“Poor Things!” Finalmente un femminismo di classe!
di SIMONE GARILLI
Impiego di solito qualche giorno a comprendere il significato profondo di un’opera cinematografica. “Poor Things!” (traduzione italiana: “Povere creature!”), del regista greco Yorgos Lanthimos, non ha fatto eccezione. In un momento qualsiasi di una giornata qualsiasi, molti fili si sono riannodati, e mi hanno consentito di dare un senso più o meno compiuto alle tante scene apparentemente surreali che avevo osservato, con un misto di sorpresa e scetticismo, qualche sera prima. Del resto, se l’opera d’arte si rivelasse immediatamente, smetterebbe subito di essere tale, perché si limiterebbe a parlare al nostro Io più conscio, quello ben piantato nel qui e ora, imprigionato dall’infuriare di stimoli, notizie e parole d’ordine diffuse dal centro del sistema sociale e poi riciclate senza fantasia dalla maggior parte di noi, in un ritorno stanco e stordito dell’uguale.
Che il film in questione avesse da dire qualcosa di diverso, non risolvendosi nella semplice ripetizione del più classico romanzetto emancipatorio piccolo borghese, si poteva ipotizzare sin dall’inizio, non fosse altro che per la scelta disorientante del bianco e nero e per l’ambientazione, calata in un tempo storico non meglio definito. Non che questo sia di per sé sufficiente. Di tentativi cinematografici eretici nella forma ma ordinari nella sostanza ne sono piene le sale, anche di recente. Basti pensare al tentativo caricaturale di restituire la società patriarcale firmato da Paola Cortellesi con “C’è ancora domani”, eccellente prova tecnica, di recitazione e scenografia, dalla trama ispirata, arricchita appunto dalla scelta del bianco e nero, ma del tutto priva di qualsivoglia alterità culturale rispetto alla narrazione dominante.
E il primo confronto che emerge quasi spontaneo a un osservatore italiano dalla visione di Poor Things! è proprio quello con il film della Cortellesi, perché Poor Things! è un film femminista, ma lo è in un senso radicalmente differente. Innanzitutto, ha il buon gusto di non farlo pesare, di non ostentare il suo messaggio di fondo, ciò che appunto distingue l’arte dalla propaganda. In secondo luogo, e più importante, ad entrare in scena è finalmente un femminismo di classe, che individua nel sistema di pensiero e potere capitalistico l’oggetto su cui far valere la critica e l’azione, e non invece l’ostilità al genere e al potere maschile, come se entrambi fossero congelati in un eterno e indifferenziato machismo interclassista.
La pellicola tratta della storia di una ragazza suicida a cui viene impiantato, da un geniale e folle chirurgo (William Dafoe), il cervellino dell’infante ancora vivo che portava in grembo. L’esperimento riporta alla vita una donna-bambino, che ben presto arriva a maturare l’intenzione di esplorare l’esterno, fugge dalla sua vita predeterminata dopo l’incontro con un avvocato libertino, gira l’Europa e fa esperienza della prostituzione, fino a quando, dopo varie vicissitudini, decide di tornare a casa. È qui che sul letto di morte il suo creatore le rivela il mistero all’origine della sua vita e l’ex marito la porta a rivivere per qualche momento la durezza dell’esistenza precedente, provocando in lei, al posto di un secondo suicidio, una ribellione catartica.
È come un cerchio che non si chiude. Il ritorno dell’uguale, rappresentato dal marito oppressivo, viene superato da un atto creativo, che consiste nel ribaltare le gerarchie trasformando le costrizioni sociali in libertà. È chiaro che una simile conclusione del racconto potrebbe ben adattarsi a un messaggio puramente individualista, come da dettame del femminismo liberal oggi imperante. Il punto dirimente, però, è come si arriva all’atto liberatorio, ossia attraverso quali passaggi, incontri ed esperienze la protagonista impersonata da Emma Stone, Bella, costruisce la sua soggettività emancipata. E qui l’opera si discosta potentemente dalla mediocrità.
