Guerra in Ucraina: quanto pesa il fattore tempo?
da ANALISI DIFESA (Mirko Molteni)
Dopo quattro mesi e mezzo di sanguinoso conflitto in Ucraina, la Russia avanza nel Donbass e non si mostra intenzionata a fermarsi mentre gli ucraini lamentano l’insufficienza delle forniture di armi occidentali. La NATO esce dal vertice di Madrid rafforzata, dopo aver utilizzato la crisi ucraina per giustificare sia l’allargamento a Svezia e Finlandia, sia per sdoganare sempre di più un concetto di “Occidente allargato” che comprenda dal punto di vista militare i paesi della regione del Pacifico che facciano da barriera alla Cina.
Tutto si gioca sul fattore tempo, sulla capacità di non deviare dalla propria traiettoria sperando che sia l’altra parte a cedere per prima. In una sfida del genere, la Russia è avvantaggiata non solo dalla sua storica capacità di sopportare avversità, ma dalla coscienza di combattere per uno spazio geopolitico che considera di sua pertinenza, ergo per lottare per una questione considerata dalla dirigenza di Mosca molto più vitale e cruciale rispetto a quanto i paesi occidentali possano considerare l’Ucraina.
E prova indiretta sembrerebbe proprio il fatto che le consegne di armamenti alle forze di Kiev risultano largamente insufficienti per il tipo di guerra ad alta intensità che sta sconvolgendo non solo le pianure ucraine, ma anche trent’anni di dottrine militari occidentali fondate, in un eccesso di fiducia nel futuro, sull’agilità di forze numericamente scarse studiate per avversari di livello insurrezionale o con limitate capacità convenzionali.
Muro contro muro
Vladimir Putin il 7 luglio 2022, intervenendo alla Duma di Mosca, ha invitato i paesi della NATO a non illudersi che la Russia possa cedere, perlomeno in tempi brevi: “Oggi sentiamo dire che vogliono sconfiggerci sul campo di battaglia. Che dire, che ci provino. Abbiamo sentito molte volte che l’Occidente vuole combatterci fino all’ultimo ucraino. È una tragedia per il popolo ucraino, ma sembra che tutto vada in questa direzione”.
Ha poi precisato: “Tutti devono sapere che in linea di massima non abbiamo ancora iniziato nulla di serio in Ucraina. Allo stesso tempo, non rifiutiamo nemmeno di tenere colloqui di pace. Ma coloro che rifiutano devono sapere che più andremo avanti, più sarà difficile per loro negoziare con noi”.
Il messaggio è chiaro. Putin ha voluto ostentare sicurezza, tenendo aperta la porta a negoziati, ma alle condizioni russe, essendo in questo momento le forze di Mosca in vantaggio sul campo. E’ un messaggio rivolto più all’Occidente che al governo ucraino, essendo il Cremlino sempre più convinto che siano le cancellerie occidentali a condizionare il governo di Kiev incoraggiandolo a non cedere.
Non a caso l’8 luglio, il presidente ucraino Volodymir Zelensky è tornato a tarpare le ali a una ipotesi di compromesso, ritenendo che, per il semplice fatto che i russi hanno deciso di evacuare la loro piccola guarnigione dall’isola dei Serpenti, per conseguenza possa esser possibile un giorno recuperare la Crimea.
“Coloro che sono condannati a strisciare (i russi, per Zelensky, n.d.r.) non toglieranno nemmeno l’Isola dei Serpenti a coloro che sono destinati a volare (gli ucraini, n.d.r.). Ecco perché la bandiera blu e gialla è tornata sull’isola, e un giorno sarà sicuramente sulla penisola (la Crimea n.d.r.), così come in tutte le nostre città e villaggi occupati, mentre il nostro inno nazionale sarà suonato in ognuna di esse”.
Simili toni, da una parte e dall’altra, non fanno che allontanare la fine della crisi, rischiando di renderla un fattore permanente della vita politica internazionale.
Ulteriori segnali si sono avuti durante la conferenza dei ministri degli Esteri del G20, tenutasi il 7-8 luglio a Bali, in Indonesia.
Era il primo evento internazionale a cui partecipavano sia la Russia, sia i maggiori paesi occidentali dopo l’inizio del conflitto russo-ucraino e già alla cena di gala della prima serata i rappresentanti delle nazioni del G7 (USA, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia, Canada, più l’Unione Europea) hanno disertato la tavolata per non volersi sedere a fianco del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov.
Il che, fra le righe, potrebbe essere considerato sotto sotto offensivo anche da parte dei numerosi altri convitati. Del resto, i padroni di casa indonesiani, per bocca della ministra degli Esteri Retno Marsudi, hanno cercato di chiedere, in via neutrale, la fine del conflitto, senza incolpare direttamente una delle due parti.
“E’ nostra responsabilità porre fine alla guerra prima o poi e risolvere le nostre divergenze al tavolo dei negoziati, non sul campo di battaglia”. Senza contare che l’equidistanza dell’Indonesia era stata già dimostrata dal suo stesso presidente Joko Widodo, che fra il 29 e il 30 giugno aveva visitato sia Kiev sia Mosca, invitando Zelensky e Putin a partecipare entrambi alla sessione principale del G20, prevista a Bali il prossimo 15-16 novembre, nella speranza di favorire una mediazione. Quanto si è visto a Bali, però, conferma il muro contro muro.
Dal segretario di Stato americano Anthony Blinken è giunta l’accusa alla Russia di bloccare le esportazioni di grano ucraino: “Per i nostri colleghi russi: l’Ucraina non è il vostro Paese, il suo grano non è il vostro grano. Perché state bloccando i porti? Dovete far uscire il grano”. Nessun accenno alle sanzioni comminate alla Russia, oltre al rifiuto di un bilaterale Blinken-Lavrov (che secondo alcune fonti darebbe invece avvenuto segretamente).
Lavrov ha abbandonato i lavori in anticipo nel pomeriggio dell’8 luglio, ricordando che “il grano bloccato nei porti ucraini è meno dell’1% del grano prodotto in tutto il mondo” e ricordando che comunque la Russia è pronta a colloqui con l’Ucraina con la mediazione della Turchia proprio sul problema delle navi frumentarie.
