Taranto: dopo l’ennesima privatizzazione la storia infinita si ripete
di LA CITTÀ FUTURA (Ascanio Bernardeschi e Federico Giusti)
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I disastri della privatizzazione delle acciaierie di Taranto. Quando la salute pubblica e l’occupazione confliggono con le scelte del capitale, la nazionalizzazione è la soluzione principe. Vista l’inerzia del governo devono intervenire i lavoratori.
Il nostro paese è ormai in mano delle multinazionali e delle loro ciniche pretese. La vicenda della ex Ilva di Taranto lo dimostra abbondantemente.
Per capirci qualcosa, non possiamo limitarci a osservare superficialmente le beghe di partito, gli scontri all’interno della maggioranza di governo e i commenti dei media appiattiti sugli interessi di ArcelorMittal (di seguito Am), ma dobbiamo calare queste polemiche nel contesto della nuova crisi in arrivo e delle strategie globali per il controllo del mercato dell’acciaio. In questo contesto l’Italia sta subendo passivamente le altrui mire egemoniche.
Nel 1965 la società pubblica Italsider inaugura lo stabilimento di Taranto. La fabbrica diventa il più importante stabilimento siderurgico del vecchio continente, che rifornisce non solo l’industria meccanica del Nord Italia, ma gran parte dell’Europa, crea ricchezza e occupazione ed è una delle locomotive del boom economico.
Nel 1995, a seguito della stagione delle privatizzazioni, Italsider, che era stata valutata 4 mila miliardi, viene acquistata dal gruppo Riva, che avrebbe dovuto rilanciare lo stabilimento, per soli 2.500 miliardi e diviene Ilva.
I primi problemi di impatto ambientale e di gravissimi danni alla salute pubblica iniziano proprio in quegli anni. 11.500 saranno i casi di morte attribuiti alle emissioni dai periti della Procura di Taranto. Il rischio di contrarre tumori per la popolazione circostante, anche infantile, e per gli operai, è elevatissimo e conseguentemente la magistratura, nel 2012, ordina il sequestro della fabbrica, definita dai giudici “fabbrica di malattia e morte”, e pone sotto indagine i vertici aziendali (la famiglia Riva). Il governo Monti, per tutelare i 13 mila addetti, oltre a quelli dell’indotto, non trova di meglio che autorizzare per decreto la prosecuzione della produzione.
Ma pochi mesi dopo, siamo nel 2013, il gip Patrizia Todisco dispone il sequestro di 8 miliardi di euro sui beni dei Riva, frutto dei mancati investimenti sulla tutela ambientale. La Cassazione annulla il sequestro ma i Riva lasciano il Consiglio d’Amministrazione e l’azienda viene commissariata dal Governo. Ma quel governo e quelli successivi non prendono nessun provvedimento significativo per risolvere il problema ambientale e, nel 2016, lo Stato si limita a mettere all’asta la fabbrica.
L’asta viene aggiudicata alla più grande multinazionale del settore – la franco-indiana Am che ha stabilimenti in tutto il mondo – nonostante che quest’ultima abbia posto come condizione per proseguire l’attività industriale e per attuare il piano ambientale un provvedimento ad hoc per garantirle una sorta di immunità penale.
Il nuovo padrone non procede né al rilancio produttivo né tanto meno al risanamento ambientale e anzi mette a cassa integrazione 1.400 operai. Di Maio, da ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro del precedente governo gialloverde e successivamente ministro degli Esteri dell’attuale governo, ci mette del suo con dichiarazioni demagogiche e confusionarie che non affrontano il vero nodo del problema: non esiste un privato che possa farsi carico della riqualificazione e del risanamento della produzione.
L’ipotesi di rivedere lo scudo penale che proteggeva il nuovo padrone è presa come pretesto da quest’ultimo per sganciarsi dall’accordo con il governo: “non si possono cambiare le carte a partita in corso”, afferma. In realtà quello che era stato annunciato dal governo attuale era più modestamente un passo indietro rispetto all’allargamento dello scudo deliberato dal governo precedente.
