Microfisica dell’alternanza scuola-lavoro
di GIORGIO MASCITELLI (scrittore)
La legge della Buona scuola ha istituito, come è noto, la cosiddetta alternanza scuola lavoro, che prevede l’obbligo per gli studenti di tutte le scuole superiori, compresi i licei, di frequentare periodi formativi presso aziende ed enti, pubblici e privati, nonché nel caso di un’indisponibilità di questi, presso la stessa scuola con la modalità dell’azienda simulata. Si tratta di uno dei pochi punti popolari di questa controversa legge perché la narrazione ideologica, secondo la quale sono le scuole le responsabili delle difficoltà sul mercato del lavoro incontrate dai loro discenti e non coloro che gestiscono quello stesso mercato, gode di un notevole successo.
All’atto pratico questa alternanza scuola lavoro sembra coinvolgere positivamente una minoranza di scuole, perlopiù istituti tecnici e professionali, che spesso avevano avuto già prima dell’introduzione della legge la possibilità di avviare un’attività di stage perché costituiscono per i loro indirizzi di studi un reale interesse per alcune imprese. Nelle altre scuole si assiste generalmente a un’affannata corsa da parte di dirigenti, insegnanti, famiglie e studenti stessi per trovare iniziative che rientrino nei caratteri richiesti dalla legge senza alcuna strategia formativa con il solo obiettivo di far accumulare ore di stage ai ragazzi. Non a caso si sta sviluppando una rete di agenzie accreditate, che offrono a pagamento alle scuole interi percorsi di alternanza scuola/lavoro per risolvere il problema e inculcare nelle giovani menti l’importante principio sociale che per lavorare bisogna pagare.
Anche quando gli uffici ministeriali hanno provato a contrarre direttamente accordi con il mondo delle aziende, non è andata meglio. Quello più significativo per numero di posti (10.000 all’anno, che sono quasi nulla rispetto al fabbisogno) è stato stipulato con McDonald’s; ma in quest’ultimo caso almeno il messaggio educativo finisce con il diventare involontariamente chiaro: è inutile studiare quando il destino che attende è generalmente quello di un lavoro dequalificato. In realtà, nulla di quello che sta succedendo è sorprendente, anzi era una delle cose più facili da prevedere: gli stage, per avere una funzione effettiva, devono avere delle aziende che abbiano interesse nel prendere stagisti che si occupino di cose che rientrano nel quadro delle attività aziendali ed è questa una situazione che riguarda una minoranza di studenti, perlopiù di istituti tecnici e professionali, e di aziende.
Proprio in ragione della sua facile prevedibilità, una simile situazione non deve essere considerata un effetto collaterale, ma un obiettivo che il legislatore si proponeva di raggiungere. L’alternanza scuola lavoro, del resto, ha essenzialmente un valore ideologico o, se si preferisce, educativo.
A un primo livello naturalmente ha la funzione propagandistica di mostrare che il governo si sta seriamente occupando della disoccupazione giovanile: invece di prendere atto della verità e cioè che le innovazioni tecnologiche, specie nel campo dell’intelligenza artificiale, produrranno una disoccupazione di massa anche a livello di lavori qualificati, e cercare di costruire una scuola di alto profilo culturale, che almeno sviluppi un intelletto generale, si preferisce alimentare vane speranze in un apprendistato che, salvo settori specifici e minoritari, non porterà a nulla.
E’, tuttavia, a un livello più specificamente ‘formativo’ che si può cogliere nell’alternanza scuola/lavoro il suo aspetto più propriamente ideologico. La preoccupazione di accumulare le ore di stage, la monopolizzazione della discussione nelle riunioni collegiali sui problemi organizzativi dell’alternanza, l’immancabile messe di procedure burocratiche, il successo di quegli studenti che grazie alle conoscenze familiari possono assolvere all’obbligo dello stage in maniera autonoma, quello corrispondente dei docenti che hanno trovato buone sistemazioni per gli studenti, la relativizzazione dell’importanza dello studio e delle attività culturali sono tutte conseguenze microfisiche di un processo educativo volto all’interiorizzazione delle regole del mercato del lavoro neoliberista, che diventa il punto cardine dell’attività scolastica.
L’alternanza scuola/lavoro infatti presentandosi, fatto salvo l’obbligo del numero di ore da svolgere e alcune altre regole generali, come una libera scelta nelle sue articolazioni concrete, diventa una pedagogia della libera scelta neoliberista ossia “l’obbligo di obbedire a una condotta massimizzatrice, in un quadro legale, istituzionale, regolamentare, architettonico, relazionale, che è costruito in modo tale che l’individuo scelga ‘in piena libertà’ ciò che deve necessariamente scegliere nel proprio interesse” (Dardot- Laval, La nuova ragione del mondo, Derive Approdi 2013, p. 315).
