Educazione Civica: ciò che abbiamo non è ciò di cui avremmo bisogno
di La Fionda (Emanuele Puglisi)
Esiste una differenza tra strategia e tattica. La strategia riguarda una visione di lungo periodo, la tattica ha a che fare con una pratica legata alle scelte immediate, di breve respiro. Nell’ormai decennale guerra “condotta con altri mezzi” che ha opposto il Ministero e le forze neoliberali ai docenti, guerra condotta con le armi della diplomazia, del sindacalismo e della retorica ministeriale, politica ed economica, i docenti si sono a più riprese mostrati incapaci di elaborare una visione strategica, attestandosi spesso e volentieri su posizioni tattiche volte a difendere uno status quo ormai reso sempre più fragile e indifendibile a causa di attacchi esogeni ed endogeni. Attacchi tra i quali vanno annoverati, nel primo caso, l’aggressione neoliberale e confindustriale alla scuola, complice la politica; nel secondo, il corresponsabile cedimento di molti docenti a una logica di tipo aziendalistico, a una meritocrazia di matrice concorrenziale e a una concezione professionalizzante del ruolo docente, che alla lunga ha finito con l’avvicinare gli insegnanti più a professionisti in vendita, che a figure svincolate da ogni logica di profitto e per questo capaci di agire e promuovere un sapere di tipo critico.
Ultimo caso, in ordine di tempo, la reazione per niente unitaria del corpo docente di fronte all’introduzione dell’Educazione Civica, presentata nelle linee guida ministeriali come disciplina trasversale rispetto ai saperi tradizionali. Reazione che non è al momento riuscita a cogliere gli aspetti più insidiosi di questa innovazione.
Una breve premessa: l’Educazione Civica è stata introdotta con la legge 92 del 2019. Questa legge recepisce però istanze presenti da tempo nell’agenda politica, che si ricollegano in parte alle trasformazioni introdotte dalla legge 107 “Buona scuola”, una delle riforme più neoliberali degli ultimi decenni per via della centralità affidata da tale legge alla didattica per competenze, all’alternanza scuola lavoro[i], alla valutazione delle competenze di cittadinanza. Queste trasformazioni si sono innestate su quel progressivo processo di marginalizzazione degli insegnanti già in atto da almeno un ventennio, e cioè dall’apparizione della riforma Berlinguer, la prima ad aver inserito una valorizzazione del lavoro degli insegnanti sulla base del produttivismo e dell’adeguamento a una sempre più pervasiva burocratizzazione della scuola[ii]. Il risultato di trent’anni di riforme è quella trasformazione in senso impiegatizio del ruolo docente ormai sotto gli occhi di tutti, trasformazione andata di pari passo con la destrutturazione della scuola stessa, dei suoi contenuti e del modo di trasmetterli. A tutto questo si deve aggiungere l’ingresso nella scuola di esperti provenienti dal territorio, invitati dalle istituzioni scolastiche stesse che ne hanno sempre più facilitato e promosso l’attività, incuranti – o forse sarebbe meglio dire compiaciute, grazie a dirigenti a proprio agio nel loro nuovo ruolo di manager – del fatto che spesso appaiano più legati a interessi del settore privato che altro. Il peso che ha avuto la presenza di tali figure nel marginalizzare il ruolo intellettuale dei docenti deve ancora essere oggetto di seria riflessione da parte del corpo docente stesso, spesso ingenuamente o peggio acriticamente imbrigliato in una scuola che procede per progetti e attività extracurricolari e che porta i docenti a non cogliere, nell’ansia di promuovere un progetto che dia visibilità, come questo sia il mezzo perfetto per presentare i docenti come elementi non indispensabili alla formazione degli alunni.