Proprio nel giorno in cui il proprietario se ne va via, viene abbandonato il sistema a caldo, cioè quello che consente di produrre l’acciaio senza impurità, indispensabile per molte produzioni meccaniche. Questo acciaio viene prodotto negli altoforni che qui uccidono. Ma in Italia non si è fatto ricerca su come produrlo senza l’attuale, altissimo, impatto ambientale. Altrove invece si sono adottate le innovazioni tecnologiche idonee a rendere questa produzione maggiormente compatibile con l’ambiente. L’azienda nel frattempo ha sospeso lo scarico delle materie prime sulle banchine. Quindi il piano di dismissione è già iniziato da giorni e manca la materia prima per tenere acceso l’altoforno 2, il cui spegnimento comporterà enormi costi per l’eventuale riaccensione.
Il governo non ha altra idea di come risolvere i problemi della produzione, dell’ambiente e della salute diversa da quella di trattenere l’attuale padrone o di andare a cercare nuovi soggetti industriali e finanziamenti per sostituirlo con un altro. Il ministro dell’Economia Gualtieri, per esempio, ribadisce la volontà di non nazionalizzare e parla solo di trattare nuovamente con Am al fine di “adattare il piano industriale al difficile momento congiunturale”. Mentre afferma che “lo Stato italiano deve essere in grado di dare tutte le necessarie garanzie giuridiche, amministrative e di concorso della politica industriale” a sostegno dell’impresa, ipotizza anche l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti con un ruolo non meglio precisato. In sostanza l’uscita di scena di Am arriva senza che lo Stato abbia un’idea precisa di come rilanciare la produzione e bonificare l’ambiente.
Il segretario generale della Cgil Landini critica la svalorizzazione del lavoro e l’assenza di una politica industriale dei Governi italiani succedutisi nel tempo. E su ciò non possiamo che aderire, anche se questa critica presupporrebbe una seria autocritica dell’operato sindacale negli ultimi 40 anni. Se il nostro paese manca di politiche industriali la responsabilità è anche del sindacato che non ha mai condotto una battaglia per la nazionalizzazione delle aziende, si limita a invocare interventi dello Stato, quali gli ammortizzatori sociali per sovvenzionare la cassa integrazione di operai e impiegati messi a casa da aziende e multinazionali che allo stesso tempo delocalizzano produzioni industriali in giro per il Globo. Un ruolo, quello del sindacato, subordinato al capitale privato e di supporto a chi determina strategie industriali basate su scarsi investimenti, mancate bonifiche, massima attenzione agli utili e alle speculazioni finanziarie. Dov’era il sindacato quando tante aziende pubbliche venivano svendute, spacchettate, perdendo per strada quella capacità inventiva e innovativa che aveva consentito negli anni sessanta di esportare all’estero prodotti vincenti sui mercati mondiali?
Ma il nostro dissenso profondo con Landini nascequando afferma che occorrerebbe trattenere Am, far cambiare idea alla multinazionale, inchiodarla alle sue responsabilità e allo stesso tempo ripristinare la scudo penale. Ciò al fine di “togliere ogni ogni alibi all’azienda, come abbiamo chiesto noi sindacati. Togliere lo scudo penale è stato un errore. E aggiungo che secondo me sarebbe utile che il governo si dicesse pronto a far entrare adesso Cassa Depositi e Prestiti nella società accanto ad Am, sia per far capire che non c’è nessuno ostile a che si faccia industria seriamente sia per controllare che quello che avviene venga realizzato. Lo discutemmo anche un anno e mezzo fa, e allora nessuno sollevò obiezioni, nemmeno Mittal. Poi non so perché non si fece nulla in questa direzione”.
Siamo ancora una volta davanti allo scambio diseguale tra produzione e salute; alla fin fine si opera per salvaguardare posti di lavoro che andranno persi in ogni caso perché gli investimenti latitano e non esiste alcun progetto di riconversione della produzione o di bonifica dei territori. È assurdo che ci si limiti a pregare le multinazionali straniere a restare in Italia, facendo finta di essere battaglieri, e di consentire loro di intascare profitti che spetterebbero agli italiani.
Forse le cose sono un po’ più complesse di come le racconta Landini. Il caos venutosi a generare è una conseguenza della cattiva scelta di privatizzare le produzioni strategiche e le risorse nazionali, come è avvenuto anche a Piombino e Genova. Adesso è indispensabile svincolarsi dal cinismo delle multinazionali, se non vogliamo mettere a repentaglio i posti di lavoro e la salute dei cittadini, checché ne pensino o ne dicano Renzi, Salvini e i giornali borghesi.