Ha inoltre ammonito: “Se l’Occidente non vuole che si svolgano colloqui, ma desidera che l’Ucraina sconfigga la Russia sul campo di battaglia, poiché sono state espresse entrambe le opinioni, allora, forse, non c’è nulla di cui parlare con l’Occidente. Non siamo noi che abbiamo cessato i contatti reciproci. Questo è stato fatto dagli Stati Uniti. Non corriamo dietro a nessuno, offrendo di incontrarci. Se non lo vogliono, è una loro scelta”.
Mosca sa di avere il coltello dalla parte del manico in tutta una serie di settori. Sulla sua potenza militare, soprattutto quantitativa, è difficile dubitare sulla capacità del colossale paese di sostenere uno sforzo più prolungato rispetto alle forze occidentali, per come sono state concepite negli ultimi anni.
Dal punto di vista economico, se le sanzioni colpiscono più i fondi e i sistemi di pagamento internazionale, la Russia è però troppo ricca di materie prime e di fonti energetiche perché la sua economia reale, basata sulla concretezza dei prodotti e dei servizi, possa davvero esserne sconvolta, senza contare che intrattiene rapporti commerciali con numerose nazioni emergenti, BRICS e non. Sotto tale aspetto, la sfida di resistenza prolungata fra l’Occidente e la Russia potrebbe, col passare del tempo, essere deleteria proprio alla “narrazione” occidentale, e in particolare americana, della presunta preminenza del credito puro, in termini monetari (fisici o elettronici) e obbligazionari, rispetto alla produzione materiale.
Il portavoce del Cremlino, Dimitri Peskov (nella foto a lato) ha ammonito: “Il potenziale della Russia è così grande che solo una piccola porzione è stata usata per l’operazione speciale”. E per prepararsi a un assedio sul versante occidentale, già il 5 luglio la Camera bassa della Duma, il parlamento di Mosca, ha approvato una legge chiesta dallo stesso Putin il 30 giugno e volta a favorire la mobilitazione dell’economia nazionale a scopi militari. Le nuove norme comprendono la possibilità che le industrie siano “costrette a rifornire le forze armate”.
I lavoratori, in caso di necessità, dovranno inoltre lavorare di notte, nei weekend e nei giorni festivi, anche rinunciando alle ferie. Secondo il vice premier Yuri Borisov la nuova legge è motivata “delle sanzioni occidentali e della fornitura occidentale di armi all’Ucraina”.
Non si parla ancora di “guerra”, né di “economia di guerra”, dato che si resta nell’ambito propagandistico della “operazione speciale”, ma il significato profondo della legge sulla mobilitazione totale è palese. A corollario, Dmitry Rogozin, direttore dell’agenzia spaziale russa Roscosmos, ha pure chiesto che vengano nazionalizzate tutte le società, localizzate sul territorio russo, che producono componenti di microelettronica per satelliti e veicoli spaziali.
Quali obbiettivi?
Nell’arco di circa 140 giorni dall’inizio dell’offensiva russa in Ucraina, lo scorso 24 febbraio 2022, abbiamo visto la Russia tentare dapprima una puntata su Kiev per poi ritirarsi quando in marzo parevano plausibili trattative dirette con gli ucraini grazie alla mediazione turca, e infine, dopo settimane di riorganizzazione e rischieramento strategico abbiamo assistito all’avvio dell’offensiva tuttora in corso nel Donbass, che ha portato nelle ultime settimane alla conquista praticamente completa del Lugansk e a ulteriori guadagni territoriali nel Donetsk.
Non c’è dubbio che le tappe simboliche della lenta, ma inesorabile avanzata russa, possano essere sintetizzate nella conquista, dopo un lungo assedio, di Mariupol il 17 maggio, lungo la costa del Mar d’Azov, seguita più a Nord, nel Lugansk, dalla presa di Severodonetsk il 25 giugno e di Lysychansk il 3 luglio. Il tutto senza dimenticare che l’essersi assicurati una fascia di sicurezza nel Kherson, a nord della Crimea, fin dalle prime settimane di guerra ha contribuito a dare stabilità e continuità territoriale a tutta una fascia omogenea occupata dai russi che assommerebbe ormai a quasi il 20% dell’Ucraina.
Siamo arrivati a un punto in cui, mentre l’Occidente fa mostra di unità, ma concretamente non può, per ovvie ragioni, fare nulla sul campo, Mosca può invece permettersi il lusso di più opzioni.
In qualsiasi momento i russi possono decidere di cessare la lotta nella misura in cui si ritengano soddisfatti delle conquiste territoriali effettuate fino a quel punto. Viceversa possono, finché lo ritengono opportuno, tentare di pressare ancora il fronte, avendo in tal caso due possibilità.
O ulteriori guadagni territoriali marginali, fin dove possa risultare conveniente una nuova linea di frontiera, oppure perfino (col tempo) lo sfondamento del fronte, a esaurimento dell’esercito ucraino, puntando a un cambio di regime a Kiev e la nascita di una Ucraina “bielorussizzata” (nonché mutilata sul piano territoriale) nell’orbita di Mosca, a fare da cuscinetto con la NATO.
Possibilità così diverse rendono assai più difficile capire quali possano essere i veri obbiettivi del Cremlino e molto dipenderà dalla volontà di tutti di dar vita a una trattativa che porti a un cessate il fuoco e dalla tenuta delle forze ucraine il cui indebolimento potrebbe risultare più veloce del tasso di consegna di nuove armi dagli alleati o di formazione di nuove reclute, ammesso che ce ne siano a sufficienza e che la voglia di resistere all’invasore permanga intatta come nei primi mesi di guerra.
Il 4 luglio, il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu ha quantificato in “2000 soldati morti, 196 mezzi corazzati distrutti e 12 velivoli abbattuti” le pesanti perdite subite dagli ucraini nella sola battaglia che ha portato alla conquista di Lysychansk da parte delle truppe del Cremlino.
