E’vero che la Silicon Valley ha votato Biden e Harris? Quali top manager hanno appoggiato Biden? Per chi batteva il cuore di Big Pharma? Conversazione di Start Magazine con Stefano Graziosi, che scrive di politica internazionale su La Verità e ha seguito le elezioni Usa
E’ vero che la Silicon Valley ha votato Biden e Harris? Quali top manager di grandi gruppi o di grandi banche hanno appoggiato Biden? Per chi batteva il cuore di Big Pharma, per Trump o Biden? Conversazione di Start Magazine con Stefano Graziosi, giornalista e saggista, scrive di politica internazionale su La Verità: per il quotidiano fondato e diretto da Maurizio Belpietro ha seguito le elezioni Usa
E’ vero che la Silicon Valley ha votato Biden? Quindi significa che la guerra di Trump a Huawei non trova consensi nella Silicon Valley?
Cominciamo con il ricordare che la vittoria del ticket democratico sia stata prontamente salutata con favore da Jeff Bezos, Bill Gates, Priscilla Chan e dal direttore operativo di Facebook, Sheryl Sandberg. Un consenso molto forte da parte dei big tech, un consenso certo non inatteso, visti gli storici legami che Kamala Harris intrattiene con le grandi aziende tecnologiche. Lo scorso agosto, il sito Vox riferì che nel 2014, durante il suo incarico come procuratrice generale della California, la Harris abbia ricevuto donazioni da David Drummond (Google), Marissa Mayer (Yahoo), e dalla stessa Sandberg (Facebook). Alla luce di tutto ciò, è probabile che la senatrice californiana sia stata scelta come vice anche per inviare segnali di distensione alla Silicon Valley da parte del Partito democratico. Ricordiamo infatti che l’altro nome in lizza fosse quello della senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren: una figura che ha sempre affermato di voler portare avanti una dura legislazione antitrust contro i big del web. E’ pur vero che, nell’aprile del 2018, la Harris fu molto severa con Mark Zuckerberg durante un’audizione al Senato. Il tema era tuttavia quello del tracciamento dei dati e di Cambridge Analytica. In materia antitrust si è invece finora rivelata molto evasiva. Più in generale, va anche rilevato come la Silicon Valley abbia spesso guardato con apprensione alla guerra tariffaria, ingaggiata da Trump con la Cina. Quella stessa guerra tariffaria che – durante il dibattito tra i candidati alla vicepresidenza – la Harris ha guarda caso ferocemente criticato.
Quali top manager di grandi gruppi o di grandi banche hanno appoggiato pubblicamente Biden?
Alla fine di settembre, il sito della Cnn – citando Open Secrets – riportava che Biden avesse ricevuto 156.000 dollari da esponenti di Goldman Sachs. Con quasi 400.000 dollari, l’ex vicepresidente ha inoltre incassato da Jp Morgan tre volte il valore delle donazioni che dallo stesso istituto sono arrivate a Donald Trump. Anche Bank of America e Wells Fargo hanno foraggiato maggiormente la campagna di Biden rispetto a quella del presidente in carica. Era invece lo scorso febbraio quando il sito di Cnbc riportò che, in una lista di finanziatori invitati da Biden ad alcuni eventi di raccolta fondi a New York, comparissero (tra gli altri): l’ex Ceo di Morgan Stanley, John Mack; il capo operativo di Blackstone, Jonathan Gray; il capo della comunicazione corporate di Goldman, Jake Siewart. Tutto questo senza poi trascurare il potente sostegno finanziario, messo a disposizione a Biden in questa campagna elettorale dall’ex sindaco di New York, Mike Bloomberg.
Il cuore di Big Pharma batteva per Biden?