I sovranisti de noantri dovrebbero sapere che questa industria è italiana, che la nostra Costituzione prevede che la proprietà privata debba “assicurare la funzione sociale” e che possa essere espropriata nell’interesse generale. Oltretutto Am al momento è solo locataria (è subentrata con un contratto di affitto di ramo d’azienda) e l’abbandono di questa fabbrica comporta il suo ritorno nella disponibilità dello Stato,senza necessità di alcun indennizzo (cfr. il costituzionalista Paolo Maddalena).
L’acquisizione dell’Ilva da parte di Am e il successivo scontro con il Governo rientrano nella strategia del gruppo e nel contesto dell’evoluzione del mercato internazionale dell’acciaio. Am stava acquisendo gli impianti siderurgici in tutto il mondo e cercando di impedire l’accesso della concorrenza nel mercato, inclusa quella cinese, giapponese e coreana. A tal fine ha fatto accordi o avviato trattative, non tutte andate a buon fine, con imprese cinesi e indiane per assumere il controllo di gigantesche società del settore.
I suoi principali clienti europei sono Renault Nissan, Pse, Volkswagen, Fca, Fincantieri e la cantieristica Stx France, quelli Usa sono Ford e General Motor. Mentre le imprese asiatiche puntano molto sull’esportazione, Am cerca di ubicare gli impianti in prossimità dei i propri clienti. L’introduzione di dazi protettivi contro le esportazioni cinesi da parte degli Usa e dell’Ue ha favorito questa strategia.
L’eccesso di capacità produttiva e le regole dell’antitrust europeo hanno costretto Am a chiudere o vendere diversi impianti in Belgio, Germania, nei paesi dell’Est Europa e, in Italia, la ex Italsider: prima venduta ai Lucchini, poi Aferpi, poi Jindal di Piombino. Con la recente frenata della Germania, si intravede all’orizzonte una nuova recessione che potrebbe essere perfino peggiore di quella del 2008 e che vede il settore automobilistico fra i più esposti. L’Italia è il fanalino di coda dell’Ue e sono prevedibili ridimensionamenti di questo mercato, sia nell’edilizia e nella cantieristica, sia nel settore automobilistico,del quale abbiamo parlato in un precedente articolo e in cui la Francia si è collocata al posto di comando.
Lo scopo che persegue Am in Italia, non è quindi quello di accrescere il giro di affari ma di mettere i bastoni fra le ruote dei concorrenti nella produzione di acciaio. Lo dimostra il piano industriale, del tutto improbabile in questo contesto di crisi, presentato dal gruppo nel 2017. Ora che il settore è in frenata e che non c’è pericolo dell’ingresso di nuovi concorrenti, la questione dello scudo penale, alla luce di tutto ciò, deve essere letta come un’occasione per sganciarsi dagli impegni col governo italiano, oppure per riaprire la trattativa, chiedendo nuovi vantaggi e nuovi tagli occupazionali.
All’interno del Governo Conte operano due spinte. Da una parte c’è chi è disposto ad accordare ulteriori soldi e protezioni ad Am incluso lo scudo penale. Mentre sono in piedi innumerevoli processi che potrebbero investire l’attuale proprietà per la morte di diversi operai nello stabilimento di Taranto; non sono stati avviati la bonifica del territorio e gli investimenti pattuiti. Il piano industriale presentato tre anni fa era costruito sulla necessità di esternalizzare parte della produzione. E sullo sfondo ci sono 5 mila posti di lavoro – anzi molti di più se pensiamo all’indotto – il rischio e la salute di una popolazione che da anni paga sulla propria pelle l’inquinamento e la devastazione ambientale con centinaia di morti e i bambini del rione Tamburi che non possono andare a scuola o giocare all’aria aperta nei giorni di vento, quando si diffondono nell’aria le polveri assassine.
Se il governo, al netto delle dichiarazioni per i gonzi, latita, non è che i sindacati abbiano le idee chiare. E se non rivendicheranno la pubblicizzazione dell’azienda, lo sbocco sarà o di rimanere a mani vuote alla ricerca di nuovi partner privati, ricominciando questa storia infinita, oppure, se si riesce a “trattenere” Am, quello consueto in simili circostanze: un contenimento del numero dei licenziamenti, o la cassa integrazione a zero ore, in cambio di vantaggi economici e legali.