I miliziani filorussi del Lugansk hanno annunciato che convergeranno sia sul fronte della regione di Kharkiv, per distogliervi forze ucraine proteggendo nel contempo il fianco settentrionale dello schieramento principale russo, sia nel Donetsk, l’altra regione del Donbass che, anche secondo lo Stato Maggiore ucraino e l’intelligence britannica, “sarà il prossimo obbiettivo di Mosca”.
Nel settore Slovjansk-Kramatorsk è prevista la nuova concentrazione di artiglieria russa e filorussa. Kiev si consola issando la bandiera ucraina sull’isola dei Serpenti (subito dopo colpita da missili lanciati dai cacciabombardieri Sukhoi Su-30 russi), abbandonata giorni fa dai russi, ma intanto nuovi bombardamenti hanno flagellato il Donetsk e il settore di Kharkiv.
A Melitopol, dove agiscono partigiani antirussi, è esploso un ponte ferroviario utilizzato dai russi, mentre a Izyum un attacco ucraino ha centrato un deposito di munizioni nemico. Intanto a Kherson, la Rosgvardija, la Guardia Nazionale Russa, dice d’aver “trovato, in casa del generale nemico Alexander Savchenko, documenti che proverebbero la complicità degli osservatori OSCE con i servizi segreti ucraini SBU”.
Gli esperti americani dell’ISW, Institute for the Study of War, hanno rilevato che “per la prima volta da 133 giorni, il 6 luglio la Russia non ha rivendicato alcuna conquista territoriale”.
L’ISW sostiene che “i russi conducono attacchi limitati e privi di successo su tutti gli assi”. Tentativi definiti dall’ISW “coerenti con una pausa operativa russa, che non implica la completa cessazione delle ostilità”. Questi piccoli attacchi russi potrebbero essere ricognizioni per saggiare le difese ucraine, mentre il grosso dell’esercito starebbe riprendendo fiato in attesa di riattivare un’avanzata in grande stile. Sulla lentezza, pur inesorabile, dell’avanzata russa aveva parlato il 5 luglio il Ministero della Difesa britannico, che diffondendo il suo quotidiano rapporto d’intelligence rilevava che “nell’ultima settimana i russi sono avanzati di 5 km lungo la strada E40 da Izyum, di fronte alla resistenza ucraina estremamente determinata, e sono arrivati a 16 km a Nord di Sloviansk”.
Cinque chilometri in una settimana possono sembrare pochi, sarebbero pari in media a soli 700 metri al giorno, ma non va dimenticato che i russi muovono con una tattica ben diversa da quella degli eserciti occidentali moderni, ovvero dedicando molto tempo alla demolizione delle difese nemiche con artiglieria e missili e avanzando lentamente per proteggersi da eventuali contrattacchi nemici sui fianchi.
Gli ucraini hanno certo conteso il terreno ai russi, favoriti dal fatto di aver per anni potuto trincerarsi nel Donbass su linee difensive sequenziali, ma l’impressione è che ora stiano cedendo, anche perché le perdite in uomini ed equipaggiamenti non sembrano ripianate a sufficienza dalle forniture occidentali e da nuovi reparti addestrati.
Già il 24 giugno l’intelligence americana citata dalla CNN ammetteva: “Le nuove armi fornite agli ucraini, inclusi i lanciarazzi HIMARS, non cambieranno subito la situazione. Hanno portata limitata per evitare il territorio russo, inoltre i russi hanno distrutto alcune delle armi fornite dall’Occidente con attacchi mirati”.
Il Pentagono ha annunciato che, dopo l’arrivo dei primi quattro lanciarazzi M142 Himars, “i prossimi quattro arriveranno a metà luglio”. Negli stessi giorni gli ucraini diffondevano un filmato in cui mostravano per la prima volta in azione un M142 HIMARS sul fronte di Zaporizhia, mentre sparava una salva di sei razzi M31 da 80 km di gittata.
Ebbene, già il 6 luglio il portavoce della Difesa russa, generale Igor Konashenkov, sosteneva che l’aviazione russa aveva distrutto già due M142: “Presso il villaggio di Malotaranovi, nella repubblica popolare di Donetsk, due lanciarazzi Himars e due depositi di munizioni a loro associati sono stati distrutti con missili lanciati da aerei”.
La perdita di due su quattro dei già rari lanciarazzi pesanti ricevuti dall’America, è certo un brutto colpo. Anche perché soltanto in questi giorni, attorno a metà luglio, è previsto che ne arrivino appena altri quattro esemplari mentre altri 4 sono stati autorizzati dal Pentagono.
In più, lo stesso 6 luglio l’aeronautica russa ha centrato un deposito di munizioni a Soledar, secondo Konashenkov, distruggendo “1500 proiettili d’artiglieria e 100 razzi anticarro stranieri”. Un caccia russo Sukhoi Su-35 avrebbe inoltre abbattuto due elicotteri Mi-24 e un caccia Su-25 ucraini nel sud del paese, il che sarebbe plausibile essendo il Su-35 russo un aereo molto più veloce e agile delle sue vittime.
Vecchi missili e danni collaterali
Circa l’aviazione russa alla fine di giugno si è fatto un gran parlare dell’impiego di bombardieri Tupolev Tu-22M3 che decollati dalla base di Shaikovka, nella regione russa di Kaluga hanno talvolta sparato grossi missili Raduga Kh-22 “Burya” (“Tempesta”) della portata di 600 chilometri, pezzi da museo entrati in servizio nel 1962, il cui margine d’errore massimo arriverebbe a 5 chilometri.
Si tratta infatti di un missile concepito in origine come arma antinave a testata nucleare, per spazzare via le portaerei americane, ma se “riciclato” per obbiettivi terrestri con testata convenzionale da 1000 kg di esplosivo, sarebbe soggetto a maggiori errori, probabilmente perché il suo radar può meglio distinguere grandi navi sulla superficie marina, anziché un complesso paesaggio di terra dagli innumerevoli echi radar.