Queste intromissioni di attori estranei al mondo scolastico si sono condensate nella recente ideazione e strutturazione della cosiddetta “comunità educante”, sintesi perfetta di aziendalismo e cultura neoliberale prestata alla scuola: definita come “l’insieme degli attori territoriali che si impegnano a garantire il benessere e la crescita”[iii] degli studenti, essa è composta da tutti gli attori che “gravitano attorno alla scuola” ma che in realtà con la scuola possono avere ben poco a che fare[iv]. Soprattutto con quegli aspetti della scuola che nel tempo l’hanno resa luogo di gioco, tempo libero (scholé), gratuità e costruzione di sapere critico non finalizzato all’attività lucrativa, performante e utilitaristica. Questa visione dell’educazione 3.0 si basa sulla progressiva delegittimazione della scuola, perché considerata ormai inefficace, vecchia e retrograda, incapace di rispondere con le sue competenze alle richieste avanzate dalla società in trasformazione, dal mondo dell’industria e del lavoro, come ebbe già a dichiarare l’attuale Ministro dell’Istruzione Bianchi[v]. Ecco perché, secondo una certa politica, diventa essenziale assegnare agli attori territoriali (e quindi privati) il predominio sul processo formativo ed educativo delle giovani generazioni, puntando su quegli aspetti ormai irrinunciabili della pedagogia neoliberale: il digitale, strumento innovativo da preferire alla lezione frontale tradizionale e “noiosa”[vi]; l’inglese, già presentato dalla “Buona scuola come lingua di insegnamento delle discipline non linguistiche (CLIL)[vii]; la strutturazione di un legame sempre più stretto tra scuola, enti territoriali e il mondo del lavoro, fine praticamente esclusivo del processo educativo, vista la centralità assegnata anche quest’anno alle attività dei Percorsi per le Competenze Trasversali e dell’Orientamento (PCTO) nell’Esame di Maturità[viii]. E questo a fronte della vergognosa cancellazione degli scritti, sacrificati per la seconda volta con la giustificazione dell’emergenza pandemica da Covid19 e sostituiti dall’elaborazione di un documento pluridisciplinare da realizzare individualmente da parte degli studenti.
Di fronte a questo quadro sconfortante, che procede almeno da un trentennio e cioè dall’avvento della riforma Berlinguer, i docenti non hanno saputo porre un argine reale a queste pratiche e al dilagare dell’ideologia neoliberale tra le mura scolastiche, figurarsi nella società. E questo soprattutto perché, nell’ottica di chi scrive, manca una visione strategica della scuola, che renda capaci di ragionare su ciò per cui si deve lottare, passando attraverso una serie di battaglie tattiche di breve periodo.
Per quanto riguarda l’Educazione Civica, in particolare, quello che il corpo docente sembra non aver compreso è l’obiettivo di introdurre una nuova materia capace di intervenire in modo massivo sulla rimodulazione dei contenuti disciplinari attraverso una loro estesa semplificazione, sottraendo ore al monte ore annuale delle discipline tradizionali e puntando sulla narrazione dell’Educazione Civica come disciplina “trasversale” alle altre discipline, capace di vivificare i saperi tradizionali, di far emergere gli elementi etici in essi racchiusi e ricollegarli ai principi cardinali della comunità rappresentati dalla Carta Costituzionale. Tutto questo evitando l’incubo politico dei costi aggiuntivi (leggi: stipendi in più) legati alla sua realizzazione[ix]. Cosa che rende quantomeno difficile e contraddittorio presentare poi l’Educazione civica come disciplina fondamentale.
Una risposta possibile a questa situazione sarebbe innanzitutto quella di rivendicare un aumento di ore di lezione, soprattutto per le materie umanistiche e principalmente per quelle più vicine a tematiche di natura etica e politica, come la filosofia; e contemporaneamente chiedere l’eventuale creazione di uno spazio aggiuntivo legato allo studio del diritto e dell’economia, da coordinare – questo sì – con i valori espressi dalle discipline storiche, filosofiche e artistico-letterarie, in modo da promuovere una conoscenza del diritto e dell’economia nei loro tratti storico-antropologici e sottrarre i loro contenuti a una deriva astratta e, come è facile temere, strettamente in linea con quel pensiero economicista/neoliberale che ha tutto l’interesse a trasformare la scuola in azienda di formazione finalizzata alla produzione di capitale umano, obbediente alle regole, flessibile e resiliente, da impiegare nel mondo lavorativo[x].