Perché in fondo il vero protagonista è il cervellino dell’infante, che consente a una donna adulta nella sua corporeità di fare esperienza del mondo al riparo dalle sovrastrutture del suo tempo. L’eco del fanciullino pascoliano, attraverso il quale è possibile intuire poeticamente l’essenza del reale affiancando alla razionalità la potenza conoscitiva della meraviglia, è forte. Ed è per questo che l’epoca storica in cui si svolgono gli eventi è lasciata imprecisata, con richiami futuristici che si intrecciano ad architetture vittoriane, in una esplosione di colori che fa propendere per l’onirico. Il suggerimento implicito è che una liberazione è sempre possibile, qualunque sia il sistema sociale che ingessa le nostre possibilità espressive. Eppure, a questa critica generale del potere, se ne affianca man mano una più precisa e tagliente verso il sistema di oppressione capitalistico, preso sempre più di mira da Bella insieme all’accumularsi delle sue esperienze fanciullesche, e in quanto tali pure, disintermediate, essenziali.
Secondo il modello del romanzo di formazione, Bella attraversa diverse fasi di crescita.
La prima è quella erogena, nella quale, ancor prima di partire per il suo viaggio, scopre il piacere fisico, prima con la masturbazione e poi per mezzo della sessualità. L’avvocato libertino che libera la protagonista dalle mura di casa e l’accompagna per un bel pezzo nelle sue esplorazioni, è inchiodato a questa fase e non ha gli strumenti per superarla, come è testimoniato dalla sua incredula impotenza non appena scopre di essersi innamorato di Bella. Nello sperimentare quella nuova sensazione, l’amore, l’avvocato se ne farà travolgere, fino ad allontanarsi impaurito dalla sua amata convincendosi che sia una figura diabolica. La prima forma di libertà messa sotto accusa, dunque, risulta essere proprio quella strettamente individualistica, condannata alla ripetizione sempre uguale del consumo fine a se stesso (di persone, oggetti ed esperienze) e incapace di gestire altre forme relazionali. Non risiede a questo livello il potere, dato che l’avvocato viene raffigurato più che altro come una vittima del meccanismo sociale nichilista di cui crede di essere padrone.
Sempre meno interessata al sesso e al piacere immediato, Bella si imbatte curiosa in due altri personaggi, entrando nella seconda fase, quella della conoscenza. Una donna di età matura accompagna Bella alla lettura, mentre il suo compagno di viaggio, un giovane e colto uomo di colore, rappresenta la corrente filosofica del cinismo. È a questo punto che emerge con forza la radicalità della critica sociale e politica veicolata dall’opera. Il cinico è colui che, avendo sperimentato le cose del mondo, se ne distacca altezzosamente, compatendo chi si illude di trasformarlo attraverso qualsiasi forma di conoscenza e prassi. La cultura del cinico è pura erudizione, inutile alla causa, ripiegata in se stessa. Il suo insegnamento è ancora e sempre individualistico: accetta l’esistente come il migliore dei mondi possibili, pur sapendo che è profondamente ingiusto. Molti dei film più ispirati degli ultimi decenni, quantomeno in Occidente, si fermano qui, sposando silenziosamente l’atteggiamento del cinico e risolvendosi in una sorta di legittimazione negativa del modello di produzione capitalistico e del suo contraltare sovrastrutturale: il liberalismo. Così non fa “Poor Things”.
Bella impiega poco a mettere a fuoco la vera natura dell’atteggiamento cinico, identificando il suo nuovo compagno di viaggio come un uomo debole che non riesce a gestire il dolore del mondo. Di fronte all’ingiustizia, che Bella scopre in quel frangente e dalla quale si fa solo inizialmente sopraffare, il cinico si ritrae nel porto sicuro del fatalismo pseudo-razionalista e rifiuta di agire. Non aderisce per convinzione al modello sociale vigente, ma si lascia dominare per paura di affrontarlo. In altre parole, il cinismo viene identificato come malattia infantile del socialismo. E non si tratta di una forzatura interpretativa, perché è proprio in questo passaggio del film che Bella inizia a transitare verso la terza e decisiva tappa del suo percorso, quella militante, scoprendo niente di meno che la vulgata marxista.
