Martedì 22 maggio, mentre in Asia orientale si ricordava la nascita di Buddha, il presidente americano Donald Trump ha ricevuto il collega sudcoreano Moon Jae In a Washington per discutere del summit con il leader nordcoreano Kim Jong Un. Moon sta lavorando come mediatore nella difficile trattativa tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord e il suo viaggio doveva servire a dissipare ogni tensione in seguito alle fibrillazioni della settimana scorsa che avevano fatto temere per il vertice previsto il 12 giugno a Singapore.

Dopo l’incontro con Moon nello Studio Ovale, Trump ha tuttavia annunciato che il summit potrebbe essere posticipato, se non addirittura cancellato. Dietro le quinte il team presidenziale continuerà a preparare il meeting con Kim al quale Trump ha garantito di restare al potere anche dopo la stipula di un accordo sulla denuclearizzazione. «Mi farò garante della sua sicurezza – ha affermato Trump – Kim sarà al sicuro e il suo Paese sarà ricco e prospero». In questo modo il presidente ha tentato di allontanare lo spettro della sorte toccata al Colonnello libico Gheddafi, ucciso nel 2011 dopo aver accettato, otto anni prima, il disarmo senza concessioni. Era stato il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton a invocare il modello di denuclearizzazione libico per la Corea del Nord, guadagnandosi l’astio di Pyongyang. Lo stesso Trump aveva poi affermato: «Il modello della Libia sarà applicato, molto probabilmente, se non ci sarà un alcun accordo».

Il capo della Casa Bianca con Moon è tornato quindi a insistere sull’abbandono dell’atomica da parte della Corea del Nord, argomento su cui si era espresso in mattinata anche il vice presidente. Mike Pence aveva infatti ribadito il solito mantra di Washington: nessuna concessione da parte americana prima che Pyongyang inizi la sua «verificabile e irreversibile denuclearizzazione».

Chung Eui-yong, capo dell’Ufficio di Sicurezza Nazionale della Casa Blu, a bordo dell’Air Force One che lo stava portando a Washington, aveva provato a rassicurare i giornalisti: «Il summit si farà al 99,9%». Chung ha anche contraddetto un articolo del New York Times secondo cui Trump nei giorni scorsi avrebbe pressato gli alleati chiedendo ripetutamente loro se tenere o no l’atteso meeting. Il New York Times aveva descritto un Trump nervoso e frenetico che sabato 19 maggio avrebbe telefonato al presidente sudcoreano Moon perché non riusciva ad aspettare di vederlo appena pochi giorni dopo. A Moon Trump avrebbe esternato le sue preoccupazioni: «Perché – gli avrebbe chiesto – Kim ora nega quello che aveva promesso il 27 aprile a Panmunjeom?».

Kim Jong Un, irritato dalle esercitazioni militari congiunte tra americani e sudcoreani, nonostante l’assenza dei B-52, aveva minacciato di annullare il vertice con il presidente USA, mentre il capo della delegazione nordcoreana aveva affermato che la Corea del Nord non avrebbe rinunciato alle sue capacità nucleari in cambio dei soli aiuti economici promessi dagli Stati Uniti. Il problema adesso è che il leader nordcoreano potrebbe intercettare l’irrequietezza del presidente americano, desideroso più che mai di tenere il summit, fare concessioni e negarle in futuro.

Il timore dell’Amministrazione USA che il summit del 12 giugno a Singapore porti a un grande imbarazzo politico è sempre più pressante. Inoltre, la decisione di Washington di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano ha aumentato i rischi del negoziato con Pyongyang. Venendo meno alla parola data, Trump ha dimostrato che gli Stati Uniti non sono più un negoziatore attendibile.

I dubbi sul summit aumentano se si pensa che nessuno nell’attuale Amministrazione statunitense ha dimestichezza nel trattare con la Corea del Nord. A cominciare dal nuovo consigliere per la sicurezza nazionale Bolton, che cerca di colmare il gap confrontandosi ogni giorno con la sua controparte a Seoul. Secondo Bolton, Trump dovrebbe utilizzare il summit di Singapore per dire in modo chiaro che la Corea del Nord deve rinunciare interamente al programma nucleare, prima ancora di vedere un alleggerimento delle sanzioni economiche. Il Sud, al contrario, continua a invocare l’approccio più tradizionale, secondo cui le concessioni dal Nord faranno seguito al graduale alleggerimento delle sanzioni internazionali.

I veri esperti di Corea del Nord, come Joseph Yun, coordinatore del Dipartimento di Stato che si è dimesso pochi mesi fa, non hanno nessun dubbio: se Trump si aspetta una rinuncia al nucleare totale senza dare niente in cambio, la possibilità di arrivare a un accordo è assolutamente irrealistica. Lo schema da seguire, a detta di Yun, sentito sempre dal New York Times, dovrebbe essere un piano di rinuncia all’atomica da fare in sei mesi con un approccio step-by-step, perché – come ha spiegato – non c’è altra via.

Secondo fonti dell’intelligence americana, l’élite nordcoreana non sarebbe così favorevole alla rinuncia del nucleare e di ogni conseguente garanzia di deterrenza e sicurezza che l’atomica offre, nonostante il chiaro interesse mostrato da Kim a un accordo vantaggioso per le sorti dell’economia del Paese. Kim si aspetta, però, anche un ridimensionamento della presenza militare americana in Corea del Sud.

Secondo James Clapper, direttore dei servizi nazionali di intelligence dal 2010 al 2017, gli Stati Uniti continuano a sbagliare nel trattare con quello che fino a poco tempo fa era chiamato “il regno eremita” perché non capiscono l’associazione tra il programma nucleare e la garanzia di sopravvivenza del regime. Nessun successo sarà conseguito se gli americani continueranno a chiedere il disarmo prima di ogni discussione. Per Clapper, gli USA dovrebbero disegnare una road map che preveda il graduale ritiro delle forze dalla penisola coreana, mentre la Corea del Nord dovrebbe ridurre la presenza lungo la zona demilitarizzata, inclusi l’artiglieria e i missili puntati su Seoul.

All’insicurezza sui negoziati si aggiungono le violazioni internazionali. Un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha inviato una lettera a 24 tra le maggiori compagnie petrolifere al mondo per chiedere loro informazioni sui metodi usati per ostacolare l’acquisto di greggio e petrolio dalla Corea del Nord. La lettera chiedeva quali misure tali compagnie stanno portando avanti per impedire che i carichi di petrolio finiscano nelle cisterne nordcoreane, aggirando così gli obblighi previsti dalle sanzioni internazionali. In un recente rapporto, l’Onu aveva dimostrato che spesso tali obblighi vengono disattesi.