Aveva ragione Jean Pierre Lyotard, quando osservava – quarant’anni fa – la dissoluzione delle “grandi narrazioni”, la crisi dei sistemi di pensiero e dei progetti ad essi ispirati, tipici della modernità. La chiamò postmodernità per segnalare una mancanza, un’assenza; la modernità abbandonava i suoi presupposti e diventava postera di se stessa, un manierismo in attesa di una nuova “narrazione” a cui affidare il futuro. Adesso il tempo della postmodernità è finito, sostituito da una potente moda culturale nel segno della cancellazione e della corsa al nuovo. Lo stesso progresso – motore dell’occidente – è soppiantato da una categoria che Pierre André Taguieff chiama “bougisme”, il culto del movimento fine a se stesso. La contemporaneità ha trovato il suo filo rosso.
La corsa a perdifiato del “nuovismo” ha due nemici, il passato in tutte le sue forme e la natura, con le sue leggi, i suoi limiti, le sue invarianze. Colse nel segno anche Marx – su un piano diverso – teorizzando che il mondo “borghese” avrebbe allevato i suoi becchini. Infatti la cultura terminale postborghese – fattasi progressista dopo il Sessantotto – sega l’albero su cui è seduta. La cosiddetta cultura della cancellazione – un ossimoro tra i tanti di un’epoca schizofrenica – celebrerà a breve il proprio funerale: nessuno sopravvive al vuoto.
Il moto perpetuo è diventato il tratto caratteristico degli anni che ci sono toccati in sorte, unito all’intransigente volontà di farla finita con tutto ciò che fu e che è sempre stato. L’uomo occidentale (o meglio la classe dominante e il ceto culturale di servizio) diventato Dio di se stesso, è preda di una impressionante ansia di dissoluzione. Trascina la vita nell’immediatezza e nel capovolgimento. Il capitalismo globalizzato ha dichiarato guerra ad ogni residuo e simbolo permanente in modo che la forma merce vampirizzi i suoi sudditi. Il dominio assoluto coincide con l’eliminazione delle forme simboliche e dialettiche, un tragico algoritmo impegnato a trasformare l’umanità in schiava inconsapevole dell’unico linguaggio rimasto, la riduzione del vivente a merce.
Apparentemente la cultura della cancellazione è la forma più potente di nichilismo compiuto. Destituisce ogni idea, principio ricevuto, civiltà in quanto espressione dell’egemonia degli sconfitti della postmodernità: i maschi bianchi eterosessuali. Di qui l’impulso irrefrenabile, teleguidato dall’alto, a distruggere simboli, statue, cancellare autori e parole (la “neolingua” politicamente corretta), riscrivere la storia, correggere la letteratura, rimuovere l’arte (grotteschi eco-terroristi imbrattano statue, dipinti, palazzi), revocare in dubbio ogni idea condivisa millenaria, ridicolizzare spiritualità e trascendenza, spezzare ogni identità sino a quella individuale e sessuale. Cancellazione, ossia Grande Reset: la megamacchina avanza come un caterpillar, distrugge e divora tutto ciò che ingombra il suo cammino.
Cambia in maniera irreversibile il rapporto dell’uomo occidentale con la vita e la natura. Il nichilismo si impadronisce dei fondamenti: la vita non è più patrimonio indisponibile. Può essere creata “tecnicamente” con pratiche artificiali, ma cessa di essere un valore in sé, se non nella misura in cui diventa mercato. Un’attrice spagnola prossima ai settanta è diventata madre artificiale del proprio nipote, usando il seme del figlio morto. L’aborto si trasforma in diritto universale, derubricando la vita in formazione a grumo di cellule da rimuovere a richiesta.
Contemporaneamente anche la morte – ridenominata fine vita – diventa un’opzione di mercato, un prodotto da vendere. Questo è, nel mondo in corsa forsennata, l’eutanasia, spacciata per compassione verso la malattia e la sofferenza. Per Michel Houellebecq, la soppressione più o meno volontaria, igienicamente corretta, diventerà la forma tipica del morire nella nostra esausta civilizzazione. Nulla dell’uomo di ieri deve sopravvivere: non le abitudini alimentari del cacciatore onnivoro diventato agricoltore, obbligato a cibarsi di insetti e di prodotti artificiali. Non la pietà filiale e l’amore genitoriale: filiazione tecnicizzata, privata dell’amore e dell’incontro tra i sessi; l’uomo come prodotto di serie di cui presto dovrà essere stabilito il numero di esemplari, in nome della sostenibilità e dell’ambiente, il concetto che ha sostituito la natura.
