Il Sud si muove ma ora servono investimenti pubblici
di MEGACHIP (Guglielmo Forges Davanzati)
Rapporto SVIMEZ. La crescita al Sud c’è ma si basa prevalentemente su un aumento delle diseguaglianze distributive
L’ultimo Rapporto SVIMEZ segnala una leggera crescita del Sud, caratterizzata, tuttavia, da crescente disoccupazione – soprattutto giovanile – riduzione dei salari e aumento della povertà. Si tratta dunque, di una crescita basata su crescenti diseguaglianze distributive, peraltro in aumento proprio nell’area del Paese che fa registrare la più elevata polarizzazione dei redditi e della ricchezza. La crescita è essenzialmente dovuta all’aumento degli investimenti privati e dei consumi, con investimenti pubblici ancora in riduzione. Gli investimenti sono stati effettuati prevalentemente in edilizia (a fronte del continuo calo dei residenti), mentre l’aumento dei consumi è in larghissima misura dovuto all’aumento degli afflussi turistici, quest’ultimo, a sua volta, imputabile alle crisi politiche e ai conseguenti rischi da assumere per percorsi turistici nella sponda Sud del Mediterraneo.
È opportuno chiarire che si tratta di una crescita irrisoria e che, nelle previsioni SVIMEZ, il tasso di crescita delle regioni meridionali tornerà a livelli pre-crisi solo nel 2028. Il costante aumento della disoccupazione giovanile sembrerebbe essere IL problema meridionale, oltre che, più in generale, italiano. A ben vedere, l’ISTAT considera una condizione di disoccupazione giovanile quella che riguarda individui compresi fra i 15 e i 24 anni. In quella fascia d’età, non si cerca lavoro perché si è ancora studenti, a scuola o in Università, e, coloro che cercano lavoro spesso lo trovano a condizione di avere bassi livelli di istruzione. Il problema riguarda semmai la fascia d’età superiore, compresa fra i 25 e i 34 anni. L’aumento (modesto) dell’occupazione al Sud è imputabile essenzialmente all’aumento dell’occupazione di individui in età adulta e, per i neo-assunti, l’occupazione è precaria e di bassa qualità.
Si tratta di forza-lavoro eccessivamente istruita rispetto alla domanda di lavoro espressa dalle imprese. E’ una condizione paradossale e patologica, che non riguarda solo l’Italia e il Mezzogiorno ma, che in misura ridotta, si verifica anche in quasi tutti i Paesi dell’Eurozona. In sostanza, mentre aumenta il livello medio di istruzione, aumenta il tasso di disoccupazione che riguarda proprio i lavoratori più istruiti. Appare ragionevole dar conto di queste dinamiche alla luce della de-industrializzazione in corso, che si associa alla caduta della domanda di lavoro qualificato e alla crescita relativa della domanda di lavoro poco qualificato.
A ciò si aggiungono, in senso peggiorativo, le ‘riforme’ del sistema pensionistico messe in atto negli ultimi anni. Non si riscontrano serie obiezioni alla tesi, peraltro di agevole comprensione, per la quale l’aumento dell’età di pensionamento è un ulteriore fattore di freno alla crescita dell’occupazione giovanile. Ciò a maggior ragione in un’economia che sperimenta tassi di crescita estremamente bassi. I quali, a loro volta, possono dipendere anche dal fatto che l’età media della forza-lavoro è in continuo aumento e che, per molte mansioni (soprattutto quelle che non richiedono elevate qualifiche – cioè proprio quelle in aumento), la produttività del lavoro decresce al crescere dell’età del lavoratore. In altri termini, per molte tipologie di mansioni, i lavoratori anziani sono mediamente meno produttivi dei lavoratori giovani.
Le ultime riforme del sistema pensionistico sono state motivate ufficialmente con l’obiettivo di contenere la spesa per generare avanzi primari e rendere sostenibile la dinamica del nostro debito pubblico. Tuttavia, questo risultato non è stato raggiunto, sia perché – come osservato proprio dall’INPS – il nostro sistema pensionistico è in tendenziale equilibrio non per l’aumento dell’età del pensionamento, ma per il contributo degli immigrati, sia soprattutto perché le manovre di consolidamento fiscale messe in atto negli ultimi anni hanno semmai contribuito a far crescere il debito in rapporto al Pil.
Il caso delle Università meridionali – caso tornato in questi mesi nel dibattito pubblico a seguito dello sciopero dei docenti – è, in tal senso, emblematico. L’età media di un professore universitario è 55 anni; in Università lavora un esercito di precari della ricerca pochissimi dei quali riusciranno a proseguire la carriera accademica. Si tratta di disoccupazione giovanile con elevata qualificazione, che, per il combinato dell’elevata età di pensionamento e del sostanziale blocco del turnover, nel pubblico impiego, non trova altri sbocchi se non ‘lavoretti’ (restando in loco) o emigrazione. Quest’ultima senza flussi di ritorno. E’ un vero e proprio “regalo” che l’Italia fa ad altri Paesi, in termini di trasferimento di conoscenze, di trasferimenti monetari (dal momento che i giovani emigrati vengono, di norma, sussidiati dalle famiglie di provenienza, generando rimesse di segno negativo) e di consumi.
È il caso – in termini più generali – dell’intero settore pubblico italiano, che, contrariamente alla visione dominante, e nei fatti, è il più sottodimensionato d’Europa. L’ultima rilevazione OCSE ci informa che, mentre nel nostro Paese la pubblica amministrazione assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito, Paesi con una popolazione e un Pil pro-capite di entità simile alla nostra, se ne contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti – Paese tradizionalmente guardato come una vera economia di mercato – il numero di dipendenti pubblici è di circa il 25% superiore al nostro. Le inefficienze del settore pubblico, come gli sprechi nel settore privato, sono ovunque. La retorica del dipendente pubblico fannullone resta tale, fa danni al Paese, impedisce un dibattito aperto su come l’intervento pubblico in economia può contribuire alla crescita economica e all’aumento dell’occupazione, soprattutto giovanile e soprattutto di alta qualità.
(Pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia il 19 settembre 2017)
Fonte: Guglielmo Forges Davanzati
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