A questo si dovrebbe aggiungere: la difesa della dignità disciplinare; il recupero della fiducia nei saperi tradizionali nel promuovere la natura umana e la difesa degli stessi da parte dell’intero corpo docente; il rifiuto alla contitolarità/sudditanza legata alla presenza di tutor individuati tra docenti di diritto ed economia[xi]; la presenza nella scuola di professionisti ed esperti di altri settori in sostituzione dei docenti[xii].
Si tratta dunque di recuperare, o meglio immaginare, una visione strategica: strategia che passa, innanzitutto, attraverso una rivendicazione dell’aumento dello spazio dedicato all’approfondimento disciplinare, in termini di complessità e profondità nella conoscenza dei vari contenuti dei saperi tradizionali, il che vuol dire tempo: tempo per affrontare lentamente lo studio, rifiutando la logica del tutto e subito. Tempo per perdere tempo, lasciando spazio al gioco e alla creatività, rifiutando la logica dell’utilità e della produttività. Tempo per creare riti e spazi che siano elementi funzionali alla creazione della comunità e che ruotino attorno alla lezione come momento di formazione basato sull’exemplum, sulle verifiche viste come momento di prova e sull’esame di Maturità visto come indispensabile rito di passaggio. Si tratta di rifiutare la trasversalità fine a se stessa, laddove intesa come abborracciamento tra i vari saperi sulla base di vuoti nodi concettuali; del rifiuto della trasversalità quando riveste la funzione di cavallo di troia dell’ideologia economica neoliberale, quindi votata a costruire una relazione impropria tra scuola e mondo lavorativo, che vede la scuola passare dall’essere luogo deputato all’educazione a luogo finalizzato alla formazione; rifiuto delle attività di PCTO come attività centrali nel percorso educativo dell’allievo, tanto centrali da risultare propedeutiche all’ammissione dell’Esame di Maturità; rifiuto delle manipolazioni didattiche condotte sull’onda dell’economicismo neoliberale, quali l’insegnamento in lingua straniera di contenuti disciplinari non legati alle lingue straniere (CLIL, Content and Language Integrated Learning); recupero della dignità dei contenuti disciplinari, anche nel senso di rivendicazione dell’importanza degli scritti e in particolare dello scritto di lingua italiana all’Esame di Maturità, la cui cancellazione a fronte del mantenimento di educazione civica e PCTO segna la volontà di screditare la valenza disciplinare e contenutistica.[xiii] A questo andrebbe aggiunto però anche un recupero della dignità del docente, che non deve vergognarsi di definirsi un intellettuale, capace di in-segnare, di lasciare un segno nella formazione culturale e umana dei propri allievi.
Si tratta però di chiedersi, soprattutto: che tipo di Educazione Civica è quella di cui abbiamo bisogno? Da più parti si è infatti auspicata la reintroduzione della materia come possibile argine alla evidente erosione dell’educazione in sé: Educazione Civica come argine alla maleducazione civica. Questo a maggior ragione in un clima politico come quello attuale nel quale la progressiva desacralizzazione della politica ha portato a una intrusione della volgarità e del triviale nel discorso e della pratica politica stessa. Ma se questo è indubbiamente vero, in realtà sembra trattarsi più che altro del sintomo evidente di una malattia molto più profonda e strisciante, che è direttamente conseguente alla diffusione della cultura neoliberale e alla sua intrinseca insistenza sull’aspetto narcisistico dell’io e sulla dimensione desiderante solipsistica della soggettività, che apre inevitabilmente a una forma di esistenza incentrata sulla assenza di un limite a ciò a cui l’individuo può avere accesso[xiv]. Per quanto riguarda la politica, la perdita della sacralità in tale ambito si riflette in una pratica tutta schiacciata sull’assenza di cura e di rispetto per le forme e per i riti, a cui si aggiunge l’utilizzo di una retorica che si estrinseca attraverso la forma del commercio promozionale che di fatto non fa altro che far assomigliare la dialettica politica alla dialettica di mercato.
