Mario Draghi, un (finto) sovranista europeo
di Davide Visigalli
Ad aprile, Mario Draghi, in un discorso alla conferenza “European Pillar of Human Rights” in Belgio (qui il link al discorso integrale Il manifesto di Mario Draghi: “L’Europa deve agire insieme, servono cambiamenti radicali” (ilriformista.it) ), ha delineato gli snodi principali del suo report sulla competitività UE, di cui è stato incaricato dalla Von Der Leyen.
In attesa del vero e proprio report, subito dopo le elezioni europee, che, di fatto, non hanno modificato i rapporti di forza nel parlamento UE (sempre che possa servire a qualcosa) e di certo non nella Commissione, è interessante leggere quello che il nostro politico (sì perché di questo si tratta) della UE afferma sul futuro e sui cambiamenti necessari per attuare il suo progetto. Parole di propaganda o visione del prossimo futuro europeo? Ai posteri l’ardua sentenza.
Partiamo dal titolo. Draghi afferma che c’è bisogno di un cambiamento radicale in UE. Questo significa che non tutto è andato come sarebbe dovuto andare, e soprattutto, visto che si parla di competitività, la UE molto probabilmente non l’ha perseguita efficacemente fino ad ora. Ma leggiamolo direttamente dalle sue parole:
“Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale prociclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale.”
Avete letto bene. Draghi dice che la UE ha coscientemente promosso la riduzione dei salari, l’aumento della tassazione e la contrazione della spesa pubblica per avere concorrenza all’interno della UE, distruggendo la domanda interna degli Stati e il nostro modello sociale. Come un antieuropeista qualsiasi.
Magari fosse un attacco alla competitività. Semplicemente ci sta dicendo che il mondo è cambiato e che competere tra noi europei non basta più, dobbiamo alzare la competitività fuori dalla UE, visto che alcune potenze non rispettano più le regole del mercato globale. Poi accenna a Cina e Stati Uniti che stanno sempre più internalizzando intere filiere produttive utilizzando anche politiche protezionistiche per far fronte al nuovo periodo, molto meno globalizzato.
Quindi suggerisce che bisogna fare una politica comune atta (sentite bene) a proteggere le nostre industrie tecnologiche nei confronti dei concorrenti extracomunitari per evitare che vadano via dalla UE. In aggiunta, dobbiamo renderci il più indipendenti possibile dall’approvvigionamento di materie prime, visto i tempi che corrono.
Sembra di sentir parlare un sovranista brutto e cattivo. Antico come i tempi che vuole riportare.
Sentiamolo dalle sue parole:
“In definitiva, dovremo realizzare la trasformazione dell’intera economia europea. Dobbiamo poter contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato basato sull’UE; manifattura nazionale nei settori più innovativi e in rapida crescita; e una posizione di leadership nel deep-tech e nel digitale. Ma poiché i nostri concorrenti si muovono velocemente, dobbiamo anche valutare le priorità. Sono necessarie azioni immediate nei settori con la maggiore esposizione alle sfide verdi, digitali e di sicurezza. Nella mia relazione ci concentriamo su dieci di questi macrosettori dell’economia europea.”
Nel suo discorso raggruppa i dieci macrosettori in 3 filoni comuni. Il primo è la scalabilità, ossia costruire economie di scala europea superando la dimensione nazionale ancora presente. Interessante capire dagli esempi che pone, come questo obiettivo vada perseguito con il consolidamento di grandi complessi industriali a scapito dei più piccoli gestori nazionali, ad esempio nelle telecomunicazioni. Quindi non concorrenza per ottenere prezzi più bassi per il consumatore, ma concorrenza alla Schumpeter, distruggendo o inglobando i concorrenti per arrivare ad un oligopolio dei più efficienti. Ecco qui il testo:
“Uno dei motivi di questo divario è che in Europa abbiamo 34 gruppi di reti mobili – e questa è una stima prudente, in realtà ne abbiamo molti di più – che spesso operano su scala nazionale, contro tre negli Stati Uniti e quattro in Cina. Per produrre maggiori investimenti, dobbiamo razionalizzare e armonizzare ulteriormente le normative sulle telecomunicazioni tra gli Stati membri e sostenere, non ostacolare, il consolidamento.”
L’altro filone è la fornitura di beni pubblici. Anche qui vale il mantra che per le sfide del futuro serve la dimensione europea, tralasciando le piccole patrie. Ma per finanziare i beni pubblici su scala europea cosa si dovrebbe fare?
“Ma la maggior parte del gap di investimenti dovrà essere coperto da investimenti privati. L’UE dispone di risparmi privati molto elevati, ma sono per lo più incanalati nei depositi bancari e non finiscono per finanziare la crescita come potrebbero in un mercato dei capitali più ampio. Questo è il motivo per cui il progresso dell’Unione dei mercati dei capitali (UMC) è una parte indispensabile della strategia complessiva per la competitività.”
Quindi per i beni pubblici europei servono ingenti investimenti privati, ed un efficiente mercato unico dei capitali, per massimizzare i dividendi di chi ha avuto il coraggio di investire nella UE. Investimenti pubblici manco a parlarne.
Il terzo filone è garantire la fornitura di risorse e input essenziali. Qui il discorso si fa più fumoso, iniziando con una non ben chiara piattaforma europea di minerali critici e arrivando credo al vero punto importante: adattare il mercato del lavoro alla pressante richiesta di competenze sempre più qualificate per far fronte all’era digitale. Per questo si rivolge direttamente alle parti sociali presenti in sala.
“Con le società che invecchiano e gli atteggiamenti meno favorevoli nei confronti dell’immigrazione, avremo bisogno di trovare queste competenze internamente. Molteplici parti interessate dovranno lavorare insieme per garantire la pertinenza delle competenze e definire percorsi flessibili di miglioramento delle competenze. Uno degli attori più importanti in questo senso sarete voi, le parti sociali. Siete sempre stati fondamentali in tempi di cambiamento e l’Europa farà affidamento su di voi per contribuire ad adattare il nostro mercato del lavoro all’era digitale e dare maggiore potere ai nostri lavoratori.”
La conclusione poi, è davvero interessante. In sintesi, queste grandi sfide richiedono una grande coesione delle politiche economiche europee, e se questo non fosse possibile per tutti, bisogna essere capaci di fornire risposte efficienti anche solo con un sottoinsieme degli Stati membri, e per fare un esempio di forte coesione cita la CECA, composta solo da 6 membri.
“Per garantire la coerenza tra i diversi strumenti politici, dovremmo essere in grado di sviluppare ora un nuovo strumento strategico per il coordinamento delle politiche economiche. E se dovessimo scoprire che ciò non è fattibile, in casi specifici, dovremmo essere pronti a considerare di procedere con un sottoinsieme di Stati membri. (…)
I nostri rivali ci stanno precedendo perché possono agire come un unico paese con un’unica strategia e allineare dietro di essa tutti gli strumenti e le politiche necessarie. Se vogliamo eguagliarli, avremo bisogno di un rinnovato partenariato tra gli Stati membri – una ridefinizione della nostra Unione che non sia meno ambiziosa di quella che fecero i Padri Fondatori 70 anni fa con la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio.”
Da tutto questo se ne ricava, dopo una parvenza di autocritica per le politiche post crisi, la sempre presente volontà di potenza europea, anche solo per riscaldare l’europeismo retorico attenuatosi in questi anni, condita con l’utopia della difesa comune e del mercato unico dei capitali con l’unico scopo di attirare investimenti di grandi capitali privati nello spazio di mercato europeo.
Insomma un finto sovranista per i finti Stati Uniti d’Europa.
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