- Amazon e Jeff Bezos, nella foto, hanno fatto del rischio una scienza. Getty images
* Tortuga è un think-tank di studenti di economia nato nel 2015. Attualmente conta 30 membri, sparsi tra Milano, Amsterdam, Barcellona, Berlino, Francoforte e gli Stati Uniti
Se vi chiedessero di individuare tra le prime 10 compagnie per capitalizzazione di mercato la meno redditizia, vi trovereste davanti a un compito piuttosto facile: la risposta è Amazon senza nessun dubbio. La domanda è tanto facile per un motivo, ovvero il fatto che i profitti di Amazon sono molto vicino allo zero da 20 anni. Ovviamente è scorretto dire che Amazon non abbia ancora prodotto utili, ma questi rimangono risicati ed insignificanti, soprattutto se confrontati con la traiettoria ben diversa del fatturato.
Il colosso di Bezos, l’uomo più ricco del mondo, vale 730 miliardi di dollari di capitalizzazione, nonostante abbia deliberatamente scelto di non fare profitti. Questo fatto è il punto di partenza per capire con che strano animale abbiamo a che fare. L’unico obiettivo per la compagnia infatti sembra sia sempre stata e sia tutt’ora la crescita, in termini di quote di mercato, di mercati dove è attivo, di dipendenti e ovviamente di fatturato.
Ad oggi Amazon ha una quota di mercato equivalente al totale dei suoi primi 12 concorrenti. I dipendenti erano 30.000 nel 2010, 100.000 nel 2013 e sono 350.000 all’inizio del 2017, mentre il fatturato è passato da 70 mld nel 2013 a 180 mld attuali. Per completare il quadro bisogna solo ricordare che se nel 1994 Amazon nasce come venditore di libri su internet, oggi oltre a essere una piattaforma per gli acquisti online, è un importante fornitore di servizi di cloud computing, di logistica, di servizi finanziari per le aziende, ed è all’avanguardia nel campo dell’intelligenza artificiale. Inoltre è diretto produttore di elettronica, vestiario, videogiochi, film (Manchester by the Sea, qualcuno ne ha sentito parlare?).
Un modo interessante per seguire l’evoluzione di Amazon nel tempo è seguire la lista di acquisizioni fatte.
Secondo Techcrunch sono più di 80. Molte sono startup acquisite per “mettere piede” in un mercato tra quelli appena elencati, altre sono semplicemente potenziali concorrenti di cui Amazon ha preferito sbarazzarsi.
Nella seconda categoria rientra il caso di Quidsi. Nel 2008 Quidsi era una delle più promettenti compagnie di online retailing. Nel 2009 Amazon espresse l’interesse di acquistare Quidsi, ricevendo tuttavia un rifiuto da parte dei fondatori. Per tutta risposta Amazon iniziò ad abbassare sistematicamente tutti i prezzi dei prodotti per l’infanzia sulla propria piattaforma, anche grazie ai propri bot che monitorano costantemente i prezzi della concorrenza. Nel 2010 Amazon diede il via al programma Amazon’s mom che offriva un anno gratis di spedizioni entro 2 giorni per tutta una serie di prodotti. I vertici di Quidsi calcolarono che con dei prezzi così bassi Amazon era in procinto di perdere 100 milioni, in 3 mesi solo a causa di questa manovra. Così dopo che le vendite scesero, la crescita di Quidsi venne rallentata sensibilmente e gli investitori iniziarono a evitare di riversare ulteriori somme nella compagnia, i vertici decisero infine nel 2010 di vendere al colosso dell’e-commerce.
Questa disponibilità a sostenere perdite prolungate sarebbe dovuto servire da monito a chiunque avesse declinato un’offerta in futuro.
Nella prima categoria di acquisizioni rientra invece l’accordo con WholeFoods dell’estate scorsa. Quest’ultimo episodio ha attirato l’attenzione non tanto per la dimensione dell’accordo (13 miliardi) quanto per l’ingresso di Amazon nel mercato degli alimentari con negozi fisici. La nuova enfasi sull’espansionismo ha fatto domandare agli osservatori se le mire di Amazon non stiano diventando eccessivamente trasversali e in grado di modificare il mercato del retail in modo strutturale (ad oggi il 5% della spesa retail in america passa da Amazon).
Il dominio strutturale del mercato secondo altri è ormai una realtà, visto che Amazon si è imposta come infrastruttura del mercato, rendendosi necessaria per gli stessi concorrenti.