Se alla Am interessa solo evitare la concorrenza e assicurarsi la clientela della ex Ilva, attraverso il ridimensionamento o la chiusura dello stabilimento, come ormai appare evidente, non ha senso cercare di trattenerla. E neppure cercare altri improbabili partner privati. Al contrario il rilancio produttivo e il risanamento ambientale passa solo dando il benservito alla Am e nazionalizzando l’acciaieria al fine di salvaguardare l’occupazione, e l’ambiente mettendoci le necessarie risorse pubbliche tramite la Cassa Depositi e Prestiti.
Quello che i governi e l’Ue temono come la peste è di mettere in discussione gli interessi dei gruppi imperialisti, nonostante che questi intendano rendere sempre più marginale l’industria italiana. Ecco perché i sindacati dovrebbero rivendicare la nazionalizzazione e non le concessioni alla multinazionale di turno.
La famiglia indiana e i Riva hanno qualcosa in comune, come ricostruito da Il Sole 24Ore del 9 Novembre, ossia stesse strategie, o schemi come li definisce il quotidiano economico, nel mettere al sicuro il patrimonio di famiglia.Citiamo testualmente: i sei trust [1] erigono un muro di riservatezza intorno agli averi della famiglia Mittal. In teoria il trust crea una separazione tra i beni e i suoi proprietari, che non ne possono più disporre avendoli affidati a un trustee: in questo caso Hsbc. Ma la legge di Jersey è una legge particolare. E tra le clausole dell’atto di nascita dei sei trust ce n’è una che dice che ogni decisione importante deve essere assunta con il consenso scritto di Lakshmi Mittal, che è contemporaneamente settlor (cioé il disponente), il protector e il beneficiario dei trust.
Chi possiede i sei trust ottiene i dividendi e gli utili ma non prima che abbiano fatto il giro del mondo attraverso i paradisi fiscali. Una situazione diffusa, quella di multinazionali che scelgono come sede qualche paradiso fiscale e creano una rete complessa di società che poi, nel nostro caso, fanno riferimento sempre alla famiglia indiana. I trust controllano il 100% di una società che ha i suoi impianti a migliaia di km di distanza. Il capitalismo finanziario e predatorio ha scelto i paradisi fiscali per mettere al sicuro le proprie ricchezze.
Utili e dividendi azionari vengono incassati dai trust per poi approdare in Lussemburgo dove i Mittal possiedono il 100% della Value Holdings che a sua volta controlla due società che detengono le azioni di Am. Un sistema basato sulle Holding che poi contraddistingueva anche i Riva a cui la fabbrica era stata (s)venduta in fretta e furia.
La famiglia indiana, seppure indirettamente, ha altre proprietà in Italia, un sistema complesso che poi ritroviamo in ogni multinazionale che opera sui mercati mondiali. I governi nazionali risultano spesso impotenti, per questa ragione la nazionalizzazione diventa un’arma importante se utilizzata nei termini giusti ossia non guardando solo alla produzione ma mettendo insieme bonifica del territorio, investimenti e riconversione. Perché sia ben chiaro che non si tratta solo di salvaguardare la produzione dell’acciaio ma di imprimere indirizzi ben precisi alla politica industriale di un paese che da 30 anni delocalizza, non innova e non investe consentendo a grandi capitalisti, con gli ammortizzatori sociali, di accumulare utili e dividendi.
Qualunque sia la scelta operata, se chiudere la fabbrica o mantenere la produzione (ma iniziando con tanti lavoratori in cassa integrazione), il nostro paese pagherà un conto salato. Sono questi i risultati delle politiche intraprese per decenni, incuranti delle devastazioni ambientali e pronte a svendere il patrimonio pubblico alle multinazionali. E allo stato attuale non esiste alcuna idea su come riconvertire la produzione; una riconversione che necessiterebbe di percorsi lunghi tra studio, investimenti e nuove tecnologie.
La storia non è maestra di vita, ricordiamoci che l’Italia è tra i paesi più arretrati in materia di bonifica ambientale, quando si sono chiusi impianti pericolosi per la salute dei cittadini non si è passati alla fase due, ossia alla bonifica e alla gestione del territorio destinando le ex aree industriali ad altro uso, o produzione, senza ricadute negative sulla salute.
Qualcuno ha ipotizzato la spesa di 100 milioni di euro per riconvertire i lavoratori Ilva e dell’indotto; non saranno sufficienti i tradizionali ammortizzatori sociali per fronteggiare l’emergenza. Qualora si volesse continuare con la produzione di acciaio il 50% dei posti di lavoro parrebbero perduti in partenza senza considerare che solo per ricostituire il magazzino e l’altoforno 2 (ammesso e non concesso che questa operazione sia compatibile con la salute dei cittadini e dei lavoratori stessi) servono 150 milioni di euro.
