neoliberalismo atlantista ci sono ovviamente delle differenze: alcune forze politiche sono più liberali sul piano etico, socio-culturale ed economico, altre sono più tradizionaliste e conservatrici. Tuttavia, senza dubbio si possono fare alcune considerazioni generali.
Senza dubbio, infatti, la libertà di cui parlano Meloni e Milei non è certo la libertà politica della tradizione democratica: una libertà che si fonda su determinati presupposti politico-culturali (popolo, Stato, sovranità) negati alla radice dal progressismo liberale e che si attua mediante la capacità, incarnata in istituzioni politiche ben precise, di autogoverno, di decisione dei fini collettivi e di direzione consapevole del divenire della società. La libertà politica è proprio la grande vittima dell’epoca neoliberale, in cui le aspirazioni democratiche dei popoli sono dileggiate e chiamate “sovranismi” e in cui la democrazia è subordinata alla volontà dei mercati (“sì ok le elezioni, ma lo spread?”). Non solo: l’accettazione dei vari vincoli esterni, su tutti i trattati europei e l’appartenenza al sistema Nato che altro non è se non uno strumento della politica estera Usa finalizzato a dare una patina di “decisione collettiva” alla volontà di Washington, riduce la libertà politica dei popoli a margini ristrettissimi, a quelle questioni secondarie e limitate che non incidono sulle decisioni fondamentali e sulla direzione complessiva delle cose.
Con una metafora efficace, si potrebbe dire che in una situazione in cui il progetto di costruzione della casa occidentale comune è oggi definito e attuato da oligarchie economiche e dallo Stato, gli Usa, che ne sono il principale strumento (con l’Unione Europea che è l’istituzione sovranazionale europea che funge da “secondo strumento”), i popoli occidentali hanno la libertà di decidere di che colore dipingere le persiane delle finestre e con che piastrelle realizzare il bagno – e neanche questo, se i mercati non sono d’accordo.
La libertà di Meloni Milei & Co. non è certo neppure la libertà della tradizione socialista, che oltre alla libertà politica di cui sopra prevede anche un concetto di libertà sociale (che personalmente riprendo da Karl Polanyi) che si sostanzia in due elementi principali: nella capacità di azione comune, di convogliare le energie e le volontà individuali verso progetti collettivi; nella responsabilità individuale, e cioè nella consapevolezza personale di appartenere ad un sistema complesso (la società) che è una trama fittissima e intricata di rapporti di causa ed effetto in cui ogni scelta e azione individuale ha molteplici conseguenze dirette e indirette, nell’attitudine a riflettere costantemente sull’insieme di possibili effetti diretti e indiretti delle nostre scelte e azioni e, infine, nella conseguente disponibilità a limitarci sistematicamente nelle nostre scelte e azioni, anche quando questo limite è un freno alla nostra personale brama di godimento, possesso, potere e generale “manifestazione della vita”.
La dimensione collettiva, infatti, è rifiutata integralmente dal neoliberalismo (“la società non esiste, esistono solo gli individui e le famiglie”, diceva la Tatcher), e l’etica neoliberale si fonda su un individualismo radicale: una torsione individualistica della libertà individuale in cui l’individuo, autoriferito egoista e irresponsabile, non riflette sulle conseguenze delle proprie scelte e azioni e persegue sistematicamente il proprio interesse personale immediato non solo perché “è giusto così, la mia soddisfazione personale viene prima di quella degli altri e delle esigenze sociali”, ma anche perché tutto sommato o c’è la mano invisibile del mercato che tutto risolve e che porta gli egoismi individuali a convergere nel benessere pubblico e nell’utilità generale (secondo la versione classica del liberalismo, Mandeville e Smith) o perché, in ogni caso, l’ordine spontaneo derivante dal libero perseguimento dell’interesse individuale è comunque migliore e più efficiente rispetto a qualsiasi ordine economico e sociale intenzionalmente costruito sulla base di progetti politici e decisioni collettive ispirate ad una qualche idea di “bene comune” (secondo la versione di Hayek, che su questo punto ha fatto scuola nella tradizione neoliberale).
