Il Nuovo Ordine Mondiale e il “decline and fall” degli Stati nazionali
di NUOVA RIVISTA STORICA (Giuseppe Spagnulo)
Una caratteristica che risalta ampiamente quando si prova a delineare la configurazione della struttura delle relazioni internazionali degli ultimi trent’anni è la presenza, davvero imponente accanto ai tradizionali Stati sovrani e alle organizzazioni intergovernative, di una variegata molteplicità di attori non statali, ascesi a ruoli di estrema rilevanza sul palcoscenico internazionale e spesso capaci di influenzare, se non proprio di condizionare, aspetti importanti della politica estera e interna degli Stati e dell’economia internazionale. Multinazionali, ONG, agenzie di rating, soggetti pubblici non statali, compagnie petrolifere, finanziarie, colossi dell’e-commerce e del web, enti filantropici ecc., agiscono ormai come soggetti internazionali a pieno titolo, affiancati – insieme agli Stati – ad una vasta congerie di organizzazioni multilaterali, da quelle universali – come l’ONU – a quelle regionali, sovranazionali e settoriali, di più ampio e disparato indirizzo. Ognuno agisce in un determinato comparto o specifico settore, ma comunque a livello internazionale e, spesso, in concorrenza con gli Stati nazionali.
Così, il tradizionale sistema vestfaliano degli Stati sovrani, nato in piena età moderna, sembra essere stato ampiamente irretito, alterato (e ad alcuni è parso addirittura surclassato) dalla costante interazione con queste molteplici soggettività (o reti di soggettività) operanti in ambito internazionale, che sempre di più si sono inserite o sovrapposte alle reti diplomatiche tradizionali.
Non c’è dubbio che la fine della Guerra fredda e l’avvento di un nuovo ordine mondiale “globalizzato” a egemonia americana, fondato sul primato dell’economia di mercato, del capitalismo globale e delle sue élites cosmopolite, abbiano costituito delle tappe fondamentali per accelerare un tale processo, per estenderne la portata, e per fare apparire con tutta evidenza questa realtà composita e sfaccettata dell’ordine internazionale, non sottratta agli effetti – assolutamente innovativi – indotti dagli sviluppi tecnologici della «quarta rivoluzione industriale», caratterizzata da internet e dall’intelligenza artificiale. Si tratta di una materia molto complessa da sviscerare e che da parecchio tempo viene attentamente analizzata da politologi, analisti, storici e da molti altri studiosi di varia estrazione e provenienza.
Tra gli altri, se ne sono occupati, con una recente e interessante pubblicazione collettanea, un diplomatico e un politologo italiani: Stefano Beltrame, attualmente ambasciatore a Vienna e Raffaele Marchetti, docente di Relazioni Internazionali alla LUISS “Guido Carli”, con il saggio Per la patria e per profitto. Multinazionali e politica estera dalle Compagnie delle Indie ai giganti del web (Roma, LUISS University Press, 2022). Quel che non deve sfuggire – sostengono gli autori di questo libro – è che l’interazione tra governi nazionali e soggetti internazionali privati o autonomi rappresenta una costante della storia, nata praticamente insieme allo State System vestfaliano. Così anche la «globalizzazione», in tutti i suoi aspetti e campi, è un processo di lunga durata piuttosto che una novità degli ultimi trent’anni, risalente, quanto meno, all’epoca in cui il «globo» stesso iniziò a disvelarsi nella sua interezza, grazie alle scoperte geografiche e al progressivo dominio marittimo, tecnologico e coloniale europeo. Insomma, la «globalizzazione» nasce col mondo moderno e, progressivamente, si estende, acquisisce nuove dimensioni, si approfondisce con le trasformazioni tecnologiche, dei trasporti e delle comunicazioni, si inserisce e modifica essa stessa le dinamiche politiche internazionali, le guerre, etc.; avvicina – nel bene e nel male – popoli lontanissimi per geografia e cultura, e progressivamente rende il mondo intero più interconnesso e interdipendente. Lo stesso sistema vestafaliano fondato sugli Stati sovrani ed eguali giuridicamente si «globalizza» con la decolonizzazione asiatica ed africana del XX secolo, trasformandolo qualitativamente, oltre che quantitativamente, in un processo che non ha trovato ancora una soluzione definita e formalizzata.
