Se condividiamo quel che pensa John Oliver dell’Italia, non abbiamo capito nulla dei nostri guai
di LINKIESTA (Francesco Cancellato)
Il monologo del comico britannico, diventato virale nel nostro Paese, inanella una serie di luoghi comuni che non sfiorano nemmeno l’ultimo dei problemi italiani. Fa ridere, ma restituisce una narrazione tossica della politica italiana. E che molti italiani vi si riconoscano è un ulteriore problema.
John Oliver è un comico inglese che conduce uno show che va in onda in America e che fa molto ridere. Nell’ultima puntata ha inscenato un monologo di ventuno minuti sulle elezioni italiane, giocando a fare il marziano a Roma con i paradossi e le idiosincrasie del nostro sistema politico: l’instabilità delle nostre istituzioni, il debito pubblico, Renzi e Salvini che partecipano a giochi a premi, l’ascesa di un Movimento guidato da un comico, Berlusconi, Berlusconi, Berlusconi. Il pubblico in sala, americano, si è sbellicato. Quello italiano – perlomeno un “certo” pubblico italiano, che lo ha compulsivamente condiviso online – pure.
Fantastico. Il problema è che quel monologo comico di venti minuti, negli Stati Uniti, è stato percepito come tale. Da noi, invece, è stato incasellato in un genere letterario che torna di moda, carsico, ogni quattro anni: quello delle analisi brutali provenienti dall’estero che mostrano l’Italia in tutto il suo sconfortante declino politico, economico, intellettuale. Che ci può stare, intendiamoci. Che Renzi non sia De Gasperi, Grasso non sia Togliatti e nemmeno Salvini e Meloni c’entrino qualcosa con Almirante ci può stare, eccome.
Tuttavia, l’analisi di John Oliver è interessante per un altro motivo. Perché inanella una serie di stereotipi, luoghi comuni, falsi storici e presunte peculiarità italiane che non sfiorano nemmeno di striscio nemmeno l’ultimo dei nostri problemi. E perché gli italiani – alcuni italiani – sembrano avallare la veridicità di quello storytelling, dimostrando di aver capito poco dei guai del proprio Paese. In particolare, di quelli che non fanno ridere.
Ad esempio: comincia John Oliver, parlando dell’instabilità politica italiana: «65 governi in 70 anni», si stupisce, citando uno dei più noti refrain di Matteo Renzi durante la campagna referendaria dello scorso anno. La cosa curiosa che dovremmo ricordare, in realtà, è che per tutta la prima repubblica, dal 1948 al 1992 – caso più unico che raro in Europa – abbiamo avuto al governo il medesimo partito, la Democrazia Cristiana, ininterrottamente, con il Partito Comunista Italiano – altra anomalia – stabilmente attorno al 30% e all’opposizione. Altro che instabilità: semmai la crisi della Prima Repubblica e Tangentopoli sono figli dell’eccessiva stabilità, dell’assenza di alternative.
Il problema è che quel monologo comico di venti minuti, negli Stati Uniti, è stato percepito come tale. Da noi, invece, è stato incasellato in un genere letterario che torna di moda, carsico, ogni quattro anni: quello delle analisi brutali provenienti dall’estero che mostrano l’Italia in tutto il suo sconfortante declino politico, economico, intellettuale
John Oliver può non saperlo, noi dovremmo. Così come dovremmo sapere che i successivi vent’anni, quelli della Seconda Repubblica, ci hanno al contrario regalato un’alternanza di governo pressoché perfetta, quasi anglosassone, che ci ha portati dritti dritti alla crisi dei debiti sovrani. Poi è venuto fuori il “comedian” Beppe Grillo, come lo chiama Oliver. Vero solo in parte: in realtà è venuto fuori un malessere sociale che Grillo è riuscito a intercettare con una proposta politica post-ideologica che ha surrogato i movimenti a sinistra alla Podemos e quelli di destra alla Alternative fur Deutschland. Che da noi non sono pervenuti, o comunque sono arrivati in clamoroso ritardo.
Forse è per questo – Grillo l’ha ripetuto spesso, non a caso – che in Italia non esiste un Front National al 30% come in Francia, un Fpoe che per un soffio non elegge il presidente della repubblica come in Austria, un’Alternative fur Deutschland che i sondaggi indicano in procinto di superare la Spd come in Germania, o bipolarismi tra destra e ultradestra come in Polonia e in Ungheria. Eppure, per Oliver, il problema col fascismo – parola che all’estero indica le destre autoritarie in generale, ricordiamocelo – ce l’abbiamo solo noi. Anche in questo caso, lui ha tutto il diritto di sbagliarla, per strappare una risata. Noi meno.
La speranza è che un comico, o un giornale estero, raccontino prima o poi di un Paese che non parla di mafia durante la campagna elettorale, nonostante le mafie sul suo territorio siano più forti che mai. Che non parla di ambiente, nonostante la Pianura Padana, una delle aree più inquinate e malsane dell’intero continente. Che non parla di formazione e istruzione, nonostante in un’era di rivoluzioni tecnologiche, sia la cosa più importante per garantirci un futuro
Gli strafalcioni proseguono: Oliver dice che abbiamo il secondo rapporto debito/Pil d’Europa dopo la Grecia, suggerendo che faremo la stessa fine, omettendo di dire che quella greca è l’ultima economia del continente, mentre la nostra è la terza. Dice che siamo razzisti perché non accogliamo migranti, – citando Di Maio che se la prende con le Ong – omettendo di dire che i muri a Ventimiglia e Calais li hanno messi Francia e Regno Unito, gli stessi che hanno avuto la bellissima idea di scatenare l’inferno in Libia mentre noi salvavamo vite a Lampedusa e ci facevamo carico di tutti i costi sociali dei salvataggi. Dice che Renzi ha lasciato un Paese allo sbando dimettendosi dopo il voto referendario, dimenticando che, nel Paese in cui è nato, David Cameron ha fatto la stessa cosa dopo aver perso il referendum sulla Brexit. Siamo a undici minuti di monologo, a questo punto. I restanti dieci sono tutti per Berlusconi, per il Bunga Bunga, le bandana bianca, il lettone di Putin, meno male che Silvio c’è. Di fatto una puntata di Rai Teche del 2011, che illustra scientificamente tutto l’armamentario dialettico di chi, col suo antiberlusconismo viscerale e pre-politico, ha aiutato a Berlusconi di restare in sella per vent’anni abbondanti.
Lo ripetiamo: fosse solo un pezzo comico, ci limiteremmo alle risate che ci siamo fatti. Quando diventa una narrazione che gli italiani stessi riconoscono come veritiera e credibile, quando pensiamo che i nostri guai siano un cumulo di stereotipi contro-fattuali ci facciamo qualche domanda sulla percezione che abbiamo di noi stessi. La speranza è che un comico, o un giornale estero, raccontino prima o poi di un Paese che non parla di mafia durante la campagna elettorale, nonostante le mafie sul suo territorio siano più forti che mai. Che non parla di ambiente, nonostante la Pianura Padana, una delle aree più inquinate e malsane dell’intero continente. Che non parla di formazione e istruzione, nonostante in un’era di rivoluzioni tecnologiche, sia la cosa più importante per garantirci un futuro. Riuscisse pure a farci pensare, oltre che a farci ridere, sarebbe fantastico.
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