Scrivevamo tempo fa che l’uomo-Dio odia la natura perché esiste prima di lui e gli sopravvivrà; le sue leggi sono immutabili mentre egli vuole fortissimamente modificarle sino a invertirle. La natura è uno stato originario che precede la volontà, la libertà e il desiderio, totem dell’Homo Deus. La natura è la vittoria del principio di realtà, del limite e del destino. Per l’uomo contemporaneo non c’è espressione più sinistra di “secondo natura”. L’ambiente, il nome di ciò che circonda l’uomo dopo che gli è stato tolto ogni significato trascendente e permanente, è un inganno, un trompe l’oeil simile ai dipinti sulle case che simulano finestre, davanzali e persone dietro finte tendine. La natura è realtà, l’ambiente rappresentazione.
L’uomo della cancellazione è animato da un rancore furioso contro la realtà e la natura: obbligato dalla volontà di potenza a negarla, per farlo ha inventato una mistica capovolta, quella dei “diritti”. L’ambiente possiamo modificarlo a piacimento, con il pretesto di salvarlo. Il richiamo all’esistenza di leggi naturali – riconosciuto già dal diritto romano – è la bestemmia massima. Abbiamo il “diritto” di fare, avere, addirittura “essere“ ciò che ci aggrada.
Esautorate le religioni e le tradizioni spirituali, sul trono vi sono la scienza e la tecnica, simboli di un movimento senza fine, positivo in quanto nuovo. Ogni innovazione è un bene in sé: nessuna domanda di senso, nessuna remora o interrogativo etico. La nuova morale è la corsa. Chi si ferma è perduto, paradossale successo postumo di una frase di Benito Mussolini. Ma perduto in che senso? Il nichilismo distruttore non è fine a se stesso, ha uno scopo, inavvertito dalla gran parte dei suoi adoratori, il trasbordo del genere umano in una condizione esistenziale nuova. La cancellazione dell’eredità ricevuta – preceduta dalla decostruzione e dall’oicofobia, l’odio di sé – conduce inevitabilmente alla perdita di senso, all’irrilevanza di ogni idea, pensiero, scelta. I modesti risarcimenti sono i diritti – tutti relativi alla sfera pulsionale – e l’apparente “comodità” di alcune innovazioni.
In via di esaurimento tutto ciò che poteva essere distrutto, ridicolizzato, espiantato dal cuore dell’uomo, il tratto finale ha due possibilità. Una è quella dell’avventura di Thelma e Louise, che lanciano l’automobile nel burrone dopo aver sperimentato l’avventura e la fugace, deludente “liberazione”. La fine pura e semplice; probabilmente è questo il destino dell’umanità “eccedente” secondo i padroni universali. Ma l’uomo ha orrore del vuoto, per cui la cultura della cancellazione è il tornante decisivo verso la nascita di un soggetto prima transumano (penultimo passaggio), infine postumano. E’ il progetto di cui siamo vittime. L’amore smodato, talvolta ridicolo, per tutto ciò che è nuovo ha un che di innaturale: ogni essere, sistema e organismo vivente aspira innanzitutto all’omeostasi, cioè a conservare le proprie caratteristiche e la propria esistenza.
Una civiltà che sfida la natura in nome di un’arroganza autocreatrice è destinata al fallimento: il dramma è che – per la prima volta nella storia umana – è in grado di trascinare con sé nel baratro l’intera specie. Sconvolgente è che sia questo l’obiettivo. All’umano medio – preventivamente deprivato di cultura, identità e pensiero critico – viene fatto credere che il futuro gli riserverà diritti, comodità e piaceri, ma la realtà è che la vigente “scientologia” vuole oltrepassare l’uomo, prima rendendolo dipendente dagli apparati artificiali, poi fondendolo con essi, infine trasformandolo in un soggetto/oggetto diverso dall’antiquato homo sapiens. Il nichilismo – sbocco finale della postmodernità – prepara il terreno all’accettazione del trans e postumanesimo.