Anche la recente riforma dell’esame di stato si muove in questa direzione: a fronte di una sua sostanziale semplificazione tramite l’eliminazione della terza prova scritta, dell’area di approfondimento individuale nel colloquio e dell’aumento al 40% del voto finale della parte decisa dalla scuola prima dell’esame, si assiste all’introduzione dell’alternanza scuola lavoro come argomento di discussione e di valutazione finale, nonché all’obbligo di aver sostenuto le prove INVALSI per essere ammessi. Non deve ingannare l’apparente trascurabilità del provvedimento, perché così si introduce secondo una modalità microfisica una procedura volta a creare un ordine disciplinare nella scuola che privilegia, rispetto alle attività di studio e di elaborazione critica, l’adesione a determinate pratiche e attraverso di essa a determinati valori.
Edgar Morin è un autore che gode meritatamente per le sue idee sulla scuola e sull’insegnamento di grande stima sia presso le autorità competenti sia presso molti esperti, sicché capita spesso di vedere citato il suo lavoro in interventi pubblici e anche in documenti ufficiali, anche se talvolta un osservatore diffidente potrà avere il sospetto che esso sia più citato per il suo prestigio che effettivamente letto e meditato. Proprio Edgar Morin ci offre una chiave di lettura per valutare al meglio questo tipo d’iniziative: “Si tratta evidentemente di resistere alla pressione del pensiero economico e tecnocratico, facendosi difensori e promotori della cultura, la quale esige il superamento della disgiunzione fra scienze e cultura umanistica” (Insegnare a vivere, Raffaello Cortina 2015, pagg. 65-66).
Fonte: www.alfabeta2.it
A me sembra che l’articolo sia un po’ troppo sottile e che insinui una indebita sottigliezza anche nei riformatori della scuola. Gli sfugge la questione principale: mentre l’alternanza può essere utile negli istituti professionali e negli istituti tecnici, che sono finalizzati all’immediata entrata nel mondo del lavoro o comunque non la escludono, nei licei equivale a un sabotaggio della didattica, perché questi introducono agli studi universitari ed è impossibile stabilire un legame sensato tra lo studio teorico previsto nel curricolo e le applicazioni lavorative; dunque nei licei l’alternanza diventa una farsa. I motivi per cui i riformatori l’hanno comunque imposta non sono però le microfisiche dell’interiorizzazione delle regole del mercato e della massimizzazione. Il fine di ogni novità a scuola è uno solo: DEQUALIFICARE LA SCUOLA PUBBLICA (ripeto: PUBBLICA) fino a farla diventare un OSPIZIO, inclusivo e divertente, ma NON ISTRUTTIVO, così che si generi una domanda solvibile di istruzione che a sua volta susciti un’OFFERTA di istruzione PRIVATA. Si tratta non del subdolo tentativo di educare al mercato neoliberale: per questo è già sufficiente la disoccupazione; si tratta invece di un capitolo della privatizzazione dei settori pubblici, sulla base del dogma della superiore efficienza del produttore privato. In questo senso vanno anche i dati presentati nell’articolo: la dissipazione nel nulla delle energie di insegnanti e studenti, l’ulteriore alleggerimento di un esame di stato che già così promuove tutti.
D’accordo in linea di massima, ma credo che le cose siano un po’ più sfumate e inquadrabili in un contesto generale.
La verità è ^anche^ che, in una società in piena decadenza, la trasformazione della scuola pubblica in ostello fa comodo a tanti se non a tutti: agl’insegnanti che fanno poco o niente, ai genitori ormai in gran parte disinteressati a educare, che vogliono solo sentirsi dire che il figlio non ha problemi, ai ragazzi stessi inebetiti da pubblicità e telefonini, ai sinistrati favorevoli all’invasione migratoria cui il parcheggio sociale serve come modello di integrazione, e ovviamente al governo che taglia i fondi scolastici ed alleva generazioni di mentecatti tanto superficiali quanto ignoranti, dunque facilmente manipolabili.
Che gli insegnanti facciano poco o niente è una valutazione che ignora una specificità dell’insegnamento; questa specificità consiste nel ‘tenere’ le classi per ore: è semplicemente impossibile per un insegnante fare niente o poco, perché i suoi 20-30 alunni diventerebberi selvaggi e non glielo consentirebbero. Certo, è possibile fare bene o male. Il punto dolente della scuola neoliberale è un altro, cioè che non fa fare niente AGLI ALUNNI: né sforzi di conoscenza, né esercitazioni, né verifiche, ma attività ricreative (che per l’insegnante non sono affatto più riposanti). Anche gli alunni ne soffrono: c’è in loro, come c’è in tutti, la tentazione della pigrizia, ma più forte è il bisogno di conoscere e di imparare a lavorare, dunque più cocente il senso di delusione per le ore scialacquate nel nulla.