L’uso di questi missili ha portato a vittime civili e l’episodio più noto si è avuto il 26 giugno, quando un Kh-22 ha colpito il centro commerciale Amstor di Kremenchuk, oppure le sue immediate adiacenze, vicino alla stazione ferroviaria, mentre un altro ordigno ha colpito un complesso metalmeccanico, l’azienda Kredmash, posta immediatamente a Nord del centro commerciale, e dove ci sono stati solo 2 feriti.
L’azienda ha sostenuto di non “produrre nulla di militare dal 1989”, ma per i russi essa verrebbe usata “per la manutenzione di mezzi militari”. La Kredmash, stando alle foto satellitari, sembrerebbe grande quanto uno dei vecchi kombinat di era sovietica, con capannoni estesi per 300 metri sul lato nord del centro Amstor. Area estesa su cui i russi speravano di piazzare perfino i vecchi Kh-22. Il generale Konashenkov ha sostenuto: “La nostra aviazione ha colpito un deposito di armi fornite da USA e Unione Europea in hangar presso la fabbrica di macchinari di Kremenchuk (la Kredmash appunto). L’incendio s’è propagato a un centro commerciale chiuso, vicino alla fabbrica”.
Altri Kh-22 e la loro versione più evoluta Kh-32 sono stati impiegati, per esempio su Serhivka, non lontano da Odessa, e il 2 luglio l’intelligence inglese, nel suo rapporto ha sostenuto che i russi ricorrono a “vecchi e imprecisi missili antinave contro obbiettivi terrestri” perchè “stanno terminando le scorte di armi moderne”. Per l’intelligence britannico “Sono missili inadatti a obbiettivi in ambiente urbano, aumentano il rischio di danni collaterali”.
E’ dubbio comunque che i russi stiano ricorrendo ai vecchi missili aviolanciati degli anni Sessanta e Settanta solo perché sono a corto di armi moderne, sembra invece più plausibile che preferiscano sgombrare i magazzini da armamenti obsoleti e ormai in scadenza, conservando i sistemi più moderni, quelli grossomodo costruiti negli ultimi vent’anni, in previsione di un possibile, malaugurato scontro con la NATO.
D’altronde, sul problema delle vittime civili dei bombardamenti una vera chiarezza sarà fatta solo dopo la fine del conflitto. Anche nelle ultime settimane si sono moltiplicate le denunce da parte russa circa il fatto che le forze armate ucraine utilizzino infrastrutture o perfino luoghi residenziali civili come copertura, veri e propri “scudi”, di proprie unità militari.
Fra le più recenti, ovviamente tutte da verificare, ma che qui ci preme ricordare anche solo come beneficio d’inventario, in quanto praticamente ignorate dall’informazione “mainstream”, ci sono quelle del generale russo Mikhail Mizintsev, capo del Centro gestione Difesa nazionale russo, che il 5 luglio ha affermato: “Nel Donetsk, gli ucraini hanno appostato lanciarazzi e veicoli blindati presso una scuola a Seversk e posizioni di cecchini in un’altra scuola a Shcherbinovka”.
Ha aggiunto che “posizioni d’artiglieria sono vicino alla scuola n.25 di Odessa” e che “postazioni di militari ucraini sono nei palazzi residenziali nella via Rymarskaya di Kharkhiv, ai cui residenti civili è stato vietato di andarsene”.
Che i massicci bombardamenti russi causino molte vittime civili è assodato, allo stesso modo in cui anche gli ucraini, nella limitatezza dei loro meno numerosi missili e razzi campali, come i Tochka-U o i Grad, ne causano tartassando centri abitati del Donetsk e del Lugansk.
Se il governo di Kiev pone grande attenzione a questi episodi è per forzare l’Occidente, per quanto possibile, a dare più armi, ma le quantità sono modeste e mantengono l’Ucraina sul livello minimo di sopravvivenza militare, e con tendenza al peggio, visti gli sviluppi nel Donbass. Paiono quindi ridicoli i ripetuti appelli a “non far vincere Putin”, basati più su desideri che su una efficace strategia di lungo periodo.
Aiuti a metà
Certamente la NATO non è in guerra contro la Russia, ma si potrebbe dire che ci sia vicina dal punto di vista delle forniture militari e del possibile coinvolgimento di forze speciali o mercenari che potrebbero non essere del tutto volontari, come vedremo più oltre. I paesi occidentali non hanno però intenzione di fornire tutte le armi che chiede Zelensky, poiché non basterebbero quelle presenti negli arsenali dei paesi europei, pertanto si tratta di aiuti “a metà”.
A Washington, a Londra e nelle capitali “ancillari” sperano che siano le sanzioni economiche la vera arma contro la Russia, mentre le armi sul campo cedute da Ovest sono in realtà il minimo per ripianare le perdite di materiale bellico da parte ucraina, a patto però che non aumenti il tasso di distruzione di armi e munizioni ucraine da parte dei sistemi russi d’artiglieria e missilistica, altrimenti il “gioco” rischia di saltare.
Di giorno in giorno, si rincorrono notizie che indicano nuovi “pacchetti” di aiuti militari decisi di volta in volta in modo estemporaneo, ma senza un piano di lungo periodo, condiviso e coordinato fra alleati. Ad esempio, il 29 giugno, proprio mentre si apriva il vertice NATO a Madrid, Germania e Olanda annunciavano la prossima consegna di altri 6 obici semoventi Panzerhaubitze 2000, 3 per ciascuno, stando alla ministra della Difesa tedesca Christine Lambrecht: “In Germania abbiamo deciso di dare all’Ucraina altri 3 Pzh 2000. Insieme a quelli dell’Olanda, saranno sei”.
La Lambrecht ha anche ammesso che la Germania non fornirà altre unità di questo tipo poiché altrimenti vedrà ridurre le proprie stesse capacità di difesa. Quei 6 Pzh2000 germano-olandesi si aggiungeranno ad altri 7 già confermati in maggio, ma che reale utilità militare possono avere inviati col contagocce, così scaglionati nel tempo?
