Perché Amerika si scrive con il kappa. Due libri di Salvatore Minolfi
DA LA FIONDA (Di Mimmo Porcaro)
Che la guerra russo-ucraina sia soprattutto l’effetto di un insieme di scelte occidentali, e che queste siano l’esito di tendenze profonde presenti da decenni nelle due sponde dell’Atlantico, è cosa di cui tutti, compresi coloro che devono per mestiere negare l’evidenza, sono consapevoli. Ma non tutti si chiedono da quanto tempo tali scelte maturino e quanto siano profonde e irreversibili le tendenze che esse esprimono: domande cruciali per chi voglia contrastare le une e le altre.
Nel suo recente, agile lavoro dedicato proprio al conflitto in corso, Salvatore Minolfi affronta di petto tali questioni e lo fa (anche sviluppando una sua precedente e più complessa ricostruzione del dibattito strategico statunitense post ’89) col metodo proprio dello storico: ossia attraverso l’attenta lettura dei documenti prodotti dall’amministrazione Usa e dall’affollato mondo di quegli “attori multiposizionati” (accademici, consulenti, think tank) che, variamente connessi sia alla politica che agli affari, codeterminano in maniera significativa le scelte dell’egemone mondiale[1]. E carta canta, verrebbe da dire: la chiarezza con cui in questi documenti vengono espresse le intenzioni delle élite Usa smentisce da sola qualunque teoria del complotto, mostrando come tutte le cose essenziali siano dette e fatte alla luce del sole.
Si vedano ad esempio, trai molti documenti citati dall’Autore, lo studio dell’influentissima Rand Corporation, significativamente intitolato Extending Russia, che riproponendo nel 2019 una versione aggiornata della strategia afghana anti-Urss, invita a costringere Mosca ad azioni militari talmente onerose da portare al collasso della Russia[2]; oppure il documento strategico 2021 della Casa Bianca dove si esplicita l’intenzione di dar vita a un nuovo ordine attraverso “distruzione e costruzione” anche riprendendo apertamente la strategia delle presidenze Bush: ossia la commistione tra merci, capitali e guerra[3]. Questi e molti altri esempi offerti dai due libri vanno a comporre una sorta di florilegio dell’aggressività di Washington: e anche se nelle pagine di Minolfi, efficacemente scritte sine ira et studio, non compaiono mai termini apertamente polemici, il lettore vi trova comunque motivi per capire che chi parla di Amerika ha ragioni per farlo.
Ma il pregio principale dei lavori che qui recensiamo sta nel mostrare la durevole coerenza della scelta dell’allargamento della Nato, a partire dalle decisioni della presidenza Clinton (prese in totale rottura con la prassi decisionale degli apparati Usa, e scavalcando lo stesso Pentagono), proseguendo con le forme e i modi antirussi della riunificazione tedesca, finendo poi con Euromaidan e i fatti connessi. Coerenza manifestata soprattutto da un lucidissimo Brzezinski ma anche da molti altri, in particolare da un Obama assai diverso da quello decantato dalla leggenda dem. E pregio analogo è quello di indicare quanto questa coerenza sia dovuta soprattutto alla costante spinta espansionista[4] del capitalismo a stelle e strisce, e alla connessione inestricabile tra ampliamento dello spazio economico e politica di potenza. Una connessione, quella tra economia e forza, che a detta di due dei numerosi autori citati da Minolfi, più che con le idee correnti nel dibattito Usa, sembra rimandare alla situazione descritta da Lenin[5]: e infatti, aggiungiamo noi, essa non fa che confermare un elemento essenziale della teoria dell’imperialismo.
Quanto al dibattito interno alle élite decisionali statunitensi Minolfi fornisce, soprattutto nel testo più risalente, una dettagliata ricostruzione in cui si evidenzia, tra l’altro, la sostanziale inadeguatezza dei due paradigmi dominanti oltreatlantico nello spiegare le dinamiche del sistema mondiale e nel delineare le prospettive della strategia di Washington. Semplificando davvero molto, definiremo realista il primo paradigma e liberale il secondo[6]. Per il realismo (ma soprattutto per la sua variante neorealista) gli attori fondamentali del sistema mondiale sono gli stati, pensati come entità sovrane e autonome, che quindi danno luogo a un sistema di relazioni anarchiche che deve e può essere ordinato da una realistica politica di equilibrio di potenza (o, in alcune varianti, dalla presenza di un egemone). Ogni stato, secondo questa scuola, si muove soprattutto per garantire la propria sicurezza, finalizzando a questa l’accrescimento della propria potenza, mentre la trasformazione della potenza da mezzo a fine sarebbe piuttosto una minaccia per la sicurezza stessa dello stato. Il liberalismo mette invece al centro dell’analisi le interazioni economiche mondiali, ritenute portatrici di cooperazione più che di anarchia, cooperazione che può dare i suoi migliori frutti se gestita da organismi sovranazionali in un contesto di declino del ruolo dei singoli stati, e cioè dei soggetti maggiormente interessati al conflitto e alla guerra. Certamente la corrente realista, che ha contribuito in prima persona alla gestione della Guerra fredda, fa spesso onore al proprio nome: assai significativa la protesta, evidenziata da Minolfi, degli studiosi e politici realisti detti appunto cold warriors contro la summenzionata svolta clintoniana, nonché la loro lucidissima e preveggente analisi delle sue nefaste conseguenze[7]. Ma lo “statocentrismo” di questa corrente ne mina fin dall’origine proprio il realismo, impedendole di vedere la necessità della ricerca di potenza da parte del capitalismo Usa, anche eventualmente a scapito della sicurezza. D’altra parte, se il realismo rimuove la centralità dell’economico, il liberalismo invece la assume come fondamento dell’analisi, ma solo dopo averne rimosso e nascosto la natura conflittuale e antagonistica: da cui l’incomprensione del potenziale ruolo bellogeno dell’interdipendenza (se io dipendo dalle tue risorse, posso essere tentato di prenderle con la forza) e una lettura irenica della globalizzazione, evidente ideologia di copertura delle attività egemoniche, purtroppo condivisa anche da buona parte degli oppositori.