Mentre Amazon espandeva la sua presenza nell’e-commerce, di pari passo aumentava il suo potere contrattuale verso le imprese di consegna: nel 2015 UPS ha consegnato merce del valore di 1 miliardo solo per conto di Amazon. Secondo alcune stime questo ha permesso al colosso di beneficiare di sconti del 70% sui normali prezzi delle consegne. Questo conseguentemente ha spinto le imprese di consegna ad alzare i prezzi per i piccoli venditori indipendenti. Amazon ha sfruttato questa situazione per entrare nel settore della logistica e offrire i servizi di spedizione (tramite FBA, fullfillment-by-Amazon) ai venditori indipendenti che usano la piattaforma per distribuire i propri prodotti. In questo modo i venditori non dipendono più da Amazon solo per la distribuzione ma anche per le consegne, grazie all’effetto sui prezzi dovuto dalla posizione dominante. Da qui parte la creazione dell’impero logistico.
La logistica spesso però non è nemmeno il primo problema dei venditori indipendenti che pubblicano annunci di prodotti sulla piattaforma marketplace di Amazon. Se un prodotto offerto ha particolare successo, è del tutto normale che a un certo punto il venditore terzo si veda comparire dei prodotti identici ai propri, offerti direttamente da Amazon e a cui viene data maggiore visibilità.
I venditori si trovano così davanti a scegliere se evitare l’osservatorio di Amazon e perdere molta visibilità e clienti o mostrare i propri prodotti ai clienti e ad Amazon con il rischio di essere copiati.
Questi sono solo due esempi di come il colosso di Seattle sia al contempo concorrente e infrastruttura per molti venditori online.
La crescita aggressiva unita al grado di importanza strutturale nel mercato a prima vista sembra auspicare un imminente intervento dell’antitrust. Secondo alcuni osservatori solo in questo caso la crescita inarrestabile potrà avere fine, scongiurando la nascita di un monopolio infrastrutturale. Ad oggi però sembra proprio che, al contrario, l’autorità antitrust non abbia nessuna intenzione, o peggio capacità, di promuovere una causa contro Amazon, per vari motivi.
Il predatory pricing è la pratica anticompetitiva perseguita dall’antitrust che più sembra simile alla condotta di Amazon. Questa consiste nel fissare prezzi artificialmente bassi, sotto i costi, al fine di espellere dal mercato la concorrenza, per poi alzarli fino al prezzo di monopolio una volta che si è soli. Dimostrare che è in atto questa strategia non è semplice; serve infatti dimostrare che:
- 1) i prezzi sono inferiori ai costi marginali
- 2) un recoupment test positivo (ovvero prove che l’azienda sia stata in grado di riguadagnare le perdite)
- 3) alte barriere all’entrata per il mercato.
Quest’ultimo punto è rilevante perché in teoria è inutile sostenere perdite per mandare fuori mercato i concorrenti se nuove aziende posso sostituire le vecchie non appena i prezzi si rialzano. A complicare il tutto, queste analisi vanno fatte nell’ambito di un mercato di riferimento.
Questo metodo di analisi è in linea con la dottrina dell’antitrust vigente, la quale dagli anni ‘80 basandosi essenzialmente sulla corrente economica della scuola di Chicago, mette al centro di tutta l’analisi il benessere del consumatore. Una pratica non è realmente anti-competitiva se il consumatore alla fine sta meglio in termini di prezzi, qualità e innovazione del prodotto, poco importa la struttura del mercato.
Il problema è che con l’azienda di Bezos si riesce a malapena a provare il fatto che i prezzi siano effettivamente sotto i costi, vista la continua variazione nel tempo e l’enorme variabilità tra mercati dei prezzi fissati. Un altro grosso problema è che l’antitrust non considera il settore dell’e-commerce un settore con barriere all’entrata: ovvero che per creare una piattaforma che venda su internet non servano grandi investimenti in costi fissi e che quindi sia facile entrare nel mercato e fare concorrenza. Questo succede perché nella dottrina mainstream si fa ancora fatica a considerare i dati e le economie di network come barriere all’entrata quali sono. Amazon usa persino i dati generati dai suoi servizi cloud per individuare quali start-up hanno un’alta attività e usare questi dati per le scelte di investimento; inoltre, pensare che i dati accumulati sulle nostre preferenze per i prodotti non costituiscano un vantaggio difficilmente sormontabile, è miope.
Sul recoupment test infine, la particolarità della bestia sotto analisi emerge in tutta chiarezza. Amazon non fa profitti, e non ha intenzione di farne ancora per molto tempo. Il 92% del valore delle azioni di Amazon è basato su profitti che ci si aspettano dopo il 2020. Questa strategia di tenere bassi i prezzi e rinviare i profitti all’infinito pur di fagocitare tutto rende il recoupment test impossibile da soddisfare, se non quando i problemi saranno diventati molto molto più grossi.
Da qualche tempo per Amazon sembra esser terminato il rapporto idilliaco con l’opinione pubblica. Spesso però per motivi fuorvianti come la paura per l’eliminazione dei cassieri nei supermercati o l’indignazione per ipotetici braccialetti elettronici per il controllo dei lavoratori.
Però alla promessa che avere tutto, subito a basso costo sia possibile senza conseguenze noi continuiamo a credere.
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