Se si vuole effettivamente riflettere su come arginare quella che, a tutta evidenza appare una progressiva forma di imbarbarimento civico diffuso, senza per questo risolversi a cedere a facili ricette neoliberiste, si dovrebbe piuttosto considerare se e quanto la conoscenza delle forme del diritto in sé, così come la loro semplice trasmissione, siano effettivamente in grado di realizzare il diritto in termini concreti, cioè di dare atto a una trasformazione reale della società, ad opera di chi il diritto lo ha appreso a scuola. Imparare il diritto e gli articoli della Costituzione e riflettere sulla sua natura come fondamento del vivere civile possono essere sufficienti a riplasmare attivamente la società e a dare via a una realizzazione concreta del vivere civico, pur in assenza di altri e più fondanti momenti di incontro e costruzione sociale? Per chi scrive questa rappresenta proprio la via principe per disinnescare la dimensione civica e ridurla a semplice adesione personalistica a una astratta eticità.
Nel lungo percorso che ha portato la politica alla sua progressiva desacralizzazione e all’emergere dell’economico come nuova sfera sostitutiva del sacro[xv], la dimensione civico-politica del neoliberalismo è stata quella di delineare una appartenenza politica all’orizzonte della governance, amministrazione burocratico-performativa dell’esistente per conto dell’economico[xvi]. Proprio per questa ragione, suscita perplessità l’introduzione dell’Educazione Civica nel percorso di formazione scolastico: un elemento stridente, almeno in apparenza, rispetto a quanto appare legato alla cultura neoliberale, col suo culto per la soggettività, l’egotismo e la centralità dell’Io costituito su caratteri di assoluto solipsismo. L’Educazione Civica sembra infatti fare riferimento sulla carta a un recupero della dimensione comunitaria e sociale dei valori e delle pratiche etico morali afferenti a una collettività, laddove invece ci troviamo nel concreto – e questo anche nella scuola – a sperimentare una costante retorica atta a promuovere la dimensione postmoderna del soggetto, il suo inserimento in un contesto di solitudine globale e globalizzata, l’avanzamento dei processi di soggettivazione e differenziazione identitaria volti a coltivare una pratica di “liquefazione sociale”[xvii] anche e soprattutto grazie alla pervasività dei mezzi digitali[xviii].
Eppure, a ben guardare, questo inserimento appare del tutto funzionale alla trasformazione in salsa neoliberale della scuola e, per estensione, della comunità stessa: soprattutto se si considera ancora la scuola – e su questo il neoliberalismo non si sbaglia – come elemento portante della società, in quanto luogo di costruzione dell’identità e della coscienza dell’individuo insieme all’ambiente famigliare. Non ci si deve infatti ingannare: difficilmente troveremo, nelle linee guida che il MIUR ha stilato[xix], qualche reale riferimento alla virtù civica, intesa come pratica di conoscenza e apprendistato della società di quegli elementi culturali fondanti la sua stessa esistenza. Ciò che troveremo sarà invece un costante riferimento a un civismo astratto, fondato su una asettica introiezione delle regole comunitarie europee, dei contenuti dell’Agenda 2030 e dei principi costituzionali, sganciati da ogni orizzonte storico-critico, assunti a principio trascendente/fondante la comunità stessa in forza esclusiva del diritto[xx].
Quello che a chi scrive sembra essere un punto centrale nel dirimere la questione, è la sparizione dell’ethos e dei riti che di esso si nutrono e che reggono la dimensione dell’etica civica oltre che intessere le forme del diritto. Se manca l’ethos inteso come orizzonte valoriale condiviso dalla comunità, che si realizza attraverso una ritualità fatta di pratiche formali ed esercizi di apprendistato sociale ripetuti, non è possibile che si realizzi la legge, perché la legge non è altro che espressione astratta e formalizzata in termini linguistico-retorici di quello spazio rituale e valoriale[xxi].
È su questa strada allora che dovremmo riflettere sulla necessaria elaborazione di una Educazione Civica che sappia essere reale recupero di quegli elementi caratterizzanti l’appartenenza storico-culturale e valoriale che determinano l’ethos di una comunità, e cioè l’insieme di quegli exempla che informano le leggi e che trasformano le leggi stesse nella manifestazione di quegli astratti principi, che sono il collante comunitario, all’interno delle forme reali del diritto.
