Sulla cosiddetta intelligenza artificiale si disquisisce da tempo, di recente con particolare allarme per una sua diffusione capillare che potrebbe trasformare le nostre vite radicalmente. Rifacendomi a studiosi che si sono interrogati su questa “rivoluzione” (in particolar modo penso a Miguel Benasayag e ai suoi studi di frontiera tra biologia ed epistemologia) mi soffermo sull’urgenza per noi di concepire un’ibridazione tra macchine e organismi che non colonizzi i secondi imponendo il principio (falso) che tra artefatti e viventi vi siano solo differenze quantitative. La differenza è qualitativa e ruota attorno, come minimo, a questi punti:
- le macchine (anche le più “evolute”) sono programmate dall’esterno, da altri, e operano secondo criteri di mero funzionamento: non riflettono, non sentono, non pensano. Piuttosto calcolano, in base al programma ricevuto;
- le macchine non hanno “memoria” perché non hanno oblio;
- le macchine, digitali e non, sono materiali ma non animate, sono prive di intenzioni e non vivono la co-produzione incessante tra corpo e mondo;
- le macchine non hanno il sapere fondamentale che contraddistingue la nostra specie: quello della morte, per il quale ogni cultura umana è abitata dal fantasma dell’origine e dalla tensione verso una destinazione insondabile;
- le macchine sono costruite secondo logiche bottom-up, assemblando pezzi e parti estensive; gli organismi, al contrario, sono attraversati da una pura dinamica intensiva, per cui le parti non possono essere concepite mai come a sé stanti, ma solo come elementi attivi nelle interrelazioni sistemiche che li co-istituiscono: ogni parte del vivente, in altre parole, è complessa e mai semplice;
- le macchine sono eccezionalmente potenti sul versante della computazione, ma non frequentano sogni, spirito critico, cura e desiderio.
Con questo si rende necessaria una maggiore attenzione al linguaggio che utilizziamo nel dibattito pubblico.
Non esiste un’intelligenza artificiale, esistono capacità enormi di calcolo rese possibili da artefatti sorprendenti che si limitano ad operazioni enormemente complicate, ma lontane dalla complessità della vita, dai suoi intrecci significativi, dall’aspirazione a un bene comune e individuale che non può ridursi a numeri, procedure astratte e scritture algoritmiche.
Queste mie considerazioni non vanno fraintese: non è un intento umanistico a muoverle, bensì una preoccupazione ecologica in senso pieno.
Il futuro è già qui: è quello che impone una convivenza tra organismi e artefatti. La battaglia deve darsi, allora, nell’articolazione conflittuale tra questi diversi modi di esistenza, rivendicando – come ribadisce da anni lo stesso Benasayag – la differenza che separa il mondo degli oggetti tecnologici e quello dei viventi (in particolare gli umani, ma non solo).
Una differenza che non nega affatto la coevoluzione – del resto l’umano è un essere tecnico che vive del suo agire tecnico, delle sue protesi e degli strumenti esosomatici che gli permettono di plasmare le nicchie ecologiche di appartenenza – ma esige che la vita organica e culturale venga studiata nelle sue peculiarità, senza fraintendimenti, senza mitizzare la potenza di alcune tecnologie che la retorica neoliberista e il transumanesimo dipingono come uno stadio superiore di coscienza.
Rimettere i limiti e gli equilibri ecologici al centro del nostro interesse, accettando la nostra natura di corpi finiti e abitati da Eros, significa riconoscere l’esigenza di immaginare nuove forme di controllo democratico dell’innovazione tecnologica e mettere in crisi la narrazione corrente che vorrebbe affidare i sogni delle persone a una realtà aumentata, liberata dal dolore e dalla mortalità.
Non si offendano i progressisti “illuminati” che parlano di rivoluzione digitale, la tecnica è stupida, autoreferenziale, prodotta per funzionare secondo criteri di sola efficienza. Il senso le è alieno, così come la possibilità di effettuare scelte fuori dalla cornice binaria delle istruzioni ricevute. Le macchine non instaurano dittature, e tanto meno fanno rivoluzioni. Siamo noi, collettività e singoli, a preparare la dittatura e a spegnere ogni slancio rivoluzionario quando mettiamo questi potenti mezzi al servizio dei fini del tecno-capitalismo.
Intelligenza, del resto, vuol dire anche meditare sul tipo di società e di convivenza che auspichiamo, trasgredendo quando necessario le norme mortifere di una razionalità calcolante, strumentale e industriale dissociata e patologica. Vivere una vita significa uscire dalla contabilità del dare per avere, dal tornaconto a ogni costo, fino al dono di sé.
Ma soprattutto, e in ultimo, vivere è un processo che espone al fallimento esistenziale o alla gioia, non banalmente a “errori” di calcolo. Ne va di noi in ogni azione, e non di un generico funzionamento scollegato dal desiderio che nutre ogni fibra del nostro essere.
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