Come già accennato, in questa parabola così caratterizzante la modernità, il ruolo giocato dal connubio tra Stati e soggettività autonome non-statali come le multinazionali, e che nel volume viene definito come “diplomazia ibrida”, è stato archetipico. Ed è proprio di questo nesso e percorso che tratta Per la patria e per profitto.
Il volume si propone appunto di spiegare l’evoluzione del sistema vestfaliano e del costante intreccio tra business e politica estera nella storia degli ultimi cinque o sei secoli, non prima di aver approfondito nelle prime pagine, anche con gli stumenti di un’analisi teorica, i concetti di “diplomazia ibrida” e di global governance, pilastri di quello che viene descritto come un nuovo paradigma caratterizzante la struttura delle relazioni internazionali e la vita dei singoli Stati: il paradigma “ibrido”, per l’appunto, prodotto di una evoluzione passata per il tradizionale paradigma “vestfaliano” (caratterizzato dal principio per cui lo Stato superiorem non recognoscens ed è l’assoluto dominus sulla propria vita interna), ed anche attraverso quello che viene individuato come il paradigma di “San Francisco” affermatosi dopo il 1945, ossia quello fondato su un’autolimitazione della condotta degli Stati per il tramite dell’ONU e di altre organizzazioni internazionali, che legano tra loro gli Stati in una matrice di accordi e trattati sempre più estesa e complessa (e che gli autori vedono come l’adesione degli Stati ad una sorta di “contratto sociale internazionale”).
Il paradigma ibrido si fonderebbe invece sulla global governance e sulla pluralizzazione, quantitativa e qualitativa, degli attori che agiscono ed influiscono nella vita internazionale e, financo, nella vita interna degli Stati, definendo un modello di diplomazia, per l’appunto, detta “ibrida”. La global governance sarebbe caratterizzata da una relativa decentralizzazione e dislocazione delle fonti del potere, politico ed economico, che sono alla base dei processi decisionali globali, ed include, a più livelli, diverse autorità (la governance è appunto una “poliarchia”). Una pluralità di soggetti – statali e non – partecipano alla definizione di sistemi di regole multilaterali assunte a livello globale, transnazionale, nazionale o regionale, in un processo dinamico, pragmatico e continuo, «un gioco permanente di interazioni, conflitti, compromessi, negoziazioni e aggiustamenti reciproci». Il risultato sarebbe così, per i singoli Stati nazionali, e soprattutto per quelli più deboli e svantaggiati, quello di una effettiva sottrazione di potere di comando e di alcune prerogative sovrane, con l’esposizione delle politiche nazionali ai vincoli dei complessi e invasivi sistemi (e sottosistemi) in cui ognuno è inserito, e alle reti transnazionali di attori (agenzie di rating, corporations, investitori internazionali, i “mercati”) che pure attraversano ed impattano la vita economica e politica degli Stati, arrivando a poter condizionare dall’esterno i governi nazionali, cui non restano che la necessità di adeguarsi e margini sempre più stretti di autonomia nella decisione politica.
D’altro canto, è opportuno ravvisare che, a parere di chi scrive, tale modello di governance globale e di “globalizzazione ibrida” ha rappresentato il principale volano del disordine internazionale che ha attraversato il pianeta nell’ultimo ventennio. E che, pur agendo in un mondo ritenuto piatto (quello che qualche tempo fa si definiva, un po’ ottimisticamente, “villaggio globale”), non ha di fatto mai smantellato davvero gerarchie e rapporti di forza di tipo più tradizionale, sia in senso politico che economico. Ed oggi, che assistiamo ad una guerra (peraltro essa stessa “ibrida”) che va già prepotentemente alterando gli equilibri internazionali del dopo Guerra fredda, col relativo declino del monocentrismo statunitense, possiamo esserne anche più convinti.