Intesa in questo senso l’Educazione Civica non può semplicemente coincidere con l’esteriorità della Legge e la sua vuota e mnemonica interiorizzazione morale, secondo una pratica da pedagogia spicciola; e nemmeno con il solito cedimento alla retorica neoliberale incentrata sulla necessità produttiva. La Legge non è infatti che semplice involucro esteriore di qualcosa di più profondo, incarnazione di un ethos comunitario che attraverso la Legge perpetua se stesso. La Legge esiste perché esiste la comunità di cui è espressione e che attraverso le sue ritualità celebra e ricelebra se stessa. La Legge non istituisce di per sé alcuna comunità: è questo l’errore del legislatore che, introducendo l’educazione civica come disciplina, considera la comunità come espressione dell’obbedienza a una Legge o a una serie di leggi. Quasi che la Legge fosse di per sé sufficiente a riprodurre la comunità.
La Legge da sola comunica senza comunità: esprime il proprio contenuto, che però riecheggia vuoto e inascoltato se la comunità che era in grado di raccogliersi dietro di esso si è persa, nel frattempo, frantumata dal pensiero neoliberale che di fatto prospera sulla cancellazione di tutto ciò che permette la permanenza nel tempo (e quindi la comunità stessa come orizzonte di appartenenza e senso)[xxii], rincorrendo uno sterile piacere legato alla gratificazione egotica dell’Io.
Se è indubbiamente vero che la Carta Costituzionale rappresenta i valori della nostra comunità, questo però deriva dal fatto che essa appare il precipitato di quei valori, tradizioni e principi associativi e politici che animavano il tessuto sociale a cui appartenevano i padri costituenti. È da quei valori che discende la Carta, e non la Carta a determinare i valori in sé: si tratta di riscoprire la dimensione storica, filosofica, di ricerca politica, morale, artistica e scientifica che animò la stesura della Carta e la sua consegna al futuro come memorandum morale e orientamento politico. E questo può avvenire proprio attraverso la cura della conoscenza approfondita dei contenuti disciplinari che afferiscono a tali tematiche e limitando la presenza pervasiva del digitale, interiorizzata anche nel quadro dell’Educazione Civica[xxiii] con l’attenzione in esso riservata alla realizzazione di pratiche digitali e la finalizzazione di interi spazi didattici all’esercizio della retorica digitale; che, anziché contribuire all’esercizio consapevole della propria cittadinanza, sembra andare nella pericolosa direzione di una politica di sciame[xxiv], basata su individui chiusi nella loro nuvola moralistica e individualistica di soggetti isolati, connessi solo attraverso una pratica di comunicazione digitale che non crea comunità perché isola i soggetti sottraendoli all’esercizio rituale della vita per relegarli dietro a uno schermo.
Di che Educazione Civica abbiamo dunque bisogno? Ciò che ci serve è una educazione al recupero dell’aspetto storico-rituale delle forme sociali, pratica attraverso cui passa anche il recupero di una scuola incentrata sull’educazione alla complessità, alla attenzione a quegli ambiti della vita che più appaiono capaci di indicare l’orizzonte di senso dell’esistenza, come gli insegnamenti umanistici: e questo non per impoverire gli insegnamenti scientifici, ma per ricordare che l’aspetto quantitativo dell’esistenza può acquisire senso solo in relazione a un orizzonte di tipo ideale-qualitativo.
“Nostra autem res publica non unius esset ingenio sed multorum, non una hominis vita sed aliquot constituta saeculis et aetatibus”[xxv]. Non il diritto astratto, non la regola, non l’individuo, ma la storia, la cultura, la ritualità come esercizio di forme condivise di esistenza che fanno la comunità: questa è l’Educazione Civica di cui abbiamo bisogno, una visione di ciò che la scuola deve essere, ciò di cui la scuola ha bisogno, di cui la scuola può nutrirsi e nutrire la società stessa. Recuperare una giusta strategia può essere d’aiuto.
