La cosiddetta “sinistra” non si è semplicemente spostata dalla difesa dei diritti sociali a quella dei diritti civili. Questa è un’oziosa semplificazione del più devastante terremoto che ha distrutto la sua stessa essenza, ossia la ragione per cui essa rappresentava il polo opposto all’ideologia liberale. La sinistra non ha volto il suo sguardo verso un oggetto diverso, né ha soltanto ridefinito la presunta gerarchia (se mai dovesse esistere) tra diritti sociali e diritti civili. Essa si è gettata a corpo morto nel campo tradizionalmente occupato dal liberalismo perché è passata dalla volontà di realizzare un ordine materiale alla strenua difesa di un ordine astratto. Senza ricostruire tutte le complesse ragioni storiche ed economiche che hanno generato la sua sconfitta, ci limiteremo qui a prendere in considerazione l’orizzonte teorico abbracciato (spesso inconsapevolmente) dalle sue maggiori correnti intellettuali socialdemocratiche e spesso anche radicali. Talvolta sono i nostri peggiori nemici a spiegarci il mondo in cui viviamo molto meglio di quanto non facciano i nostri amici (forse proprio perché sono loro ad averlo ideato): le riflessioni del filosofo politico ed economista Friedrich August von Hayek sono illuminanti in questo senso.
Hayek distingue tra un ordine teleocratico e uno nomocratico. Il primo appartiene a quello che possiamo definire “il campo della socialdemocrazia o del socialismo” (1): si tratta di un ordine in cui il diritto deve garantire la realizzazione di obiettivi di natura collettiva e dal contenuto determinato (il loro contenuto può essere sociale, culturale, di classe ed è per questo che Hayek parla di ordine materiale). L’ordine teleocratico fissa degli obiettivi collettivi uniformi (nel senso che lo stesso obiettivo deve valere per tutti), poiché discendono da una più generale visione di ciò che si ritiene essere giusto per tutti gli individui di una determinata società. Ciò che quindi deve garantire il diritto sono delle finalità che traggono la loro ragion d’essere dall’esistenza di un ordine collettivo. Questo ordine collettivo presuppone la determinazione di specifici obiettivi sociali da realizzare e segnala contemporaneamente la possibilità stessa di costruire o disegnare una società secondo un ideale preciso.
Al contrario, l’ordine nomocratico o liberale pone una cornice giuridica il cui contenuto non è concreto (come nel caso dell’ordine teleocratico), ma astratto. Hayek parla di ordine astratto proprio perché la cornice giuridica posta dallo Stato di diritto deve garantire l’astratta libertà negativa del singolo individuo. In altre parole, scopo del diritto non è più quello di realizzare degli obiettivi specifici e concreti che valgano per la società nella sua interezza (come per esempio la giustizia sociale che Hayek disdegnava), ma quello di garantire ai singoli individui la sola possibilità di realizzare i loro scopi personali, il cui contenuto non viene determinato da nessuno, ad esclusione del singolo che agisce.
Questo “ripiegamento” del diritto sulla difesa della possibilità della realizzazione personale, che prescinde da qualsiasi tipo di visione politica positiva (“positiva” nel senso di “dotata di contenuto concreto”), è motivata da quelli che Hayek definisce i limiti posti alla conoscenza umana: soltanto l’individuo può sapere cosa è bene per se stesso, mentre in nessun caso può sapere cosa è bene per una società nel suo complesso. Da questo “deficit gnoseologico” consegue che è impossibile disegnare, costruire una società ponendo degli ideali forti alla sua base. Non solo è impossibile, ma è anche frutto di un atteggiamento totalitario, secondo Hayek: nessuno può “imporre” all’individuo un modello di società. La libertà negativa del singolo consiste nell’assenza totale di impedimenti nel perseguimento dei suoi fini individuali.
Ecco, pur non sapendo probabilmente nulla della teoria hayekiana dello Stato, oggi gran parte della sinistra sembra aver adottato il secondo modello di ordine, quello che difende l’astratta libertà negativa, proprio perché ha abdicato alla sua tradizionale capacità di disegnare la società, di immaginare un mondo in cui ciò che conta è innanzitutto la visione d’insieme, la determinazione di obiettivi sociali dal contenuto specifico che valgano per il corpo collettivo nella sua interezza. Oggiquesta sinistra si prodiga nella difesa di un ordine astratto, perorando il concetto di meritocrazia, sventolando la retorica dell’eccellenza “startuppara” come suo inalienabile vessillo. Il suo è un pensiero debole proprio perché finge di non difendere nessuna ideologia, quando a ben vedere fa spudoratamente il gioco di quello che dovrebbe essere il suo nemico: un diritto che difende soltanto la causa di un individuo tanto astratto quanto inesistente, la sua capacità di autorealizzazione, prescindendo totalmente dalla concretezza del contesto reale in cui questa realizzazione dovrebbe darsi (e solitamente non si dà, se le condizioni di partenza non sono quelle di un/a figlio/figlia di papà con tanti dindini) .
Il grottesco fronte anti-sovranista “calendiano” – ultimo parto mal riuscito della retorica della fine della storia – è il secondo riflesso di questa impostazione “anti-costruttivistica”. L’insostenibile distorsione del concetto di sovranità popolare (che di per sé non significa altro che “autodeterminazione di un popolo”), trasformata in “difesa del primato nazionale, della razza o dell’etnia”, è una menzogna figlia della rinuncia a qualsiasi desiderio di progettazione collettiva. Questa sinistra ha sacrificato se stessa sull’altare di un determinismo storico che postulava l’impossibilità di imprimere una direzione alle vicende umane dopo il fatidico 1989.
Se la modernità – come argomenta magistralmente il filosofo tedesco Reinhart Koselleck – è stata inaugurata con l’entrata delle classi subalterne sulla scena politica, attraverso la conquista della loro autodeterminazione durante la Rivoluzione francese, allora la sinistra è deliberatamente contro-moderna, più che post-moderna: essa esclude a priori, come un dato incontrovertibile, che le classi subalterne possano ancora aprire un orizzonte d’aspettativa in cui far valere la loro capacità di plasmare la realtà. È precisamente questa occlusione del futuro ad aver fatto precipitare la sinistra nel baratro dell’irrilevanza storica. Così rimane schiacciata su un asfissiante ed eterno presente, incatenata com’è all’iperrealismo disfunzionale del vincolo esterno e del pareggio di bilancio.
Insomma, la sinistra o è “costruttivista” o non è. O è capace di aprire un orizzonte d’aspettativa, ponendosi degli obiettivi collettivi, oppure non è politica, perché rimane inchiodata all’individualismo liberale, ci suggerirebbe Carl Schmitt (un altro “nemico” che non possiamo di certo definire un campione di democrazia). E dato che questi obiettivi non se li pone, perché, come ebbe a dire la Iron Lady “there is no such thing as society: there are individual men and women”, la sinistra non è solamente condannata ad essere “impolitica”. Semplicemente non esiste.
(1) È bene precisare che con “stato teleocratico” Hayek non intendeva soltanto quello socialdemocratico, ma, più in generale, qualsiasi ordine che si ponesse dei fini che fossero di natura religiosa, etnica, di classe, culturale o nazionale. Dato che però l’obiettivo principale della sua polemica era precisamente lo stato sociale, ci limiteremo qui a prendere in considerazione soltanto questo significato.
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