Ambizione del volume di Beltrame e Marchetti è, dunque, quello di «aumentare la consapevolezza dei rischi e delle opportunità che derivano dalle dinamiche ibride che sempre più caratterizzano la politica globale» e di «offrire alcune chiavi di lettura interpretativa per questa realtà». Operazione che viene svolta, oltre che attraverso la messa a fuoco, nei primi capitoli, del problema già accennato della governance globale attuale e della diplomazia ibrida, anche con una puntuale ricostruzione storica di quest’ultima e dell’ambiguo intreccio tra governi nazionali e compagnie private (o altri soggetti non statali) che ha storicamente contraddistinto la politica estera della maggior parte degli Stati. Si ricostruisce altresì l’evoluzione del sistema internazionale da Vestfalia in poi, mettendo in luce la progressiva affermazione delle organizzazioni internazionali e il proliferare di nuovi e diversi attori internazionali non statali.
Il libro si presenta, quindi, come uno studio a cavallo tra la storia delle relazioni internazionali, la storia economica, la politologia internazionalista e la storia giuridica internazionale. E si presta ad una lettura molto affascinante e scorrevole, adatta per qualunque tipo di lettore, che restituisce, al tempo stesso, numerosi stimoli di riflessione.
Per evidenziare la storicità del connubio tra potere statale e potere privato (o informale), gli autori risalgono alle esperienze politico-commerciali delle repubbliche marinare italiane, e ad anche all’epopea della pirateria “di corsa”, sovvenzionata, a partire dalla seconda metà del ‘500, dai sovrani degli Stati protestanti d’Europa, per contrastare sul mare lo strapotere continentale e coloniale raggiunto dalla Spagna asburgica e cattolica (che, viceversa, guardava a tali Stati come dei veri e propri “Stati canaglia” ante litteram). Ma il precedente storico su cui gli autori si soffermano più ampiamente è quello delle compagnie mercantili europee del ‘600-‘700, le famose “compagnie delle Indie”: si trattava di vere e proprie società per azioni, cui i sovrani riconoscevano il monopolio del commercio in settori geografici specifici e l’autorizzazione a concludere trattati, muovere guerra, governare i possedimenti coloniali, amministrarvi la giustizia ed arruolare truppe mercenarie.
La spinta originaria che fu alla base dell’ascesa di queste compagnie fu soprattutto quella commerciale: il profitto puro e semplice, che muoveva mercanti, amministratori e investitori delle compagnie (tra i cui azionisti figurava spesso anche la Corona o lo Stato); ma alla volontà di profitto individuale si legarono pure le volontà di potenza dei grandi Stati europei, che iniziarono a comprendere come la ricchezza economica e commerciale costituisse la base della potenza politica e militare di uno Stato, e che questa iniziava a passare attraverso l’espansione nei territori d’oltremare. La congiunzione tra l’aspirazione al profitto individuale e la ricerca di potenza da parte degli Stati costituì una miscela di forza che ha consentito a tali compagnie mercantili – olandesi, francesi, danesi, e soprattutto britanniche – di gettare le fondamenta degli imperi coloniali europei, favoriti anche dall’emergere di una netta superiorità tecnologica, organizzativa e militare rispetto alle entità politico-statuali e ai popoli extra-europei che progressivamente si iniziarono a condizionare e poi a dominare.
Va detto, per aggiungere qualche riflessione sui contenuti del libro, che il connubio tra potere statale e potere privato informale nacque anche per esigenze dettate dalle incertezze giuridiche sul diritto del mare, un’autentica novità per gli Stati europei del ‘500-‘600, ancora in gran parte feudali, e dalla netta distinzione che si venne via via elaborando tra lo ius publicum europeum (il diritto pubblico europeo, ovvero il diritto valido all’interno del continente europeo e tra Stati europei) e il diritto d’oltremare, stabilito, di fatto, a metà ‘500 dalle potenze atlantiche nordeuropee al di là di determinate linee geografiche a largo dell’Atlantico (le cosiddette amity lines) – ossia
ad ovest delle Canarie e a sud del Tropico del Cancro – col proposito di rovesciare l’egemonia coloniale spagnola e portoghese stabilita, a suo tempo e per mezzo del papa, col trattato di Tordesillas (1494). S’intende che tale diritto d’oltremare voleva dire assenza di diritto o diritto del più forte, voleva dire libertà illimitata di conquista coloniale, e voleva dire che la lotta per le colonie americane o per gli avamposti commerciali nell’Oceano Indiano e Pacifico (ossia oltre le amity lines) poteva avvenire al di fuori dello ius publicum europeum, e, teoricamente, senza che ciò determinasse una guerra automatica intra-europea, né che valessero le stesse limitazioni belliche di una guerra continentale.