E poi non dimentichiamoci dei 5 mila addetti già da tempo in cassa integrazione (il costo degli ammortizzatori sociali è 130 milioni di euro) e gli oltre 6 mila occupati nell’indotto. Alla fine il conto a carico dello stato potrebbe essere tra 800 e 900 milioni di euro.
Chiudiamo con una domanda: per quale motivo Am vuole restituire l’Ilva allo Stato italiano? Una risposta ce la fornisconole parole di Alessandro Marescotti, ambientalista storico di Taranto e animatore di Peacelink.
La chiave interpretativa per cogliere le vere ragioni di questa scelta è nel rigo 12 del comunicato di Am, in cui sostanzialmente si afferma che l’Ilva non è in grado di rispettare l’ultimatum della magistratura circa la messa a norma dell’altoforno numero 2, quello dove morì l’operaio Alessandro Morricella, investito da una grande fiammata dovuta a un malfunzionamento dell’impianto.
“I provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto obbligano i Commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019”. Tale data, osserva Am, è “impossibile da rispettare per gli stessi Commissari”.
Non solo: Am fa notare che anche gli altri due altoforni in funzione dovrebbero adottare ”ragionevolmente e prudenzialmente” le precauzioni tecniche previste per l’altoforno 2. In tal modo l’azienda ammette implicitamente che anche gli altri due altoforni non adottano le tecnologie per garantire la sicurezza per i lavoratori.
La messa a norma di tutti gli impianti e l’adozione per gli altoforni delle migliori tecnologie disponibili doveva terminare nel luglio 2014, secondo il cronoprogramma dell’Autorizzazione Integrata Ambientale Ilva. I lavori, cominciati pro forma nel 2012, hanno segnato continuamente il passo in una sceneggiata che ha rasentato il grottesco. La prima legge Salva Ilva del dicembre 2012 prevedeva, nel caso che non fosse avvenuta l’adozione delle migliori tecnologie disponibili, il fermo degli impianti […]. Con sfrontata determinazione i vari governi hanno cambiato quella legge con proroghe e deroghe che hanno reso poi necessaria l’adozione dell’immunità penale in quanto gli attuali impianti sono in funzione a rischio e pericolo di chi li fa funzionare. Permangono numerose carenze ed emerge la mancanza di requisiti minimi importanti quali i certificati di prevenzione incendi degli altoforni, delle cokerie e degli altri impianti ad alto rischio.
In queste condizioni è stato ridotto lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa con una politica di proroghe e deroghe che è servita solo a tirare a campare e a spostare sul governo successivo la “patata bollente”. Abbiamo assistito a uno scaricabarile continuo che non ha fatto onore allo Stato Italiano che è infatti stato condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per non aver protetto i cittadini di Taranto.
In conclusione possiamo dire che è caduta la foglia di fico e che viene detta finalmente la verità: Ilva ha impianti pericolosi e fuori norma che richiederebbero investimenti mai fatti e che – date le ingenti perdite – non verranno mai fatti […] Emerge tutta la vergogna di uno Stato che – governo dopo governo – non ha protetto la popolazione di Taranto. […. anche in presenza di uno scudo penale rafforzato] vi sarebbe stata una più che probabile sentenza della Corte Costituzionale, nuovamente interpellata dal Gip, e una più che prevedibile richiesta di spegnimento dell’altoforno numero 2 da parte della magistratura.
La situazione è così confusa e complessa da indurre al massimo pessimismo. Qualunque sia la soluzione non potrà eludere tre questioni: la bonifica ambientale e la giustizia per i familiari delle vittime di un disastro ambientale; la politica industriale italiana che dovrà essere diametralmente opposta a quella degli ultimi decenni tra delocalizzazioni, speculazioni finanziarie e assenza di investimenti tecnologici; la riconversione produttiva, la salvaguardia dell’occupazione da non barattare con la salute della popolazione tarantina. E sullo sfondo il ruolo delle istituzioni e delle politiche per anni subalterne ai voleri dei padroni di turno. Vista l’inerzia del governo, potrebbe essere determinante il ruolo dei lavoratori. Purtroppo i sindacati non paiono attrezzati per questo.
Note:
[1] Si riferisce ai trust della famiglia Mittal, che hanno sede nel piccolo paradiso dell’isola di Jersey.
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