[i] Cfr art 1 comma 28 legge 107/15 e sulla valutazione e competenze decreto legislativo 13 aprile 2019 n. 62, art. 1 comma 1 e seguenti
[ii] Cfr D. Generali, Dal progetto ’92 alla Buona scuola, in AA.VV. La scuola dell’ignoranza, a cura di S. Colella, D. Generali, F. Minazzi, Mimesis, Milano – Udine, 2019, pag. 30-31
[iii] https://www.savethechildren.it/blog-notizie/cosa-e-una-comunita-educante-e-come-costruirla-7-suggerimenti
[iv] Per una riflessione sulle criticità rappresentate dalla Comunità Educante, cfr. https://www.roars.it/online/la-fiera-delle-educazioni/
[v] “È venuto anche il momento di domandarsi se le competenze offerte dalle nostre scuole siano adeguate a questa nostra epoca, così segnata da trasformazioni profonde non solo delle imprese, ma della vita quotidiana. In altre parole occorre domandarsi se la scuola che ha chiuso i battenti in febbraio fosse rispondente ai bisogni di un Paese che prima del coronavirus aveva profondi problemi di sviluppo e crescente divaricazione fra regioni e fra gruppi sociali”. Così l’attuale ministro Patrizio Bianchi sul quotidiano Avvenire, 22 luglio 2020, intervento consultabile qui: https://www.cislscuola.it/index.php?id=3219&tx_ttnews%5Btt_news%5D=31827&cHash=a43a0cb94032d92ee12dbd9a1ab7fe62
[vi] Così si è espressa l’ex ministro Lucia Azzolina durante un’intervista rilasciata presso la sede di Confindustria di Roma, 16 ottobre 2020 https://video.corriere.it/politica/azzolina-banchi-rotelle-non-fanno-annoiare-studenti-didattica-frontale-non-funziona-piu/58ef307e-0fda-11eb-8d21-ff516c396863
[vii] Per quanto riguarda l’introduzione del CLIL confronta D. Generali, Dal progetto ’92 alla Buona scuola, in AA.VV. La scuola dell’ignoranza, a cura di S. Colella, D. Generali, F. Minazzi, Mimesis, Milano – Udine, 2019, pag. 45
[viii] In merito, cfr quanto contenuto nell’ordinanza relativa all’Esame di Maturità 2021, nello specifico art. 17, comma 2, punti b. c. https://www.miur.gov.it/documents/20182/5407202/OM-Esami+di+Stato+nel+secondo+ciclo+di+istruzione+per+l-anno+scolastico+20202021.pdf/087431c4-6103-202c-29c1-26f250044730?t=1614865421465
[ix] cfr. Legge 92/2019 note art. 2 All’attuazione del presente articolo si provvede entro i limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.». e art. 13 “clausola di invarianza finanziaria” https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/08/21/19G00105/sg
[x] Cfr. quanto proposto da Confindustria in Il coraggio del futuro, Italia 2030 – 2050, pag. 303 e seguenti https://www.confind.emr.it/news/il-coraggio-del-futuro-la-visione-dellitalia-2030-50-secondo-confindustria e sulle soft skills (flessibilità e adattabilità e quanto siano di interesse per il mondo industriale) cfr. https://www.repubblica.it/cronaca/2020/11/12/news/soft_skills_come_la_scuola_puo_insegnare_le_competenze_del_futuro-274148533/ e https://www.tuttoscuola.com/soft-skills-cosa-inserirle-nella-tua-programmazione-didattica/
[xi] Come tutor, la normativa fa esplicito riferimento alla figura dei docenti di discipline giuridiche, ove presenti: cfr https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/ALL.+Linee_guida_educazione_civica_dopoCSPI.pdf/8ed02589-e25e-1aed-1afb-291ce7cd119e?t=1592916355306 pag. 3 sez. “La contitolarità dell’insegnamento e il coordinamento delle attività”
[xii] Pensare, come molti docenti fanno, che il problema dell’Educazione civica consista semplicemente nell’aumento del lavoro burocratico e che quindi sia possibile risolverlo attraverso una equa retribuzione, in realtà produce il rischio di trovarsi poi invischiati in quel meccanismo premiale già da tempo introdotto nella scuola e che prevede un aumento stipendiale tramite bonus riconosciuti in contrattazione di istituto per quei docenti capaci di presentarsi come figure di sistema, proattive e con di spirito di imprenditorialità,in grado di innovare la pratica didattica, contribuire alla gestione e coordinamento del processo formativo e didattico (ed è quanto previsto anche dalla introduzione della cosiddetta middle management (proposta per la prima volta dalla ministra di Lucia Azzolina). Una concezione del ruolo docente che gioca tutta a favore delle istituzioni e della politica neoliberale, ovviamente, nel suo essere ulteriore elemento divisivo.