La libertà neoliberale dei vari Meloni Milei & Co., insomma, si riduce alla libertà rispetto alla regolamentazione pubblica e al senso di responsabilità e solidarietà: una “libertà” che si sostanzia in politiche di stampo liberista e fortemente anti-keynesiano, e cioè – in forme e gradazioni differenti da Paese a Paese, secondo le particolarità locali e la peculiarità della destra al potere – nello smantellamento dello Stato sociale, dei servizi pubblici e delle reti di garanzia pubblica del reddito, nelle privatizzazioni, nello smantellamento delle istituzioni governative, nelle liberalizzazioni e nell’apertura di nuovi spazi di mercato e di concorrenza. Una forma di libertà che, smantellando il sistema di limiti e sostegni pubblici che da una parte impongono lacci e lacciuoli all’economia e ai soggetti economici dotati di potere sociale grazie al possesso di ricchezza finanziaria e mezzi di produzione, dall’altra garantiscono maggiore autonomia individuale grazie alla disponibilità di entrate finanziarie e servizi pubblici che non costringono l’individuo a entrare nei circuiti del libero mercato, apre delle praterie allo strapotere delle oligarchie finanziarie, alle multinazionali, ai grandi colossi monopolistici e, in generale, a tutti quei soggetti che sono dotati di maggiore potere sociale ed economico. La libertà dei Meloni Milei & Co., insomma, è la libertà del pesce grande di mangiarsi il pesce piccolo: è la libertà della giungla, dove il forte vince sul debole nella competizione per la vita e il successo economico. Una libertà, in poche parole, che significa più potere ai potenti e meno potere ai deboli, i quali invece avrebbero bisogno di una forte struttura pubblica e di una diffusa presenza dello Stato sociale per riequilibrare i rapporti sociali che altrimenti risultano fortemente sbilanciati: per godere, in poche parole, di una condizione di maggiore libertà.
I neoliberali sostengono che le politiche di smantellamento dello Stato sociale, delle regolamentazioni pubbliche e del sistema di lacci e lacciuoli posti sulla libertà economica vengono realizzati al fine di un potenziamento della libertà individuale per tutte le persone. Il fine, insomma, sarebbe quello di realizzare la “società libera” contro tutte le forme di restrizione della libertà personale, una libertà personale che sarebbe tanto più limitata quanto maggiori sono i vincoli posti intorno alla libertà economica e quanto più ampio e diffuso è l’interventismo pubblico nell’economia e nella distribuzione del reddito. Tuttavia, è davvero così? La libertà individuale di autodeterminazione e di libera scelta dei fini e delle attività da realizzare nella vita è davvero potenziata da un sistema politico, economico e culturale che restringe la presenza del pubblico nell’economia, diffonde la forma-mercato nella società e propaganda una cultura economicistica fondata sull’idea che l’individuo è un imprenditore di sé stesso? Al riguardo, lascio che a rispondere sia la filosofa statunitense Wendy Brown, che ne “Il disfacimento del demos. La rivoluzione silenziosa del neoliberismo” riflette sulle conseguenze della diffusione della razionalità neoliberale nella società, e cioè una razionalità fondata sulla trasformazione dei soggetti in capitale umano teso all’autovalorizzazione e al piazzamento competitivo nella società di mercato:
“Mentre il neoliberismo sottopone a economizzazione tutte le sfere della vita, l’effetto non è semplicemente la riduzione delle funzioni dello Stato e del cittadino o l’allargamento della sfera della libertà nella sua definizione economica a spese dell’investimento comune nella vita pubblica e nei beni pubblici. È piuttosto quello di indebolire radicalmente l’esercizio della libertà nella sfera sociale e politica. Questo è il paradosso centrale, forse persino lo stratagemma centrale, della governance neoliberista: la rivoluzione neoliberista avviene nel nome della libertà – liberi mercati, Paesi liberi, uomini liberi -, ma distrugge le basi su cui la libertà poggia, la sovranità degli Stati e dei soggetti. Gli Stati sono subordinati al mercato, governano per il mercato e acquisiscono o perdono la legittimità in base agli alti e bassi del mercato; inoltre gli Stati rimangono intrappolati nella separazione tra la spinta capitalista all’accumulazione e l’imperativo della crescita economica nazionale. I soggetti, liberati per poter perseguire l’accrescimento del loro capitale umano, emancipati da ogni preoccupazione e regolamentazione da parte della sfera sociale, politica, comune o collettiva, vengono inseriti nelle norme e negli imperativi della condotta di mercato e integrati negli obiettivi dell’azienda, dell’industria, della regione, della nazione o della costellazione postnazionale a cui la loro esistenza è legata. In una spettrale ripetizione della ‘doppia libertà’ che Marx indicava quale prerequisito della proletarizzazione dei soggetti feudali agli albori del capitalismo (libertà dal possesso dei mezzi di produzione e libertà di vendere la propria forza-lavoro), una nuova doppia libertà – dallo Stato e da tutti gli altri valori – permette ad una razionalità strumentale al mercato di diventare la razionalità dominante che organizza e limita la vita del soggetto neoliberista.“
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