Una settimana dopo il voto in Iowa, il risultato delle primarie del New Hampshiresuona per molti aspetti, prevedibile. Quella di Bernie Sanders è stata una vittoria largamente annunciata, così come annunciate sono state sia la buona performance di Pete Buttigieg (secondo con il 24,4% dei consensi e 9 delegati conquistati), sia il deludente risultato di Joe Biden. In quest’ultimo caso, ciò che stupisce è piuttosto la scala della sconfitta: con l’8,4% dei consensi e nessun delegato conquistato, l’ex Vicepresidente è in coda alla pattuglia dei ‘big’ insieme con l’altra grande delusa della giornata, Elizabeth Warren (9,2% dei consensi e nessun delegato). Lo stesso Biden aveva in qualche modo pronosticato un cattivo risultato; la cosa non sembra, tuttavia, essere bastata a rassicurare né la sua base di consenso né i suoi finanziatori e rischia di complicare notevolmente la corsa dell’ex ‘superfavorito’. In attesa del ‘super martedì’ (3 marzo), nelle prossime settimane si voterà, infatti, in Nevada (22 febbraio) e soprattutto in South Carolina (29 febbraio), tradizionale ‘feudo’ democratico (ma dove, nel voto del 2016, la vittoria è andata a Donald Trump) e Stato considerato ‘sicuro’ per Biden, e dove un altro esito meno che soddisfacente potrebbe avere conseguenze molto serie per la sua candidatura.
Al momento, il nome che tiene banco è però, ancora una volta, quello di Bernie Sanders. Sia in Iowa, sia in New Hampshire, il senatore del Vermont ha confermato la sua capacità di mobilitare un consenso in larga misura trasversale, grazie da una parte a una piattaforma programmatica dai toni fortemente ‘liberal’, dall’altra alla riconoscibilità della sua figura e alla forte associazione che esiste fra questa e le sue proposte politiche. Ancora una volta, quindi, Sanders rischia di essere il candidato che ‘spariglia le carte’ in un partito che non sembra ancora essere riuscito a comporre le sue molte fratture interne.Nel 2016 proprio la rivalità fra Sanders e Hillary Clinton aveva portato queste fratture alla luce, spianando in parte la strada al successo di Donald Trump ma favorendo anche l’emergere della nuova leva di congressmen e congresswomen che il voto di midterm del 2018 ha portato a Capitol Hill. Oggi che le sue posizioni sono state, in molti casi, ‘assorbite’ dagli altri candidati, diversi dei quali hanno cercato (come maggiore o minore successo) di incorporarle nei rispettivi programmi, Sanders rimane la punta di lancia di un fronte che – sebbene minoritario all’interno della ‘macchina’ democratica – riesce spesso a imporre i temi in agenda e a indirizzare, in questo modo, il dibattito pubblico.
Come era chiaro sin dall’epoca dell’annuncio della sua candidatura, Bernie Sanders sarà, quindi, uno dei protagonisti delle primarie, specialmente alla luce dei risultati sinora non esaltanti di Elizabeth Warren, da molti considerata una sua possibile rivale ‘sul lato sinistro’ dello schieramento ‘dem’. Anche il confronto con il 2016 conferma questa ipotesi. Nel 2016, Sanders ha vinto il confronto con Hillary Clinton in ventitré Stati, portando alla convention nazionale una dote di 1889 delegati. Sconfitto in Iowa, in New Hampshire ha raccolto oltre il 60% del voto popolare e 16 delegati, performando bene anche in Nevada (47,29% dei consensi e 16 delegati contro il 52,64% dei consensi e 20 delegati di Hillary Clinton) e venendo penalizzato solo in uno Stato per lui non facile come il South Carolina (26% dei consensi e 14 delegati contro il 73,44% dei consensi e 44 delegati di Hillary Clinton). Occorre, inoltre, considerare che quello del 2016 era un voto con molti meno candidati rispetto all’attuale, quindi con una minore dispersione dei consensi; una condizione che, sotto molti punti di vista, ‘remava contro’ lo sfidante Sanders, che all’epoca doveva anche lottare per affermare la sua immagine presso l’elettorato e per accreditare la sua piattaforma contro quella della superfavorita Hillary Clinton.
Ovviamente, i risultati del New Hampshire non sono sufficienti a scogliere i dubbi sollevati da quelli dell’Iowa. Vale comunque la pena di sottolineare le ricadute che i sinora più che buoni risultati conseguiti da Bernie Sanders rischiano di avere sul fronte repubblicano. Compattato più che altro per mancanza di alternative credibili intorno alla figura di Donald Trump (ma il voto di Mitt Romney a favore dell’impeachment dice molto del disagio che esiste dentro il partito), il GOP troverebbe, infatti, in Sanders una sorta di avversario ideale, facilmente contrapponibile – a livello di percezione pubblica – al modello di Stati Uniti proposto dall’amministrazione. Il rischio è, da questo punto di vista, il riproporsi di una campagna elettorale polarizzata come quella del 2016, campagna che, inoltre, il candidato democratico si troverebbe a correre contro un Presidente che ha dalla sua parte il buon andamento generale dell’economia e un indice di consenso che appare da qualche tempo in crescita; due elementi, questi ultimi, che tolgono parecchio‘appeal’ alle ricette ‘socialiste’ di Sanders e che potrebbero indurre la tentazione di trasformare ancora una volta il voto in una sorta di referendum pro o contro Trump, riproponendo una strategia che tuttavia, in passato, non sempre si è dimostrata pagante.
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