Diciamo che non batteva per Trump. Non solo il presidente aveva avuto con questo mondo qualche attrito sulla questione del vaccino per il Covid ma – lo scorso settembre – aveva siglato un ordine esecutivo per ridurre il costo dei medicinali: una misura fortemente contestata dalla grande industria farmaceutica. Di contro, l’attuale ticket democratico intrattiene legami abbastanza solidi con quella galassia. Nel luglio del 2019, The Intercept riferì che Kamala Harris – all’epoca candidata alle primarie del Partito Democratico – avesse ricevuto migliaia di dollari in quei mesi da alti esponenti di grandi aziende del settore, come Endo Pharmaceuticals, Global Blood Therapeutics, Pfizer e Vertex Pharmaceuticals. Furono donazioni che misero parzialmente in imbarazzo la senatrice (soprattutto agli occhi dei sostenitori di Bernie Sanders): non a caso, la Harris era partita sostenendo la proposta sandersiana di un sistema sanitario universale, ma – nel corso delle primarie – cambiò linea, annacquando non poco la sua posizione originaria. Questa è anche una delle ragioni per cui i settori politici più vicini al senatore del Vermont non hanno mai nutrito troppa simpatia per la vicepresidentessa in pectore. E questo potrebbe rivelarsi un problema per un’amministrazione Biden.
Ha scritto il capo strategist dei fondi Kairos, Fugnoli: “Se Trump e il Congresso repubblicano hanno tagliato le tasse per un trilione di dollari nel 2018 (una cifra considerata da molti abnorme), Biden alzerà le tasse di 4 trilioni (sono cifre della campagna Biden, non gonfiate dagli avversari), colpendo in particolare le imprese e i redditi alti”. Ma allora perché molti top manager hanno tifato Biden?
I fattori sono molteplici. In primo luogo, va tenuto presente che molti manager dei colossi finanziari vivano in aree cittadine a forte maggioranza democratica (si pensi solo a New York City). In secondo luogo, va anche ricordato che – in alcuni casi – queste figure abbiano in passato svolto ruoli all’interno di amministrazioni democratiche (è per esempio il caso di Jake Siewert ai tempi di Bill Clinton). In terzo luogo, credo che il fattore ideologico svolga un ruolo significativo. Anche magari a fronte di eventuali politiche potenzialmente meno vantaggiose, i grandi colossi vogliono comunque rimanere “dalla parte giusta”: quella, cioè, per cui “tifano” i grandi media. Questo per evitare polemiche, critiche o altri eventuali danni d’immagine. Tra l’altro, va anche ricordato che Wall Street abbia sempre considerato Biden come un candidato moderato e, in questo senso, rassicurante. Quel che Wall Street temeva maggiormente era una vittoria di Bernie Sanders alle primarie democratiche e un’onda blu al Congresso che potesse rafforzare sensibilmente l’ala sinistra dell’asinello. Si tratta di due scenari scongiurati. Resta tuttavia il forte rischio che Biden possa rimanere ostaggio della sinistra dem.
Il nuovo presidente dovrà fare una politica il più possibile bipartisan, lasciando inattuate le sue promesse più indigeste ai mercati, secondo Andrea Delitala, Head of Investment Advisory di Pictet. Andrà così?
Il problema di una presidenza Biden sarà proprio la difficoltà nel riuscire a trovare una politica bipartisan. Biden, per storia politica personale, sarà indubbiamente portato a cercare una convergenza con i repubblicani centristi: una strategia che tenterà di adottare per sganciarsi dall’ala sinistra dell’asinello e aggirare un eventuale Senato ostile. Il punto è che questo tipo di linea poteva andare bene negli anni ’90. Oggi la crescente polarizzazione politica rende molto difficoltoso un simile percorso. Non trascuriamo che, a neanche una settimana dalle presidenziali, siano già partiti i litigi – nell’asinello – tra i deputati centristi e quelli di sinistra. In tal senso, proprio Wall Street potrà rivelarsi uno scoglio per questa presidenza: come riuscirà Biden a trovare la quadra tra le istanze di Elizabeth Warren e quelle dei democratici centristi su fisco e riforme del settore finanziario? Paradossalmente Wall Street potrebbe trovare beneficio proprio da uno stallo istituzionale con una presidenza democratica e un Senato repubblicano. In un simile scenario, per Biden risulterebbe quasi impossibile concretizzare – almeno nei prossimi due anni – le proprie proposte fiscali.
Vi ricordate il vecchio detto DIVIDIT E IMPERA? Bene rileggetevi tutti gli
Art fino ad ora scritti, sia su Trump che su Biden mettendo queste tre parole da me scritte. È vero che sono di 2000 anni fa, ma sono sempre valide