Lo stesso giorno la Norvegia ha promesso, stando al suo titolare della Difesa, Bjorn Arild Gram, tre lanciarazzi M270. Dalla Francia, il 1° luglio è stato lo stesso presidente Emmanuel Macron in persona a promettere ai dirigenti di Kiev “altri 6 obici semoventi Caesar, e un numero significativo di veicoli blindati”.
Il 3 luglio, da Kiev, dov’era in visita, il premier australiano Anthony Albanese, ha garantito a Zelensky “un nuovo sostegno militare di 99,5 milioni di dollari australiani (67,8 mln di dollari USA)”, che porta a 388 milioni il totale degli aiuti di Canberra. Previsti, in particolare, 14 veicoli blindati M113 e 20 blindati Bushmaster. L’8 luglio, ecco un nuovo pacchetto di aiuti militari americani, annunciato da Biden, per 400 milioni di dollari che comprende ulteriori 4 lanciarazzi M142 HIMARS che porteranno il totale consegnato agli ucraini a 12 sistemi di questo tipo in ben due mesi da parte degli Stati Uniti.
Come si può credere che sia efficace un’assistenza militare di questo tipo, decisa alla giornata, il più delle volte a beneficio della stampa e delle opinioni pubbliche, dai paesi occidentali in ordine sparso, quasi in una gara di solidarietà che non sembra avere un briciolo di criterio strategico?
Se davvero si voleva aiutare l’Ucraina a difendersi, opponendo all’aggressore russo un prezzo troppo alto da pagare, tale da indurlo a cessare le ostilità dopo poche settimane, perché fin da marzo-aprile la NATO non ha stabilito linee guida e un programma coordinato che imponesse, ad esempio, di standardizzare gli aiuti in termini di artiglieria semovente o lanciarazzi pesanti razionalizzando consegne più cospicue numericamente?
Una risposta è senz’altro nella ricordata carenza di armi pesanti negli stessi arsenali occidentali, aggravata forse anche dalla eccessiva sofisticazione e da costi troppo alti che impediscono, in caso di emergenza nazionale di avviare una produzione di massa di simili mezzi in tempi brevi. Il che fa capire come la NATO sia esposta alla Russia, se non fosse per la risposta nucleare a una ipotetica offensiva convenzionale.
Risposta che però dovrebbe fare i conti con l’immediato superamento anche da parte russa della soglia atomica. L’altra risposta è che i governi occidentali sembrano davvero navigare a vista, a dispetto dell’ostentata sicurezza. V’è quasi l’impressione che ci si affidi all’effetto dimostrativo del semplice appoggio militare, per quanto scoordinato e limitato, nella speranza che i russi, prima o poi, semplicemente gettino la spugna. Ma Mosca ha un vantaggio decisivo nell’unità di comando e nell’avere un piano strategico programmato sul medio-lungo termine, che la NATO non sembra avere.
L’alleanza occidentale reagisce ad azioni decise da un avversario le cui vere intenzioni sono ancora in larga parte ignote, posto che la conquista di tutto il Donbass e della fascia del Kherson siano obbiettivi minimi ai quali si potrebbe aggiungere la costa di Odessa.
Per non parlare di più ghiotte occasioni che si potrebbero presentare nel caso, non impossibile, di un collasso totale dei vertici politici ucraini a causa di un crollo militare al fronte. Soprattutto il mondo occidentale pare non voler ammettere che la Russia possa davvero persistere nella sua offensiva per un periodo di tempo eccessivamente lungo, una prospettiva che metterebbe a mal partito le democrazie occidentali, troppo abituate a ragionare in termini di “breve periodo”, soprattutto a fini elettorali.
Peraltro, Stati Uniti e Unione Europea sono stati prodighi più che altro di armi portatili e relative munizioni, gli unici sistemi d’arma il cui conteggio, per tipo, supera il centinaio e il migliaio.
Anticarro efficaci come i Javelin o gli NLAW, possono aumentare molto attriti e perdite per il nemico, ma senza da sole vincere una guerra convenzionale di questo tipo. Fra l’altro, il 5 luglio, il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, ha perfino insinuato che parte delle armi in arrivo in Ucraina possano (o lo siano già) “essere dirottate sul mercato nero e finire in Medio Oriente”.
Lo riportava perfino il Guardian, scrivendo che Shoigu avrebbe valutato in “28.000 tonnellate” la massa totale delle armi e munizioni occidentali per l’Ucraina. Al momento non esiste prova delle affermazioni di Shoigu, ma se è vero che l’Ucraina è sempre stata considerata a livello internazionale uno dei paesi più corrotti del mondo, salvo poi ricordare questo scomodo aspetto a bassissima voce dopo il 24 febbraio 2022, per evidenti motivi di opportunità politica, è facile intuire che possa esserci almeno una minima base di verità.
Il 6 luglio Zelensky si è sbilanciato promettendo al suo popolo che “entro la fine dell’anno tutto il paese sarà protetto da sistemi antimissile moderni, per i quali stiamo trattando”. Nelle scorse settimane si era vociferato di un interesse di Kiev per il sistema israeliano Iron Dome, ma l’ipotesi pare dubbia data l’importanza strategica di questo sistema per Israele.
Fra l’altro viene da chiedersi con quali soldi gli ucraini sperano di assicurare al loro paese, ben più esteso dell’Italia un ombrello antimissile nazionale completo, che al momento attuale solo Israele, con la sua limitata superficie, può permettersi. Lo stesso giorno, a Berlino, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha annunciato di fronte ai parlamentari del Bundestag “la prossima consegna a Repubblica Ceca, Grecia, Polonia e Slovenia delle armi tedesche che permetteranno a questi stati di cedere all’Ucraina le loro armi ex-sovietiche”, nella fattispecie carri armati T-72 o blindati BTR.
Sembra la volta buona, dopo che tutti gli scrupoli tedeschi in fatto di esportazione di armi stavano facendo perdere la pazienza alla Rheinmetall che da tempo si diceva pronta a rimettere in sesto i vecchi Marder, ma era bloccata dalle lungaggini politiche. Sempre il 6 luglio, il ministro britannico della Difesa, Ben Wallace, ha dato per certo l’arrivo “dei primi ucraini in Gran Bretagna, per essere addestrati dalla nostra 11° Security Force Assistance Brigade”.