Solo poco prima, in una delle scene più evocative del film, una volta scoperta l’esistenza delle classi inferiori, Bella aveva messo a fuoco con rara lucidità il cuore del sistema di sfruttamento capitalistico, fondato non sul denaro in sé, ma sulla sua indotta scarsità. Una perla che da sola meriterebbe il prezzo del biglietto. D’altra parte, non serve essere economisti keynesiani per afferrare il concetto, è sufficiente essere…greci, come il regista.
Il viaggio prosegue così in una Parigi innevata, nella quale la giovane donna-bambino, pur non avendone necessità, decide di guadagnarsi da vivere nel modo più misero possibile, vendendo il suo corpo. Nei bassifondi della società, tuttavia, non si lascia alienare, ma si muove con fare scientifico, mettendo a fuoco i meccanismi più oliati della società di mercato. È nella casa chiusa parigina che Bella troverà un amore disinteressato in una giovane prostituta socialista, che poi l’accompagnerà nel suo ritorno a casa, non lasciandola più. Nella sua dimora, tuttavia, ad aspettarla non ci sarà solo lo scienziato morente che l’ha generata, ma anche l’assistente dello stesso, a cui Bella era stata promessa sposa prima della fuga. Anch’esso, come la prostituta socialista, è una figura atipica, irriducibile alle relazioni di mercato, dotato di anima pura, candidamente innamorato di Bella, e ancora deciso a sposarla. La stessa Bella che all’inizio del film vedeva nell’assistente un inutile orpello, perché indisposto a donarle un piacere fisico puramente meccanico, viene a questo punto catturata dall’amore discreto dell’uomo e si convince a sposarlo. Ma nel momento della consacrazione di una libertà matura, rappresentata in questo caso dal vincolo matrimoniale, un’ultima tentazione si fa largo, con la ricomparsa del marito di un tempo. È l’ultimo sussulto della libertà infantile, che trova nell’esperienza – in qualsiasi esperienza purché apparentemente innovativa – la sua ragion d’essere. Bella fugge dall’altare e si rituffa inconsapevole in un rapporto soffocante, nel quale il marito, generale dell’esercito e autoritario padrone di un castello, la intende alla stregua di un oggetto. Forte della maturazione acquisita, però, Bella impiega poco a divincolarsi dalla morsa, sottraendosi a quel vincolo gerarchico che l’aveva condotta al suicidio.
La scena conclusiva è un quadretto simbolico, che raffigura la donna-bambino nella sua dimora con in mano un libro di anatomia, avviata a divenire medico, affiancata da un lato dall’assistente e dall’altro dalla giovane socialista incontrata a Parigi, quasi a significare che la liberazione femminile non sta nella scelta trasgressiva di un amore omossessuale, che è pur possibile, ma che tuttavia appartiene alla sfera privata, dell’intimità. Ciò che davvero conta è che il soggetto, reso tale dai vincoli affettivi e dalla conoscenza – filosofica e scientifica insieme – afferri la dimensione sociale del suo sfruttamento e agisca per sovvertirla. Che è poi la ragione per cui il quadretto si completa con la figura dell’ex marito impegnato a brucare erba e a belare, dopo che Bella gli aveva fatto impiantare al posto del cervello originario quello di una capra, in un capovolgimento compiuto dei rapporti di forza iniziali.
Ma in tutto questo scintillante intrecciarsi di riferimenti al potere e alla libertà, possibile che non ci sia spazio per Dio? Così pare, se non fosse che il novello dottor Frankestein che ha “costruito” Bella si chiama Godwin, “Dio vinca”. È sufficiente riavvolgere il nastro del racconto, allora, per concludere che il Dio di Yorgos Lanthimos assomiglia molto al Dio cristiano, per lo meno nella sua sistemazione teologica moderna. Un Dio che non si lascia sedurre dalla sua onnipotenza creatrice, ma consente al soggetto di esistere come centro di esperienza e di elaborazione autonomo. Un Dio in sottofondo, ma non per questo meno decisivo, purché si scelga infine di dargli ascolto. È nel ritorno al dottor Godwin che Bella afferra definitivamente quale sia la sua vocazione, decidendo poi di perseguirla. In due parole: la libertà come dovere di scoprire chi siamo, nella nostra unicità, e onorare il dono di Dio, realizzandoci.
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