Una prova è la “lettera a madre natura”, il manifesto transumanista scritto da Max More (pseudonimo simbolico, more ovvero “più”) Ne riportiamo alcuni passaggi.
“Madre Natura, veramente, ti siamo riconoscenti per ciò che ci hai fatto diventare. Indubbiamente hai fatto il meglio che potevi. Tuttavia, con tutto il dovuto rispetto, dobbiamo dire che sotto diversi aspetti avresti potuto fare di meglio con il nostro organismo. Ci hai creati vulnerabili alle malattie e alle ferite. Ci obblighi ad invecchiare e a morire – proprio quando cominciamo a divenire saggi. Sei stata un po’ avara nel darci consapevolezza dei nostri processi somatici, cognitivi ed emotivi. Sei stata poco generosa con noi, donando sensi più raffinati ad altri animali. Possiamo funzionare solo in certe specifiche condizioni ambientali. Ci hai dato una memoria limitata e scarso controllo sui nostri istinti tribali e xenofobi. E ti sei dimenticata di darci il nostro libretto d’istruzioni! Quello che hai creato, in noi, è magnifico, eppure profondamente imperfetto. (…) In ogni caso, la nostra infanzia sta per finire. Abbiamo deciso che è ora di emendare la costituzione umana.”
Gli emendamenti sono il riassunto dell’ideologia occidentale dominante:
“non sopporteremo più la tirannia dell’invecchiamento e della morte. Per mezzo di alterazioni genetiche, manipolazioni cellulari, organi sintetici e ogni altro mezzo necessario, ci doteremo di vitalità duratura e rimuoveremo la nostra data di scadenza. Ognuno di noi deciderà quanto a lungo potrà vivere. Espanderemo le nostre capacità cognitive con strumenti computazionali e biotecnologici. Intendiamo superare le abilità percettive di ogni altra creatura e inventare nuovi sensi per espandere la nostra comprensione e il nostro apprezzamento del mondo intorno a noi.“
E ancora:
“non saremo più schiavi dei nostri geni. Ci assumeremo la responsabilità dei nostri programmi genetici e otterremo il totale controllo dei nostri processi biologici e neurologici. Porremo rimedio a tutti i difetti individuali e della specie lasciatici in eredità dalla nostra storia evolutiva. Potremo scegliere sia la forma del nostro corpo che le sue funzioni, raffinando ed aumentando le nostre abilità fisiche ed intellettuali”.
L’ultimo emendamento afferma che
“non limiteremo le nostre capacità fisiche, intellettuali ed emotive rimanendo puri organismi biologici. Nella ricerca del controllo sul nostro organismo, ci integreremo progressivamente con le nostre tecnologie.”
Max More dichiara apertamente l’aspirazione a raggiungere una condizione “ultra-umana”, in continuo movimento, alla “ricerca di nuove forme di eccellenza, sulla base delle nostre capacità tecnologiche”.
Ecco il vero traguardo di una rivoluzione antropologica – la cultura della cancellazione – il cui nichilismo è solo la tappa intermedia, la tabula rasa su cui edificare un impero tecnoscientifico che rovescia la condizione di creatura e inaugura un’era destinata a trasformare l’uomo (l’ “ambiziosa prole” di cui parla Max More) in una specie diversa.
Per riuscirci è indispensabile rovesciare l’intera nostra autopercezione. Uno dei passaggi compiuti è il superamento della democrazia e del liberalismo in un neo-autoritarismo – o dirigismo ideale – che determina rotture epocali, come la dissociazione tra l’opinione e i sentimenti della gente comune e la volontà dei dominanti.
Difficile organizzare la resistenza, se non a partire da gruppi capaci di superare contrapposizioni antiche in nome della consapevolezza di essere non gli ultimi di ieri, ma i primi di domani. Quello che accade sotto i nostri occhi con rapidità crescente è destinato a finire. O per la ribellione della parte sana dell’umanità o perché si compirà il destino della specie. I vincitori di oggi saranno gli sconfitti di domani: ogni civiltà è mortale.
Memento mori, ricordati che morirai, uomo-Dio.
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