Sono i primi di 10.000 soldati, in base a un accordo Londra-Kiev, ma tenuto conto dei tempi di addestramento e di avvicendamento, faranno in tempo prima che il conflitto finisca?
Di certo la Gran Bretagna si conferma seconda solo agli Stati Uniti negli aiuti militari all’Ucraina, avendo portato il totale del suo contributo a 2,3 miliardi di sterline, contro gli 8 miliardi di dollari degli americani.
Il maggior contributo inglese è costituito da circa 5000 armi anticarro leggeri NLAW, diversi antiaerei Starstreak e da un numero non determinato di missili Brimstone e da 120 veicoli blindati fra cui i Mastiff a ruote, mentre i lanciarazzi pesanti M270 per ora sono soltanto tre e altri successivi non sono ancora stati quantificati.
Fra le armi di provenienza britannica, anche i missili antinave Harpoon, alcuni dei quali però già distrutti dai russi, come “i due sistemi lanciatori Harpoon” che secondo Konashenkov sarebbero stati colpiti l’8 luglio “sulla costa di Odessa da missili di precisione lanciati dal mare”, ovvero da navi o sottomarini della flotta russa del Mar Nero.
Volontari o consiglieri militari?
Si è tornato a riparlare della presenza in Ucraina di militari, o ex-militari occidentali. E’ sicuro che ci siano alcune migliaia di stranieri che passano per volontari o mercenari che dir si voglia, ma quanti di essi sono davvero in Ucraina di loro sponte e quanti sotto copertura su incarico dei governi?
Più di una volta, in altri interventi precedenti, abbiamo vagheggiato per il conflitto ucraino un parallelo con la Guerra di Spagna del 1936-1939, quando, ad esempio, il contingente italiano era formalmente costituito da volontari, con nome di battaglia che nascondeva la vera identità.
Ebbene, il 26 giugno sul New York Times, che non può certo essere sospettato di essere filo-russo, è trapelato che “forze speciali della NATO starebbero operando tuttora in Ucraina”, sicuramente per addestramento, ma forse anche per dare qualche “lezione pratica” sulla linea del fronte, in altre parole per partecipare ai combattimenti.
Il quotidiano newyorchese cita “tre fonti diverse”, definite “ufficiali statunitensi ed europei”, secondo i quali “alcune dozzine” di commandos di vari paesi, fra cui specialmente “Gran Bretagna, Francia, Canada e Lituania”, sono tuttora presenti nel paese e stanno addestrando gli ucraini all’uso delle nuove armi ricevute dall’Occidente.
Scrive il NYT: “Gli USA ritirarono i loro 150 consiglieri militari prima dell’inizio della guerra in febbraio, ma commandos di questi paesi alleati sono rimasti, oppure entrano ed escono dal paese, dopo lo scoppio del conflitto, addestrando e consigliando le truppe ucraine, nonché assicurando l’impiego sul campo delle armi, oltre ad altro sostegno”.
I consiglieri americani ritirati alla vigilia del conflitto erano, si ricorderà, elementi dei Berretti Verdi dell’US Army e della Guardia Nazionale USA, senza contare un ruolo dei SAS britannici, ma la recente cattura di militari statunitensi, ufficialmente volontari in congedo, forse come copertura, fa capire come anche consiglieri USA possano essere tuttora presenti.
L’impiego “sul campo” delle armi occidentali, per mostrarne il funzionamento, farebbe presupporre che questi militari della NATO possano aver direttamente sparato più di un colpo contro le truppe russe, possibilmente con effetti letali, anche solo a titolo di “esempio” per mostrare agli ucraini come si usano gli armamenti ricevuti da USA e Unione Europea.
Il New York Times cita anche la CIA come fonte di informazioni, comunque vaghe e velate, circa una presunta rete organizzativa di questi incursori, che avrebbero come sede principale in Ucraina la capitale Kiev, ma che conterebbero su una sorta di “cellula”, così definita, organizzata in Germania per la logistica e l’addestramento da un preciso reparto dell’esercito americano, citato espressamente, ovvero il 10° Special Forces Group dell’US Army.
La “cellula” sarebbe costituita da militari provenienti da un totale di “20 nazioni diverse”. Numericamente potrebbe trattarsi dei due terzi della NATO, che come noto annovera 30 stati membri. Al che è lecita la domanda se non vi siano eventualmente compresi militari italiani e se, forse, la riservatezza imposta dal governo di Roma sulle forniture d’armi italiane per gli ucraini non possa in qualche modo essere collegata a questa vicenda.
Probabilmente non lo si saprà mai. Una delegata del segretario USA alla Difesa Lloyd Austin, la sottosegretaria all’US Army Christine Elizabeth Wormuth, ha sentenziato: “Poiché gli ucraini tentano di evitare gli attacchi dei russi ai convogli, noi stiamo tentando di aiutarli a coordinare i movimenti dei differenti tipi di forniture”.
Ciò farebbe intuire che parte del compito dei membri delle forze speciali occidentali sia anche aiutare il trasporto delle armi in territorio ucraino, su strada o ferrovia, in modo da cercare di eludere, per quanto possibile, gli attacchi aerei e missilistici russi.
Poiché l’aeronautica russa spesso bombarda centri di addestramento e di raccolta di miliziani stranieri, è plausibile che, se fra essi ci sono sotto copertura militari NATO tuttora in servizio, si sia già verificata qualche uccisione reciproca fra personale NATO e russo.
Il 29 giugno, ad esempio, Konashenkov comunicava che una salva di missili sull’area di Mykolaiv avrebbe “distrutto un centro di addestramento di mercenari stranieri”. Già il 21 giugno era giunta notizia della morte in combattimento di un secondo mercenario americano, arruolato fra gli ucraini. Sarebbe tale Stephen D. Zabielski, 52 anni di New York, pare saltato su una mina.
