È ancora troppo presto per valutare l’impatto della lettera che, attraverso la sorella, il leader nord-coreano Kim Joung-un ha fatto pervenire al suo omologo del Sud, Moon Jae-in. L’incontro al vertice, ammesso che si arrivi a celebrare, sarebbe comunque il terzo (anche se il primo da oltre dieci anni), e dei precedenti poche tracce sono rimaste, se non negli archivi degli esperti di diplomazia.
Lo scambio di cortesie avvenuto sotto l’ombrello di questa tregua olimpica può però essere spia di un cambiamento nello scenario geopolitico ancor più epocale che non il nuovo inizio delle trattative tra le due Coree, se si pensa che si è prodotto alle spalle della potenza fin qui egemonica su scala globale. Anzi, per certi versi, contro il parere USA, a giudicare dalla reazione, sorpresa e poco comprensiva, del Vice-presidente Mike Pence. Ci potremmo cioè addirittura trovare di fronte ad un punto di accelerazione nel processo di declino dell’egemonia statunitense.
Il concetto di egemonia, distinto da quello di puro dominio, può essere applicato tanto alle relazioni tra gruppi sociali, quanto a quelle tra Stati. E dal nostro punto di vista di occidentali non c’è dubbio che, a partire dalla guerra fredda, ed ancor più in seguito al disfacimento dell’URSS, gli USA abbiano esercitato una funzione di “direzione intellettuale e morale” della comunità delle nazioni, ben al di là della mera coercizione, attraverso la capacità di proiezione universalizzante del proprio ruolo e dei propri interessi.
Ciò che andava bene per gli Stati Uniti andava bene per il mondo, parafrasando un americano che di costruzioni egemoniche se ne intendeva. E, allo stesso tempo, ciò che danneggiava gli Stati Uniti d’America danneggiava il mondo intero. L’esemplificazione massima della cogenza di questo schema, e dunque l’acme dell’egemonia unipolare nordamericana, si è forse raggiunta all’indomani dell’11 settembre: l’attacco alle torri gemelle fu vissuto come un attacco all’intero Occidente, cioè al mondo, o per lo meno alla sua parte “civilizzata”. In realtà in quel momento – o forse a causa della gestione delle conseguenze di quel momento da parte delle classi dirigenti a stelle e strisce – l’egemonia USA ha iniziato il suo lento declino.
L’invasione dell’Iraq come prosecuzione della war on terrorism già manifestò questo declino: con il suo presupposto di una coalizione raccogliticcia e poco credibile che non riusciva a mascherare un progetto di dominio unilaterale (ed oltretutto presto sfaldatasi con il ritiro delle truppe spagnole); e le sue conseguenze di prove rivelatesi false, torture e detenzioni illegali ed in contrasto con il diritto internazionale. La perdita di egemonia sofferta sul finire della presidenza Bush fu esemplificata dall’isolamento sofferto dagli Stati Uniti nel proprio giardino di casa, in quell’America Latina che proprio in quegli anni vide il fiorire dei governi progressisti, e dei progetti di integrazione sub-continentali portati avanti in netta rottura con una precedente stagione di subordinazione ai disegni elaborati al nord del Rio Grande.
Con Obama si è assistito ad un tentativo neoegemonico in chiaroscuro, tra innegabili successi come quello riportato in Iran (un successo, tuttavia, riconosciuto più dalle cancellerie europee che dall’opinione pubblica interna), e la riproposizione di uno schema destabilizzante e fallimentare in Libia prima e Siria poi. In questo contesto, l’elezione di Trump, con il suo sbandierato isolazionismo, può forse rappresentare una presa d’atto di una egemonia oramai impossibile, e la manifestazione di una (pericolosa) oscillazione tra una chiusura in se stessi degli Stati Uniti e un loro progetto globale. Basato questa volta non sull’egemonia, ma sul dominio.
Certo è che l’esclusione della (ex?) superpotenza da qualsiasi ruolo nelle trattative per la pace in Corea marca un punto di svolta: è come se si fosse aperto uno spiraglio su di un futuro governato da un nuovo ordine multipolare. In Occidente i due termini, “ordine” e “multipolare”, suonano contraddittori. Il nostro orizzonte vitale, anche per i nati dopo l’89, è comunque quello della guerra fredda e del successivo trionfo degli Stati Uniti. Siamo portati a considerare come “ordinato” un mondo vigilato da un “gendarme”, se non da due gendarmi. Allo stesso tempo, storicamente, i nostri periodi di prosperità si sono sviluppati sempre in corrispondenza di una egemonia forte – fosse quella della Firenze della pace italiana del ‘400, dell’Olanda, della Gran Bretagna e degli Stati Uniti; mentre abbiamo sperimentato “periodi multipolari” soltanto accompagnati da caos sistemico – le due guerre dei trent’anni 1618-1648 e 1915-1945. L’Occidente ha paura di un mondo post-egemonico, anche perché sarebbe un mondo non più egemonizzato dall’Occidente.
Ma lo spiraglio apertosi in Corea getta anche qui una luce sulle potenzialità pacifiche di un ordine multipolare, una volta che impariamo a non considerare come un ossimoro la giustapposizione dei due termini. Pensiamo per esempio a cosa significherebbe per noi europei, in termini di costruzione democratica della convivenza tra eguali nel Vecchio continente, iniziare una nuova integrazione che sfidi il tabù di una inevitabile egemonia tedesca,.
Certo l’ombra cinese aleggia sul gigantesco processo in atto, e c’è la possibilità che ciò a cui stiamo assistendo sia un passaggio di consegne da un’egemonia all’altra, più che la gestazione di un mondo compiutamente post-egemonico. Possibile, così come è possibile che proprio una egemonia cinese, considerate le tradizioni storico-diplomatiche del gigante asiatico, faciliti in realtà l’instaurazione di un ordine multipolare. Più temibile una ulteriore lezione che ci viene della storia, e che ci racconta come una potenza egemone non abbia mai abdicato al proprio ruolo senza usare tutte le armi a disposizione per arrestare il declino. Da questo punto di vista, la storia delle transizioni egemoniche nel sistema mondo capitalistico è la storia di disastri militari crescenti, fino a toccare il culmine con la II guerra mondiale. Ma iniziare a non aver paura di un nuovo ordine multipolare, ed anzi prepararci ad accoglierne le potenzialità di sviluppo pacifico e democratico, potrebbe già costituire un buon antidoto al caos destabilizzante che ci circonda.
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