Derive dialettiche postmoderne
di Davide Parascandolo
La filosofia, lungi dall’essere una disciplina di sterili elucubrazioni, può fornire spesso chiavi di lettura alternative della realtà presente.
Un paio di secoli fa, un tale non proprio sprovveduto, di nome Georg Wilhelm Friedrich Hegel, pubblicava un’opera, La Fenomenologia dello Spirito, nella quale comparve un topos poi divenuto celebre, quello della cosiddetta dialettica servo-signore. L’opera in sé si interroga sulle modalità tramite cui lo spirito si manifesta nella realtà attraverso la coscienza umana, ma esula dal nostro proposito proporne in questa sede un’analisi filosofica. Piuttosto, ci è utile per avanzare una riflessione sul percorso dell’autocoscienza individuale, contraddistinto da una tensione dialettica – che informa di sé i rapporti storicamente dati tra gli uomini – tra le figure simbolo del padrone-signore e quella del servo.
Ebbene, secondo la concezione della dialettica hegeliana, arriva invariabilmente il momento del rovesciamento e dell’inversione dei ruoli, quando e laddove il servo si renda conto di essere indispensabile al suo padrone per mantenerne in vita i privilegi di status. Ciò implica naturalmente un percorso di progressiva acquisizione di autoconsapevolezza, il quale si basa su un’altra presa di coscienza: quella di una irriducibile differenza di interessi tra le due autocoscienze in attrito, che, per estensione, potremmo pensare in termini di due confliggenti dimensioni esistenziali.
E qui sopravviene il capolavoro allo stesso tempo ideologico e pragmatico delle moderne élites (il signore contemporaneo globalmente diffuso), ovvero l’indiscutibile destrezza di far credere ai “servi” – le subalterne e omologate schiere transnazionali di in-coscienti consumatori di vita – che gli interessi di entrambi coincidano. Tutto ciò in realtà mantiene in essere quella dicotomia, sapientemente mascherata nelle vesti di un corpo organico con un destino unidirezionale, che conduce all’impossibilità di una ristrutturazione dell’esistente. Nasce anche da questo profondo sonno della ragione critica la cultura del there is no alternative; la cultura dell’immodificabilità della realtà data (un assurdo filosofico); la cultura della cristallizzazione dei rapporti di forza; la cultura del rifiuto di ogni prassi trasformativa di gramsciana memoria.
L’esercizio del pensiero resta forse l’unico strumento – e lo è da sempre – per smascherare questa e altre antinomie che da millenni percorrono e attraversano l’umano agire. Esso è l’unico dispositivo possibile per ripensare l’esistente, per poter immaginare di edificarlo con nuove architetture.
Ma l’esercizio costa fatica. E allora meglio l’imbellettata passività del servo moderno. Egli si crede signore tra i signori, ma non è padrone neanche di se stesso. Egli è, drammaticamente, il signore dell’effimero.
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