La notizia è apparsa su un necrologio di The Reporter e confermata da “un funzionario del Dipartimento di Stato” citato dal Washington Post. Sarebbe quindi il secondo combattente USA caduto sul campo dopo Willy Joseph Cancel, perito a 22 anni fin dal 29 aprile scorso.
Frattanto, il 28 giugno, Alexander Drueke, uno dei due combattenti statunitensi catturati dai filorussi del Donbass ha potuto parlare con un funzionario del Dipartimento di Stato USA, stando a quanto rivelato alla CNN da sua madre Bunny Drueke.
E’ prigioniero della Repubblica Popolare di Donetsk e sarebbe “trattato bene”, inoltre si starebbe trattando per un suo rilascio. L’altro americano prigioniero è di origine vietnamita, tale Andy Tai Ngoc Huynh, è tenuto separato da Drueke, ma lo ha visto almeno una volta. Il 5 luglio.
E’ morto intanto un secondo combattente francese in Ucraina. Adrien D., 20 anni, spirato in un ospedale da campo di Kharkiv per le ferite riportate su quel fronte: un mese prima a causa dei medesimi cannoneggiamenti era stato ucciso il suo compatriota Wilfried Blériot. E l’8 luglio, nell’area di Seversk, le milizie filorusse della repubblica di Lugansk hanno distrutto “un convoglio di mercenari georgiani”, affermando: “I mercenari si stavano ritirando a bordo di auto e furgoncini quando sono stati colpiti dall’artiglieria”. Secondo l’agenzia russa TASS sono stati uccisi “almeno 30 georgiani”.
Il “fronte di Kaliningrad
“Prima dobbiamo sconfiggere la Russia, poi negoziare”, affermava il 29 giugno 2022 a Madrid la ministra degli Esteri britannica, Liz Truss, all’apertura del vertice della NATO a Madrid.
Una frase non certo degna di un diplomatico, tanto più che il concetto stesso di una “sconfitta” della Russia presupporrebbe una conflagrazione globale che nessuno può davvero desiderare. Più sfumato è stato il segretario generale dell’alleanza, Jens Stoltenberg parlando di un vertice “storico e trasformativo” che, conclusosi il 30 giugno ha sancito il via libera all’adesione di Svezia e Finlandia, dopo il compromesso con la refrattaria Turchia e l’aumento da 40.000 a 300.000 della forza di reazione rapida dell’alleanza.
Il vertice è stato segnato dalla crescente paura dovuta alla crisi fra Russia e Lituania per l’exclave di Kaliningrad, l’unico sbocco russo sul Baltico che sia libero dai ghiacci per tutto l’anno, tanto da essere quartier generale della Flotta del Baltico, nonché un avamposto strategico per il lancio di missili balistici a breve-medio raggio Iskander-M che possono battere, anche con testate nucleari se necessario, la Polonia e parte della Germania.
Dal 19 giugno la Lituania ha decretato il blocco del transito dal suo territorio di merci dirette a Kaliningrad, base russa sul Mar Baltico, incuneata fra la stessa Lituania e la Polonia e separata dal territorio nazionale russo, essendo un’exclave. Il governo di Vilnius ha bloccato dapprima le merci su ferrovia, poi dal 21 giugno quelle trasportate su strada con autocarri, giustificando il tutto con le sanzioni economiche applicate dall’Unione Europea verso Mosca, la quale ha negli ultimi giorni aumentato gli avvertimenti ai lituani, evocando non meglio specificate “dure reazioni”.
E’ così aumentata la già alta tensione fra Russia e NATO, di cui la Lituania è parte. Il Cremlino ha minacciato “contromisure non diplomatiche” se Kaliningrad verrà assediata. Di riflesso, già il 27 giugno Stoltenberg si è detto “preoccupato per il rafforzamento militare russo a Kaliningrad”, spiegando: “Sono fiducioso che Vladimir Putin capisca le conseguenze di attaccare un Paese Nato, provocherebbe la risposta di tutta l’alleanza: siamo preoccupati per l’aumento delle capacità militari russe a Kaliningrad e lo abbiamo visto per molti anni, anche con armi moderne.
La Lituania non fa altro che implementare le sanzioni decise dall’UE”. L’exclave russa non è che la ex-Konigsberg tedesca conquistata dall’Armata Rossa di Stalin nel 1945. La Lituania ha già segnalato di aver subito a fine giugno un “attacco informatico massiccio” che Jonas Skardinskas, direttore del National Cybersecurity Center, di Vilnius ritiene “originato probabilmente dalla Russia”.
Tempi lunghi
Sul pericolo russo, ha fatto rapporto il 30 giugno la direttrice dell’intelligence nazionale americana, Avril Haines, che coordina CIA, NSA, FBI e DIA, evocando ancora la Spada di Damocle delle forze nucleari: “Col prolungarsi del conflitto la Russia potrebbe ricorrere alle armi nucleari. In questo lasso di tempo è possibile che le forze di Vladimir Putin facciano affidamento su altri mezzi come i cyberattacchi, i ricatti energetici o le armi nucleari per cercare di gestire e proiettare potere e influenza a livello globale”.
Sul discorso delle armi nucleari, tuttavia, poiché il loro uso è quasi impossibile, a meno di un confronto diretto con la NATO, va da sé che la funzione resta quella di deterrenza reciproca. Sempre la Haines ha fatto sapere che secondo l’intelligence USA la guerra può durare a lungo.
“Percepiamo una frattura fra gli obiettivi militari a breve termine di Putin in questa regione e le sue capacità militari” ha detto.
Una mancata corrispondenza fra le sue ambizioni e quello che i militari sono in grado di ottenere. Tre gli scenari: il più probabile è un conflitto al rallentatore, con la Russia che riesce a fare passi avanti incrementali ma senza sfondare. Le altre possibilità includono un risultato importante della Russia o la stabilizzazione delle linee del fronte, con gli ucraini che riescono ad avanzare, anche se di poco”. Intanto fonti della Casa Bianca divulgavano che “gli alleati della NATO ritengono che il conflitto in Ucraina si protrarrà per i prossimi mesi e potrebbe durare fino al 2023”.
