I documenti usciti dal Pentagono e da altre strutture securitarie Usa su iniziativa della “talpa” Jack Teixeira hanno segnato l’ennesimo caso di “leak” interno agli apparati federali Usa e fatto parlare di sé tutto il mondo. Questa volta, però, rispetto a casi come quelli di Julian Assange e Edward Snowden il fronte delle rivelazioni è meno espanso. Non c’è alcuna rivelazione di programmi massivi operati dalle amministrazioni Usa né messa nero su bianco di grandi segreti di Stato come potevano essere le operazioni di “osservazione” (leggi spionaggio) compiute verso gli alleati ai tempi della Guerra al Terrore.
Il vero dato politico è la vulnerabilità dell’America alle rivelazioni di questo tipo e soprattutto alla capacità di gestione delle crisi politiche. Negli ultimi anni, la spinta emergenziale con cui le amministrazioni Usa hanno affrontato queste rivelazioni ha tradito imbarazzo o rabbia, ma la scelta di Joe Biden di rispondere dopo un’iniziale apatia con un’escalation di smentite sembra mostrare un’incertezza interna che la prima potenza globale difficilmente può permettersi di sostenere.
Rivelazioni utili ma non sconvolgenti
Di per sé, infatti, i documenti “bucati” dal 21enne Teixeira su Discord non fanno la differenza sulla conoscenza degli scenari globali né rivelano gli arcana imperii della superpotenza a stelle e strisce e del suo sistema di alleanze. Cosa raccogliamo dalle rivelazioni? La consapevolezza Usa che nel conflitto russo-ucraino c’è una lotta di potere tra Sergej Shoigu e Evgeni Prigozhin per la gestione dell’invasione. Fatto del resto ben conclamato dal capo della Wagner con la sua roboante comunicazione negli ultimi mesi. La natura di “mediatore” assunta da Vladimir Putin tra i vari animi dello Stato profondo di Mosca può stupire solo chi credeva alle voci da social che vedevano il presidente russo come un novello Stalin paranoico e circondato da una corte di lacché.
Si è fatta poi molta enfasi sul fatto che i dati emersi dai documenti rivalutino al rialzo rispetto alle comunicazioni ufficiali le stime americane dei morti di guerra ucraini e ridimensionino il numero di truppe russe morte. Ma in quest’ottica, per mesi il numero ufficiale che ha portato all’accumulazione dei famosi “200mila morti” russi è stato preso per buono dalle fonti occidentali pur provenendo da una parte in causa, l’esercito difensore. Validi analisti militari capaci di padroneggiare le logiche della guerra e gli strumenti di Open source intelligence hanno da tempo sottolineato la difficoltà di calcolare effettivamente i morti per ogni parte e invitato alla cautela. Nel mondo informativo, fuori dai titoli di giornale, c’era già consapevolezza dell’arbitrarietà di molte stime.
Sicuramente d’interesse è il fatto che gli Usa siano a conoscenza della presenza di un manipolo di poche decine di unità delle forze speciali europee che danno sostegno all’Ucraina. Ma del sostegno spionistico e d’appoggio logistico per il flusso informativo diretto al governo Kiev e per governare l’arrivo delle armi dall’Occidente si è parlato da tempo. Così come, relativamente al fronte europeo, non sorprende il fatto che la Germania abbia sovrastimato i carri effettivamente consegnati (con riluttanza) a Kiev.
Gli Usa spiano gli alleati ma non da oggi
Il vero ruolo informativo dei documenti trafugati, se saranno confermati autentici, sarà quello di aver messo in fila molte cose già note. Ma che prese singolarmente non sconvolgono. Pensiamo alla rivelazione di operazioni di spionaggio compiute verso alleati o Paesi amici storicamente vicini agli Usa come Corea del Sud, Egitto e perfino Ucraina e Emirati Arabi. Non stupiscono al confronto di quanto rivelato dieci anni fa da Snowden o ancor prima da Assange.
Innanzitutto c’è spionaggio e spionaggio. Il programma Prism smascherato da Snowden mostrava una capacità di proiezione globale della National Security Agency (Nsa), in grado di spingersi ben oltre lo stesso mandato conferitole dagli apparati securitari. Washington arrivava a spiare anche una strettissima alleata come la Cancelliera Angela Merkel, intercettava ministri e leader di ogni Paese, costruiva una rete di conoscenza capillare.
