Che significa pieno impiego*
Di Stefano D’Andrea
“… gli istituti giuridici e l’impianto di politica economica orientati alla piena occupazione, non servono soltanto a tutelare i disoccupati.
Noi oggi sappiamo, grazie a trenta-quaranta anni di esperienza storica, ciò che i costituenti potevano soltanto intuire o vagheggiare, ossia che gli istituti giuridici e l’impianto di politica economica volti alla piena occupazione corrispondono a un’altra idea di “giustizia”, rispetto a quella oggi dominante:
generano più alti salari per gli occupati, dipendenti privati o pubblici;
generano o possono generare una certa inflazione che, se controllata, comporta una distribuzione a favore di coloro che sono più debitori che creditori o solo debitori (la maggioranza dei cittadini) a danno di coloro che sono più creditori che debitori o solo creditori;
comportano, in caso di inflazione, la necessità di un certo controllo di alcuni prezzi (almeno le tariffe);
implicano il (possibile) controllo della bilancia commerciale mediante vincoli alla circolazione dei capitali, se la domanda dei cittadini si dirige troppo verso beni esteri (l’alternativa è deflazionare, ossia creare disoccupazione e abbassare i salari, in modo da distruggere la domanda interna e al contempo rendere più competitivi gli esportatori);
generano perciò una maggiore domanda interna e possibilità di maggiori redditi e profitti per i lavoratori autonomi e le imprese che forniscono beni o servizi (soprattutto) sul mercato interno, mentre aumentano i costi degli esportatori e quindi ne spingono alcuni, i meno efficienti, a orientarsi verso il mercato interno;
in generale perseguono la crescita della domanda interna, più della crescita della produzione di beni diretti all’estero e della domanda estera;
implicano che la moneta sia nazionalizzata per quanto riguarda i movimenti puramente finanziari (vincoli ai movimenti dei capitali), perché richiedono il controllo del governo sul tasso di indebitamento dello Stato;
reprimono la rendita finanziaria, imponendo un tasso d’interesse reale pari a zero, o negativo se una difficoltà o una crisi lo richiedono, operando una redistribuzione a danno della rendita finanziaria e a favore dei redditi da lavoro, autonomo e dipendente, nonché dei profitti per investimenti in attività reali rischiose (che verranno tassati meno);
spostano, in parte, la produzione verso beni e servizi pubblici (strade e autostrade sicure e belle; ospedali, tribunali, scuole, università, parchi, ecc.), anche in parziale danno dei beni e dei servizi offerti dai privati;
e consentono o almeno agevolano la solidarietà economica con le zone più povere del Paese (questione meridionale), per le maggiori possibilità di spesa pubblica a deficit e per la libertà nel dare aiuti di Stato;
quindi promuovono la mobilità sociale e rafforzano la coscienza della nazionalità.
Per questa “giustizia tra le Nazioni” l’Italia dovrebbe accettare limitazioni di sovranità ai sensi dell’art. 11, ma anche in base all’art. 35, comma 3, Cost., il quale prevede che la Repubblica: «Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro» (quindi anche il diritto al lavoro, ossia l’obbligo degli Stati di perseguire e mantenere la piena occupazione). Si trova in questa azione di politica estera l’unico “colonialismo culturale” ammesso e anzi promosso dalla Costituzione. Invece, l’Unione Europea «definisce e attua politiche comuni e azioni e opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali al fine di: […] e) incoraggiare l’integrazione di tutti i paesi nell’economia mondiale, anche attraverso la progressiva abolizione delle restrizioni agli scambi internazionali» (art. 21, comma 2, TUE).
L’Unione Europea, con non celato fanatismo, ha il fine di promuovere il mercato aperto mondiale”.
* Tratto da S. D’Andrea, L’italia nell’Unione europea. Tra europeismo retorico e dispotismo “illuminato”, Rubbettino, Soveria Mannelli 2022, p. 240 s. Titolo aggiunto.
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