Il cambiamento climatico impedirà ai più poveri di migrare in altri paesi
da SCIENZA IN RETE (Chiara Sabelli)
La migrazione, sia nazionale che internazionale, rappresenta uno strumento di adattamento al cambiamento climatico. Ma, secondo uno studio pubblicato su Nature Climate Change, questo strumento potrebbe presto diventare inaccessibile per le parti più povere della popolazione proprio a causa del cambiamento climatico, almeno per quello che riguarda la migrazione internazionale.
Oggi l’1% della superficie della Terra è al limite dell’abitabilità a causa delle temperature elevate. Entro il 2070, questa percentuale potrebbe salire al 19%. Sono miliardi le persone che oggi abitano questi territori. Dove andranno?
Così cominciava un articolo pubblicato alla fine di luglio del 2020 dal New York Times Magazine dal titolo “The Great Climate Migration”. La storia partiva dal Guatemala, dove l’aumento dei periodi di siccità alternati a violente alluvioni stanno compromettendo la produttività di molte piantagioni, riducendo nella povertà assoluta coloro che di agricoltura hanno finora vissuto e sopravvissuto. Secondo un rapporto della World Bank del 2018, questa dinamica riguarderà altre regioni oltre all’America Centrale, in particolare Sudamerica, Asia meridionale e Africa subsahariana, dove entro la metà del secolo potrebbero essere decine di milioni le persone costrette a spostarsi verso le coste e nelle città a causa del cambiamento climatico, i cosiddetti migranti climatici interni.
L’articolo del New York Times rendeva conto, inoltre, di un modello realizzato in collaborazione con la testata ProPublica, il Pulitzer Center e con la collaborazione di uno dei ricercatori della World Bank, per quantificare l’impatto del cambiamento climatico sulla migrazione internazionale. Il modello stima che il cambiamento climatico spingerebbe tra 700 mila e 1 milione di persone dall’America Centrale agli Stati Uniti da qui al 2050, il 5% del totale dei migranti che viaggerebbero su quella rotta.
Secondo alcuni ricercatori queste stime non sono sufficientemente robuste e probabilmente sopravvalutano il fenomeno. In una specie di circolo vizioso, le politiche internazionali presentano la migrazione climatica come un rischio per la sicurezza e un fattore capace di aggravare guerre e conflitti e influenzano così la ricerca scientifica su questo tema che tende a rinforzare il nesso tra cambiamento climatico, migrazione e minaccia alla sicurezza. Questo circolo vizioso ha giustificato le politiche securitarie di alcuni stati che hanno investito nel controllo dei confini e non hanno introdotto politiche di accoglienza e integrazione adeguate.
«La migrazione, sia quella internazionale che quella interna da zone rurali verso le città, è uno strumento di adattamento al cambiamento climatico», dice Cristina Cattaneo, ricercatrice al Centro Euromediterraneo per i Cambiamenti Climatici ed esperta di migrazioni, «ma non dobbiamo dimenticare che la migrazione internazionale è molto costosa, solo i più ricchi possono permettersi di intraprendere viaggi verso paesi lontani magari con redditi molto più elevati».
In effetti uno studio coordinato da Hélène Benveniste della Harvard University e pubblicato la scorsa settimana sulla rivista Nature Climate Change, ha concluso che questo strumento potrebbe presto diventare inaccessibile per le parti più povere della popolazione proprio a causa del cambiamento climatico, almeno per quello che riguarda la migrazione internazionale. In alcune regioni del mondo la migrazione internazionale delle fasce più povere della popolazione potrebbe ridursi dal 10% al 33% entro la fine del secolo.
Questo calo produrrà anche un danno indiretto perché ridurrà il volume delle rimesse che, a partire dalla metà del secolo, in molte regioni non riusciranno più a compensare i danni economici causati dal cambiamento climatico sui più poveri.
Per ottenere questi risultati, ricercatori hanno costruito un modello che mette in relazione i flussi migratori con il reddito. Il primo passo è stato quello di dividere la popolazione in quintili, cinque gruppi con fasce di reddito crescente ciascuno contenente lo stesso numero di persone. Ciascuno di questi gruppi segue una dinamica migratoria diversa, perché il fattore che ne determina lo spostamento è legato al rapporto tra il reddito medio pro capite del gruppo e il reddito medio pro capite del paese di destinazione. Esistono dei fattori che influenzano nello stesso modo la dinamica migratoria di tutti i gruppi. Per esempio, se la lingua parlata nel paese di destinazione è la stessa di quello di origine la migrazione è favorita, così come se la distanza geografica tra paese di origine e di arrivo è ridotta. Questo modello è stato messo a punto sulla base dei dati sui flussi migratori tra il 2010 e il 2015, dividendo il mondo in 16 regioni (Australia e Nuova Zelanda, Canada, Europa centrale e orientale, America centrale, Cina, ex Unione Sovietica, Giappone e Corea del Sud, Medio Oriente, Nord Africa, Piccole isole, America meridionale, Asia meridionale, Sudest asiatico, Africa subsahariana, Stati Uniti, Europa occidentale).