Nessuna delle due scuole di pensiero ha guidato veramente l’azione di Washington dall’ Ottantanove ad oggi. A farlo (e qui parla il recensore, ma credo che l’Autore possa consentire) è stata semmai un’ ibridazione variabile e pragmatica (ben interpretata dai neocons, ma non solo da essi) che ha al suo centro la stretta connessione tra espansione economica e espansione militare, l’uso dell’economia anche come fattore di sicurezza e l’uso della forza anche come garante dell’apertura dei mercati. Se c’è, in questo quadro, una teorizzazione più marcata, è quella che riguarda la funzione dell’economia non tanto come sostituto della guerra ma, secondo le parole di Daniel Bell, come “continuazione della guerra con altri mezzi”[8]. Negli anni ’90, sconfitto il nemico principale, divenuta evidente la pericolosa forza economica della Germania e del Giappone ed egualmente evidente l’impossibilità di risolvere i conflitti interimperialistici col ricorso ad una major war a rischio di olocausto nucleare, Washington comincia a concepire e praticare scelte economiche che non si inquadrano tanto in una no zero-sum game (ossia in uno scambio da cui, chi più chi meno, ciascuno guadagna qualcosa) quanto in un gioco a somma zero analogo al “gioco” bellico[9], usando così la grammatica dell’economia ma la sintassi della guerra[10]. Ma su ciò torneremo alla fine.
Qui importa aggiungere che parlare del contrasto tra Washington e Berlino ci fa tornare a quella che secondo Minolfi è una delle concause della guerra russo-ucraina, e cioè proprio l’intramontabile esigenza nordamericana di separare Germania e Russia in una logica di “doppio contenimento”, per evitare la temutissima formazione di un blocco eurasiatico e, con essa, di un vero e proprio peer competitor. L’idea dell’allargamento a est della Nato nasce appunto nel contesto della già menzionata riunificazione tedesca, un evento che viene gestito in maniera sempre più esclusiva da Washington rendendo sempre più vacua l’idea gorbacioviana della conclusione della Guerra fredda come “impresa comune”, e presentandosi piuttosto esplicitamente come sconfitta della Russia: giacché, ad esempio per un Brzezinski, l’avversario geopolitico è proprio la Russia e non semplicemente l’Urss. L’unificazione tedesca, insomma, non come sinonimo di vera distensione, ma come costruzione di un nuovo limes, che implica inevitabilmente, a parere dell’Autore, una tendenza a superare il limes stesso che si aggiunge all’innato espansionismo di cui si è detto.
Va incidentalmente notato quanto sia indicativa, su questo punto, l’attiva partecipazione, sottolineata da Minolfi, di membri delle élite della stessa Germania alla distruzione della strategia del Wandel durch Annäherung (ossia della trasformazione della Russia attraverso il riavvicinamento)[11], nonché quello che appare di fatto come un silenzio tedesco di fronte al ruolo, per così dire, di scout della Nato svolto dall’Unione europea (ma in particolare dalla Polonia) nei confronti dell’Ucraina[12].
Sarebbe davvero lungo continuare ad elencare i punti interessanti dei libri di cui stiamo parlando. Concludiamo quindi con due delle suggestioni – una teorica e l’altra politica – che la loro lettura ci consegna.