In tal senso, la delega di funzioni pubbliche a compagnie commerciali private sopperì al bisogno di non esporre eccessivamente i governi ufficiali nelle vicende riguardanti la conquista coloniale e nella competizione tra compagnie commerciali concorrenti. D’altronde, gli spazi periferici e quelli extraeuropei continuarono a procurare una valvola di sfogo all’equilibrio di potenza europeo, consentendo ai principali attori di spostare la competizione là dove, non essendo in gioco interessi vitali, le guerre potevano essere combattute a prezzi diplomatici ed economici più bassi, non foss’altro perché trapiantate lontane da casa. Fu molto spesso così che, quasi distrattamente, tramite attori privati e grazie alla propulsione commerciale, furono poste le basi per la costruzione degli imperi europei. Un’altra prova dell’originalità della “diplomazia ibrida” che dimostrava tutta la sua vitalità già prima della nascita del sistema di Vestfalia (1648).
Nel volume si citano altri esempi di connubio tra l’interesse statale e interesse privato (o particolare) nella politica internazionale, come quello delle compagnie petrolifere, pubbliche e private, diffusesi a partire dall’inizio del ‘900, in concomitanza della scoperta del petrolio quale utile e sempre più strategica risorsa energetica per i sistemi industriali e civili nazionali. Anche qui pare sussistere una forte complementarità tra i due elementi del binomio: una compagnia petrolifera (pensiamo all’ENI) può agire autonomamente, anche al di fuori dei vincoli diplomatici ufficiali del suo Paese, e può avere una propria diplomazia informale, parallela a quella del proprio ministero degli Esteri; ciò le consente di muoversi più agilmente tra le classi dirigenti dei Paesi produttori di petrolio o di gas, spinta dall’interesse ben preciso di siglare il maggior numero di contratti possibili nel mondo, e a condizioni possibilmente, vantaggiose. Lo Stato, da parte sua, offre copertura politica e di intelligence alle proprie compagnie, col risultato di ottenere per il proprio Paese le risorse necessarie a garantire l’approvvigionamento del sistema industriale e del sistema energetico nazionale, possibilmente senza eccessivamente dipendere da altre compagnie straniere.
Del resto, fin dai tempi più remoti, una delle attività dei diplomatici è stata la promozione nell’economia e dell’imprenditoria nazionale nei Paesi in cui hanno svolto il proprio servizio professionale. Ma convergenze di interessi simili tra Stato e privato valgono, caso per caso, anche per le multinazionali odierne.
Oggi, sostengono Beltrame e Marchetti, nell’epoca delle grandi corporations, dei giganti del web e dell’ascesa economica e politica della Cina, sempre maggiore è il riconoscimento dell’intreccio tra proiezione internazionale di un Paese attraverso la sua formale politica estera e la sua presenza economica, industriale e tecnologica. Mai come in questa fase di ripolarizzazione del sistema internazionale, la sfida economica e tecnologica è stata così al centro, una sfida che sta già cambiando il modo in cui ci rapportiamo al mercato e alla politica estera. «Viviamo in un’epoca in cui la sicurezza nazionale è sempre più percepita anche come sicurezza economica e in cui la prospettiva di benessere della comunità politica tiene insieme la capacità delle imprese di competere a livello internazionale e la capacità dei governi di sostenerle adeguatamente». La sfida di tutti i governi, e gli autori si riferiscono soprattutto al nostro, è quella di sviluppare sempre più sofisticati metodi di sinergia pubblico-privata per rendere più credibile e incisiva la presenza internazionale del proprio Paese.
Migliorare la capacità del “sistema-Paese” è dunque fondamentale per essere rilevanti a livello mondiale. Merito di questo volume è dunque quello di aver brillantemente illuminato questa realtà, attingendo al bagaglio della storia, con l’auspicio è che i nostri prossimi governanti ne abbiano adeguatamente conto.
(Pubblicato il 4 settembre 2022 © – La nostra storia)
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