Per avere un riscontro di quanto affermo faccia un esperimento: confronti i volti degli insegnanti con quelli degli altri lavoratori della scuola: 18 ore davanti alla classe li logorano molto di più di quanto logorino 36 ore negli uffici e nei corridoi.
Quel che dice è giusto ma non ci siamo capiti. Intendevo che fra massificazione e riforme liberiste, le immissioni in ruolo di cani e porci negli anni 60-70, e il fatto che la grande maggioranza degl’insegnanti sono meridionali, il livello di preparazione e motivazione spesso è basso e per questo va volentieri incontro alla richiesta di menefreghismo e di avanti tutti senza distinzioni che viene dal ministero.
Anche il pensiero che il progresso tecnologico induca una disoccupazione massiccia è quanto meno incompleto. Alla disoccupazione tecnologica si può ovviare, se lo si vuole – la Costituzione italiana, per esempio, lo vuole. Ma dai tempi dell’affermazione del neoliberalismo non lo si vuole più. Perché la disoccupazione è lo strumento con cui si fanno scendere i salari e salire i profitti, quindi, più che il problema è la soluzione, è il risultato atteso dell’esercizione delle quattro libertà di movimento neoliberali: delle merci, dei servizi, dei capitali, del lavoro. Se l’imprenditore è aiutato a delocalizzare, se l’immigrazione è incoraggiata, diminuisce la domanda di lavoro nei paesi a costo del lavoro superiore e si dirige verso l’offerta di lavoro al ribasso; così i lavoratori finiscono sul lastrico.
Volevo far notare che il progresso tecnologico non riduce l’occupazione ma, dopo aver letto i suoi due commenti, mi sono accorto che le sue risposte spiegano magistralmente ciò che sta accadendo .
L’alternanza scuola -lavoro può avere un senso per gli studenti delle scuole professionali. Per tutti gli altri si tratta solamente di ore-lavoro sottratte inutilmente allo studio. L’alternanza scuola-lavoro è un provvedimento volto alla dequalificazione della scuola e dell’istruzione pubblica. Si vuole creare inoltre una massa di lavoratori/schiavi da mettere in batteria con gli immigrati in un gioco al ribasso contrario agli interessi dei lavoratori e del paese. Una nazione sovrana tutela i legittimi interessi di se stessa e dei suoi cittadini. Tra questi riveste un’importanza strategica avere una scuola che prepari i cittadini alle sfide del futuro e fornisca al paese le risorse umane per competere con le altre nazioni. In quest’ottica ho sempre pensato che la qualità dell’istruzione che un paese garantisce ai suoi cittadini sia un ottimo indicatore del suo livello di sovranità, quindi non sono affatto sorpreso da questo accanimento demolitorio nei confronti della scuola e dell’università, progettato scientificamente e implementato con determinazione maniacale dai servi dell’UE e delle multinazionali. Un giorno ci libereremo di questi vigliacchi schifosi.
“Istruitevi perchè avremo bisogno di tutta la Nostra Intelligenza.”
Alcide De Gasperi (patriota)
De Remigio ha colto molti aspetti interessanti e colmato alcune lacune dell’articolo. Che nel progetto della Buona Scuola manchino riflessioni e si manifestino obiettivi di facile consenso e dequalificazione della scuola pubblica è confermato da diversi elementi. Lorenzo sembra più condizionato da giudizi comunemente accettati anche se non frutto di considerazioni approfondite. Il lavoro dell’insegnante non si riduce alle ore di lezione ma dovrebbe comprendere sia i tempi di preparazione delle lezioni che di approfondimento delle conoscenze. La disoccupazione non è certo conseguenza dello sviluppo economico, giusto De Remigio, che questa sia una favola è dimostrato dalla semplice osservazione degli sviluppi dell’ultimo secolo. Lo sviluppo tecnologico favorisce nuovi bisogni e nuove organizzazioni del lavoro, la disoccupazione è invece figlia di un modello economico neoliberista. Periodi di permanenza degli allievi in azienda sono certamente utili negli Istituti Tecnici e Professionali, venivano fatti anche prima sfruttando le vacanze estive, ma richiedono percorsi definiti, aziende che inseriscano con correttezza gli allievi, non dovrebbe modificare il percorso formativo e dovrebbe permettere un’adeguata collaborazione azienda scuola. I rischi sono infiniti, dal ragazzo che si deprime in azienda alla risorsa a poco prezzo che fa i lavori più dequalificati. Per avvicinare la scuola al mondo reale per molte scuole sarebbe preferibile inserire nei programmi di alcune materie elementi di conoscenza dell’organizzazione e dell’economia d’azienda.