In punto di teoria, Minolfi ascrive i diversi atteggiamenti di Washington, Mosca e Berlino di fronte alla guerra in corso anche al diverso rapporto che, nei singoli casi, viene a stabilirsi tra stato e capitale: un rapporto inestricabile e essenziale all’esistenza dell’uno e dell’altro, ma non per questo destinato ad essere sempre identico. E infatti se lo stato nordamericano è strettamente subordinato alla dinamica espansiva del grande capitalismo (anche quando la ragione strategica viene sovraordinata alle pulsioni economiche immediate), l’inevitabile risposta russa alla prospettiva dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato, risposta che interrompe un fruttuoso inserimento del capitalismo russo nel mercato mondiale, indica di fatto la subordinazione di quel capitalismo alle esigenze di sicurezza del Cremlino[13]. Insomma: sia a Washington che a Mosca stato e capitale sono allineati, anche se in relazione inversa. Del tutto differente è invece il caso della Germania: qui si assiste a una radicata strategia capitalista tesa al rapporto pacifico con l’Est che, proprio per la sua eccentricità rispetto alla politica occidentale, avrebbe dovuto essere accompagnata da una coerente strategia statuale capace, quanto meno, di mediare in maniera non subalterna gli inevitabili contrasti con gli attuali alleati. Cosa che non si è affatto realizzata in passato e di cui non si vede traccia nel presente[14]. Il diverso rapporto tra capitale e stato sembra insomma essere importante nel definire le differenze di potenza dei singoli paesi – spiegando ad esempio l’attuale debolezza della Germania – e nel disegnarne il possibile futuro, posto che, ad esempio, la subordinazione dello stato nordamericano alle esigenze del capitalismo Usa dà a quest’ultimo una forza rilevantissima, ma nel contempo rischia, con l’inevitabile sovraestensione del raggio di azione Washington, di minare in maniera irrimediabile la forza di quello stesso stato.
E ciò ci conduce alla suggestione politica. Tutti si chiedono che cosa realmente farà Trump sulla scena internazionale. Nessuno (forse nemmeno lo stesso Trump) può dare al momento una risposta precisa. Ma se la sovraestensione di cui sopra è tratto irrinunciabile della politica Usa, Trump può forse rappresentare un necessario momento di “stasi” e di ricostituzione del fronte interno (necessario ancor più dopo le non felicissime esperienze afghana e ucraina), prima che riprenda (magari con lo stesso Trump?) una lotta globale resa inevitabile proprio da un’altra sovraestensione: quella del complessivo deficit Usa, che giustamente Minolfi vede come causa centrale (pur se niente affatto unica) della guerra russo-ucraina[15]. Peraltro, se la Casa Bianca continua (come è logico e come è già stato promesso) a considerare l’economia come prosecuzione della guerra con altri mezzi, anche l’eventuale (ma tutt’altro che certo) passaggio della nuova amministrazione dalla guerra guerreggiata in Ucraina e Medio Oriente alla “semplice” competizione economica con la Cina, non condurrà affatto all’attenuazione dei conflitti, ma alla loro accentuazione. Sarà insomma un esempio di quella che di nuovo Lenin chiamava “pace imperialistica”: un periodo relativamente non cruento in cui si sviluppano i contrasti che sbocceranno in una nuova guerra e si forgiano le armi per combatterla[16]. Nel centenario della morte di quel grande rivoluzionario sarebbe opportuno riflettere non soltanto sulla guerra imperialista, ma anche su una pace che – nelle presenti condizioni – può essere solo figlia e madre di “inutili stragi”.
[1] I due libri a cui ci riferiamo sono, in ordine cronologico, Tra due crolli. Gli Stati Uniti e l’ordine mondiale dopo la guerra fredda, Liguori, Napoli, 2005 (d’ora in poi M1) e Le origini della guerra russo-ucraina. La crisi della globalizzazione e il ritorno della competizione strategica, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, Napoli, 2023 (d’ora in poi M2).
[2] M2, pp. 190-194.
[3] Ibidem, cap. XXIV.
[4] M1, pp. 244, 261 e passim.
[5] Ibidem, p. 259
[6] Una descrizione manualistica ma efficace di queste (ed altre) tendenze e delle loro svariate denominazioni si può trovare in G. John Ikenberry, Vittorio Emanuele Parsi (a cura di), Teorie e metodi delle Relazioni Internazionali. La disciplina e la sua evoluzione, Laterza, Roma-Bari, 2001.
[7] M2, pp. 50 e ss. .
[8] M1, p. 141.
[9] M1, pp. 137-168
[10] Sul punto si veda anche Carlo Jean, Geopolitica, Laterza, Roma-Bari, 1995, cap. 7.
[11] M2, pp. 33-37.
[12] Ibidem, pp. 103-112.
[13] Ibidem, cap. XVIII.
[14] Ibidem, cap. XIX.
[15] Ibidem, pp. 22-.23.
[16] “La guerra è la continuazione, con mezzi violenti, della politica che le classi dominanti delle potenze belligeranti applicavano già molto prima dell’inizio delle ostilità. La pace è la continuazione della medesima politica, tenuto conto dei cambiamenti avvenuti, in seguito alle operazioni militari, dei rapporti delle forze avverse.”, V.I. Lenin, A proposito del <<Programma di pace>>,in Opere Complete, Editori Riuniti, Roma, 1962, vol.22, pp. 167-8; “[…] comunque sia la guerra imperialistica non potrà concludersi in altro modo che con una pace imperialistica, a meno che la guerra in corso non si trasformi nella guerra civile del proletariato contro la borghesia”, Idem, Sulla pace separata, ibidem, vol.23 p. 129.
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