Oggi i documenti trafugati mostrano una commistione tra informazioni raccolte da agenti d’influenza e voci nate da passaparola. Ma che politicamente possono essere spiegate. Può forse stupire che l’Egitto di Abd Fatah al-Sisi sia stato scoperto disposto a fornire 40mila razzi all’esercito russo in una fase in cui Mosca manteneva aperta la sottile linea che portava il grano esteuropeo in Egitto, evitando una crisi alimentare al Faraone del Cairo? O che la Corea del Sud fosse inizialmente restia ad armare Kiev ben conscia della volontà di usare la sua industria militare per il più proficuo export di massa? O, infine, che i documenti classificati mostrano una scarsa convinzione americana per un successo militare ucraino nella guerra con Mosca, cosa del resto già detta esplicitamente dal presidente del Joint Chief of Staff, generale Mark Milley?
La vera fragilità americana
In quest’ottica però c’è da considerare il dato di fondo di un’intrinseca fragilità dell’America. L’airman Teixeira ha potuto mettere le mani facilmente su documenti classificati raccolti alla rinfusa e diffusi in forma abbastanza amatoriale. Ma questo mostra una falla securitaria notevole.
Il New York Times ha usato un gioco di parole per definire la fuga di notizie: “Top secret is not so secret”. Di fronte al fatto che un giovane aviatore di un’unità di intelligence della Massachusetts Air National Guard avesse potuto accedere così facilmente a documenti sensibili un campanello d’allarme si è acceso a Washington. Secondo il quotidiano della Grande Mela, l’aumento esponenziale del personale con il nulla osta di sicurezza per accedere a documenti ultra-confidenziali ha portato oggi a rendere sempre più possibili potenziali fughe: “I funzionari del Pentagono dicono che il numero di persone con tale accesso è nell’ordine delle migliaia, se non delle decine di migliaia. E appena sotto di loro, quelli con l’autorizzazione per il livello di segretezza medio includono quasi tutti gli altri che lavorano per il Pentagono o altre agenzie di sicurezza nazionale. Ci sono appaltatori militari e persino analisti di think tank che hanno un certo livello di nulla osta di sicurezza”.
Anche lo stesso Snowden, già dieci anni fa, pur essendo stato in precedenza dipendente della Cia lavorava come consulente dell’Nsa per un’azienda esterna con accesso a documenti classificati e confidenziali. Il sistema di subappalto, teso allo scaricabarile delle responsabilità e alla carenza di controlli interni ha prodotto un “mercato” dei documenti sensibili che rende gli Usa esposti a attori malevoli. Tanto che perfino i servizi segreti di Israele, in virtù della strettissima collaborazione d’intelligence Washington-Tel Aviv, si sono allarmati cercando di capire quanto il caso possa produrre impatti sulla sicurezza nazionale dello Stato ebraico.
L’imbarazzo di Biden
Tutti questi fatti creano indubbiamente un grattacapo al presidente Joe Biden. Mentre il dipartimento della Giustizia di Washington lavora per scoprire se dietro Teixeira si sia mosso un gruppo più strutturato, il presidente è preso d’infilata su più fronti.
Il primo è quello della sicurezza interna, dato che le rivelazioni hanno mostrato falle che il governo del Partito Democratico dovrà tamponare, visto lo scostamento temporale tra la fuga di notizie e la presa di consapevolezza di Washington.
Il secondo, indubbiamente, è quello della consapevolezza politica. L’imbarazzo tradito dall’iniziale silenzio della Casa Bianca e la conferma che neanche con uno dei più stretti alleati degli Usa, il premier britannico Rishi Sunak, Biden abbia discusso dei leak mostrano un’eccessiva tendenza all’ingessamento da parte dell’amministrazione. E parimenti segnalano una carenza di capacita di crisis management nel cerchio magico del presidente. Il caso del pallone spia cinese abbattuto a febbraio è paradigmatico, con la Casa Bianca che ha tergiversato diverso tempo prima di arrivare alla decisione dell’abbattimento e al conseguente braccio di ferro diplomatico.
Infine, dato fondamentale, si ripropone il problema reputazionale. Il presidente che aveva affermato come l’America “fosse tornata”, che aveva accusato di disastri politici Donald Trump, che ne aveva criticato la politica estera e di sicurezza inciampa sulla buccia di banana dei documenti trafugati che mostrano, comprensibilmente, piccole e grandi ipocrisie della superpotenza. Ad aprire gli archivi di ogni Stato non si troverebbe molto di diverso. Ma per un’America che sta riaffermando il ruolo guida sull’Occidente ogni incidente è scivoloso. Anche se si tratta di un sassolino rispetto alle valanghe dei casi Assange e Snowden.
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