[xiii] Cosa tra l’altro già evidenziata dall’ex ministro Luigi Berlinguer nel suo Le urgenze della scuola secondaria, in C. Pontecorvo, A. Fatai, A. Stancarelli (a cura di), è tempo di cambiare. Nuove visioni dell’insegnamento/apprendimento nella scuola secondaria, Valore Italiano, Roma 2016, pp. 27-35. Cfr. D. Generali, Dal progetto ’92 alla Buona scuola, in AA.VV. La scuola dell’ignoranza, a cura di S. Colella, D. Generali, F. Minazzi, Mimesis, Milano – Udine, 2019, pag. 33
[xiv] Confrontare in tal senso sia di B. C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale, ed. Nottetempo, Milano, 2013 e dello stesso autore La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, Nottetempo, Milano, 2021, oltre a A. Zhok, Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente, Meltemi, Milano, 2020
[xv] Si confronti su questo tema Luigino Bruni, Il capitalismo e il sacro, Vita e Pensiero editore, Milano, 2019
[xvi] Cfr. L. Boltansky, E. Chiappello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano – Udine, 2014
[xvii] Crfr. A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano, 2020
[xviii] B. C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale, ed. Nottetempo, Milano, 2013, op. cit.
[xix] https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/ALL.+Linee_guida_educazione_civica_dopoCSPI.pdf/8ed02589-e25e-1aed-1afb-291ce7cd119e?t=1592916355306
[xx] Cfr legge 92/2019 art. 3 https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/08/21/19G00105/sg
[xxi]Questa concezione della ritualità come elemento che segna lo spazio dell’appartenenza va proprio nella direzione già indicata da Byung Chul Han (B. C. Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, Nottetempo, Milano, 2021), che vede nel rito quell’elemento che crea la comunità senza comunicazione: il rito appare cioè come “il significante (l’involucro)” che “conta più di quel che indica, cioè il significato, il contenuto”.
[xxii] Ibidem, pag. 212: “il capitalismo si fonda sull’economia del desiderio. Per questo non è compatibile con la società rituale. L’intensità delle forme rituali rimanda invece a una passione per le regole che genera tutt’altra forma di piacere”.
[xxiii] “Alla cittadinanza digitale è dedicato l’intero articolo 5 della Legge, che esplicita le abilità essenziali da sviluppare nei curricoli di Istituto, con gradualità e tenendo conto dell’età degli studenti. Per “Cittadinanza digitale” deve intendersi la capacità di un individuo di avvalersi consapevolmente e responsabilmente dei mezzi di comunicazione virtuali. Sviluppare questa capacità a scuola, con studenti che sono già immersi nel web e che quotidianamente si imbattono nelle tematiche proposte, significa da una parte consentire l’acquisizione di informazioni e competenze utili a migliorare questo nuovo e così radicato modo di stare nel mondo, dall’altra mettere i giovani al corrente dei rischi e delle insidie che l’ambiente digitale comporta, considerando anche le conseguenze sul piano concreto. L’approccio e l’approfondimento di questi temi dovrà iniziare fin dal primo ciclo di istruzione: con opportune e diversificate strategie, infatti, tutte le età hanno il diritto e la necessità di esserne 3 correttamente informate. Non è più solo una questione di conoscenza e di utilizzo degli strumenti tecnologici, ma del tipo di approccio agli stessi; per questa ragione, affrontare l’educazione alla cittadinanza digitale non può che essere un impegno professionale che coinvolge tutti i docenti contitolari della classe e del Consiglio di classe”.
[xxiv] B. C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale, ed. Nottetempo, Milano, 2013, op. cit.
[xxv] Con queste parole, secondo la testimonianza di Cicerone, Catone si riferì a proposito dell’istituzione repubblicana romana. Cfr. Cicerone, De Re Publica, II, 1
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