E’ la malcelata preoccupazione degli Stati Uniti, il protrarsi di un conflitto in cui la Russia non dia segni di cedimento e così facendo sfidi apertamente il monopolio della superpotenza a stelle e strisce.
Indice del nervosismo d’oltreoceano potrebbe essere l’indiscrezione pubblicata il 5 luglio dal Washington Post secondo cui ci sarebbe una “spaccatura” fra i vertici politici e quelli militari degli Stati Uniti proprio dovuta alle previsioni sbagliate sull’andamento del conflitto.
Scrive il WP: “C’è una spaccatura fra analisti e legislatori americani. Alcuni si chiedono se le autorità USA non abbiano usato termini eccessivamente rosei, altri affermano che il governo di Kiev può vincere con maggiore sostegno da parte occidentale”.
Al vertice NATO di Madrid, il presidente Joe Biden ha invitato a sostenere l’Ucraina “fino a quando sarà necessario, per evitare una sconfitta dell’Ucraina in Ucraina”. Secondo il giornale: “Il governo americano sminuisce i progressi dell’avanzata russa, definendoli discontinui e incrementali e sottolineano il numero significativo di vittime militari russe che ne sono derivate.
Ma anche gli ucraini hanno subito pesanti perdite. Stime indipendenti indicano che ciascuna parte ha avuto decine di migliaia di soldati uccisi e feriti. Il Pentagono non ha voluto discutere pubblicamente le sue valutazioni su morti e feriti”.
Per il Washington Post sembra di rivedere il vecchio film dell’Afghanistan: “Nella guerra afghana i funzionari statunitensi sorvolavano abitualmente sulle disfunzioni e sulla corruzione diffuse, evitando di chiedersi se i successi sul campo di battaglia fossero non solo raggiungibili ma anche sostenibili”. Ancora una volta rispunta lo spettro dell’Afghanistan, che se negli anni Ottanta terrorizzò i sovietici, negli ultimi vent’anni, dall’ottobre 2001 all’agosto 2021 ha tormentato gli Stati Uniti e i loro alleati.
Una Russia che persista nella sua guerra in Ucraina e che alla fine vinca, potrebbe tradursi per l’Occidente in uno shock paragonabile alla sconfitta in Afghanistan e alla convulsa fuga dell’agosto 2021?
In termini politici è plausibile, anche perché è la stessa constatazione che la Russia non è isolata ad azzoppare il meccanismo delle sanzioni. Se la Russia è stata definita “la minaccia principale all’alleanza”, il nuovo concetto strategico, complice la partecipazione come ospiti di vari paesi dell’Indo-Pacifico, come il Giappone e la Corea del Sud, ha per la prima volta considerato anche la Cina come una sfida per la NATO. Un messaggio esplicito a Pechino perché non appoggi la Russia.
Già il 23 giugno, il presidente cinese Xi Jinping ha ospitato in via virtuale, per teleconferenza il primo vertice dei paesi emergenti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) dopo l’inizio della guerra. Putin, per l’occasione, ha evocato un mondo multipolare che rigetti l’egemonia USA.
“I paesi occidentali si servono di meccanismi finanziari per rendere il mondo intero responsabile dei loro errori di politica macroeconomica. Ruolo dei BRICS è sviluppare una politica volta a un sistema multipolare”.
Ha ricordato che “i BRICS possono contare sul sostegno di vari paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina che aspirano a una politica indipendente”. In effetti i soli BRICS contano il 40% della popolazione terrestre, con circa 3,1 miliardi di persone, l’equivalente di “due Occidenti”.
Gli ha fatto eco Xi, che si è scagliato contro gli Stati Uniti e la NATO: “Bisogna abbandonare la mentalità da Guerra Fredda, opporsi alle sanzioni unilaterali e all’abuso delle sanzioni. Alcuni paesi, nel tentativo di allargare alleanze militari in nome di una sicurezza assoluta, hanno costretto altri a scegliere da che parte stare e hanno creato contrapposizioni”.
Riferimento all’allargamento a Est della NATO che ha creato tensioni sfociate nella guerra in Ucraina. E poiché i contraccolpi economici del conflitto stanno causando danni soprattutto ai paesi del Terzo Mondo, se ne è fatto alfiere il presidente brasiliano Jair Bolsonaro affermando che “i BRICS sono un fattore di stabilità e devono contribuire a creare occupazione e reddito nelle nostre popolazioni”. Certo, nel blocco BRICS resta come crepa la diffidenza fra Cina e India, tanto che Nuova Delhi è parte dell’alleanza Quad con USA, Giappone e Australia. Ma i russi mediano fra i giganti asiatici, grazie agli ottimi rapporti con entrambi.
Tra Russia e Cina non è tutto rose e fiori, come dimostra la vicenda di due scienziati russi arrestati a Novosibirsk tra il 28 e il 30 giugno dall’FSB per presunto spionaggio in favore di Pechino. I due, Dimitri Kolker e Anatoly Maslov, avrebbero passato ai cinesi, rispettivamente “informazioni su ricerche quantistiche”, Kolker, e “dati sugli ipersonici”, Maslov.
Rinchiusi nel carcere di Lefortovo, lì Kolker “già malato di cancro al pancreas”, sarebbe morto il 3 luglio. La competizione fra Mosca e Pechino, che in un futuro prevedibile avrebbe come teatro la Siberia, resterà sottotraccia finché avranno come comune interesse l’opposizione all’egemonia statunitense.
E d’altronde, se il Brasile di Bolsonaro riafferma la sua neutralità sulla questione ucraina, così come il Messico e l’Argentina, quest’ultima chiedendo perfino di aderire al BRICS, mentre anche il Vietnam, pur ostile alla Cina, resta in equilibrio fra Russia e Stati Uniti, significa che il mondo multipolare è già una realtà, checché ne pensino a Washington e Bruxelles, con tutto ciò che ne consegue.
FONTE: https://www.analisidifesa.it/2022/07/guerra-in-ucraina-quanto-pesa-il-fattore-tempo/
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