Per mettere in relazione le migrazioni con il cambiamento climatico, gli autori hanno sfruttato un Impact Assesment Model (IAM) cioè un modello combinato di clima ed economia globale che gli ha permesso di stimare l’impatto di diversi scenari climatici sul reddito delle sedici regioni. C’è un generale accordo sul fatto che i danni del cambiamento climatico saranno regressivi con il reddito, cioè più gravi per i più poveri, ma quanto regressivi è ancora da capire. Per questa ragione gli autori hanno considerato due casi, in cui i danni sono fortemente regressivi e lievemente regressivi.
Considerando il caso in cui i cambiamenti climatici provocano danni fortemente regressivi con il reddito, i ricercatori tracciano due possibili scenari. Nel primo scelgono una traiettoria in termini di emissioni e un percorso di sviluppo socioeconomico medi: in sei regioni su 16 le popolazioni più povere (quelle cha appartengono al quintile di reddito più basso) perdono almeno 5% del proprio reddito (Europa centrale e orientale, ex Unione Sovietica, Nordafrica, Sudamerica, Africa subsahariana, Stati Uniti). Nel secondo scenario, gli autori considerano un contesto socioeconomico di rivalità tra nazioni e una traiettoria climatica a più alte emissioni: le fasce più povere della popolazioni perdono almeno il 5% del loro reddito in ben 11 regioni su 16 e in due tra queste, Nordafrica ed ex Unione Sovietica, la perdita è del 100%.
Considerando invece il caso in cui i danni causati dal cambiamento climatico sono meno regressivi con il reddito (cioè aumentano meno, in termini percentuali, al diminuire del reddito), i più poveri perdono almeno il 5% del reddito in due regioni su 16 nello scenario socioeconomico e climatico medio. Nello scenario più pessimistico invece sono sempre 11 le regioni in cui i più poveri sono interessati da una perdita di reddito pari almeno al 5%. In Nordafrica questa perdita raggiunge il 48%.
E più ricchi? Qualunque sia la dipendenza dei danni dal reddito e qualunque siano gli scenari economici e di sviluppo socioeconomico, perdono meno del 5% del loro reddito a causa del cambiamento climatico.
Combinando i due modelli, gli autori hanno poi stimato il bilancio tra danni causati dal cambiamento climatico e rimesse provenienti dall’estero. Hanno osservato che, qualunque sia la dipendenza dei danni dal reddito e in tutti gli scenari climatici e di sviluppo, le rimesse compensano per i danni subiti dai più poveri in tutte le regioni fino al 2050. Da quel momento in poi però, in dieci regioni su 16 le rimesse non compensano più i danni subiti dai gruppi più poveri.
Questo effetto è dovuto sia alla riduzione del reddito che alla riduzione dei flussi migratori. Per capire quanto il cambiamento climatico ridurrà i flussi migratori per i gruppi più poveri delle diverse regioni, i ricercatori hanno confrontato i flussi di un mondo con il cambiamento climatico con quelli di un mondo immaginario senza cambiamento climatico. Considerando scenari socioeconomici e climatici medi, i ricercatori osservano a partire dalla metà del secolo osservano un rallentamento della migrazione dei più poveri in tre regioni con una riduzione che alla fine del secolo raggiunge il 2% nell’Africa subsahariana e il 10% nel Nordafrica e nell’ex Unione Sovietica. Se si guarda a scenari socioeconomici e climatici più pessimistici, la riduzione della migrazione dei più poveri si continua a osservare nelle stesse tre regioni, ma raggiunge il 9%, 28% e 14% rispettivamente in Africa subsahariana, Nordafrica ed ex Unione Sovietica. Considerando il caso in cui i danni causati dal cambiamento climatico sono catastrofici, nel Nordafrica la riduzione arriverebbe al 33%.
In sintesi: il cambiamento climatico provocherà una riduzione di risorse che impedirà ai più poveri di migrare in altri paesi, aumentando ulteriormente i danni economici sofferti dai più poveri che non saranno più compensati dalle rimesse provenienti dall’estero.
«L’elemento di novità del lavoro di Benveniste e coautori è guardare al fenomeno delle migrazioni dividendo le popolazioni in gruppi di reddito», commenta Cattaneo, «il risultato mi sembra chiaro: i più poveri si vedranno sottratto uno tra gli strumento di adattamento al cambiamento climatico».
Come gli stessi autori fanno notare, una diminuzione della migrazione internazionale non implica una riduzione di quella nazionale e un naturale sviluppo futuro della loro ricerca sarà applicare questo modello per descrivere i flussi migratori interni. Tuttavia, Cattaneo spiega che in un lavoro pubblicato nel 2016 insieme all’economista Giovanni Peri, la stessa dinamica sembra caratterizzare anche gli spostamenti interni da campagne a città come conseguenza delle riduzione della produttività agricola causata dal cambiamento climatico. «All’aumentare delle temperature osservavamo un aumento dei flussi migratori, sia internazionali che da campagne a città, nei paesi a medio reddito, e una diminuzione, invece, nei paesi poveri».
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