Sul merito e sul valore, l’origine di un bene collettivo
di DAVIDE IEZZI (FSI-Riconquistare l’Italia Torino)
Qualche mese or sono, mi è stato possibile leggere una buona e vasta riflessione circa la natura di un oggetto, forse più di ogni altro, fonte di brame, turpiloqui, tradimenti, ruberie e grande parte dei conflitti armati: il denaro o, come userò riferirmi in questo mio contributo, la moneta.
Breve storia simbolica
La domanda cui forse è più difficile rispondere circa la moneta è la datazione della sua nascita; questo non tanto per l’incapacità dell’archeologia di stabilire un luogo e un tempo, ma perché davvero è difficile definire cosa sia moneta e da quale momento in poi includerla nei processi storici. Indubbiamente, tale Istituto richiede un certo contesto economico per svilupparsi, il quale, coi propri bisogni (ricordiamo sempre più pratici che teorici), richiama la sua funzione di uniformità. Ci è possibile stabilire, pertanto, un’analogia tra i sistemi economici individuati nel campo dell’antropologia economica e la nascita della moneta.
La produzione, la distribuzione e la circolazione dei beni e dei servizi sono al centro del campo di studio dell’antropologia economica. Riprendendo le riflessioni di Polanyi, il quale ha riscritto la concezione dell’economia come di una relazione sociale strutturale tra gli esseri umani e tra questi e la natura, possiamo considerare la moneta come l’istituzionalizzazione politica di un meccanismo nato spontaneamente dalle necessità del mercato. Entro il perimetro, sovente invisibile e implicito, delle istituzioni politiche si compiono le operazioni considerate, normalmente, come economiche: la produzione, la distribuzione e lo scambio dei beni.
Le forme di circolazione delle risorse possono essere essenzialmente ricondotte a tre tipi: le forme rette dal principio della reciprocità; quelle basate sulla ridistribuzione e infine quelle fondate sullo scambio. Naturalmente, ciascuna di queste strutture sociali poggia su un diverso supporto politico, mediante processi di istituzionalizzazione: la simmetria (ossia l’orizzontalità dei rapporti umani), la centralità (ovvero una forte verticalizzazione del potere) e il mercato rispettivamente. Il dipolo reciprocità/simmetria è alla base delle economie delle società organizzate su gruppi di parentela, ove gli scambi si verificano principalmente tra parenti, in modo del tutto paritario.
Alla seconda categoria, fondata sul binomio ridistribuzione/centralità, inerivano i sistemi economici feudali, in cui era presente un’Autorità che richiamava a sé gran parte delle risorse prodotte (le famose corvée), per poi restituire parte dei beni alla periferia, secondo una regola definita dallo stesso centro di potere. È proprio alla terza categoria, fondata sulla coppia scambio/mercato, cui appartiene gran parte della nostra quotidiana operosità occupazionale, comandata dalla legge della domanda e dell’offerta. L’introduzione della moneta ha notevolmente influenzato numerosi sistemi basati sugli istituti della simmetria e della centralità, anche se esistono società che limitano l’uso del denaro in circuiti circoscritti. Quel che è indubbio è che ciascun sistema economico, benché soggetto a evoluzione, non abbandona mai processi e funzioni già acquisite, semmai ne riduce il peso complessivo. La monetizzazione pare, dunque, essere vitalmente legata ai meccanismi di scambio e di mercato.
In qualità di prima e rudimentale definizione possiamo dire che la moneta viene costituita da una classe di oggetti, dotata di una serialità discreta (ossia un potersi ripetere, relativamente, sempre uguale a se stessi), riconosciuta all’interno di una comunità come capace di rappresentare un valore e poter essere usata, dunque, per semplificare gli scambi. La moneta naturalmente è un’idea condivisa ma nasce come qualcosa di molto tangibile e conserva esclusivamente questa natura sino all’avvento della rivoluzione informatica. La moneta è uno strumento potente per espandere e agevolare gli scambi commerciali perché, introducendo una mediazione oggettiva del senso di equità alla base di ogni rapporto di scambio, consente di dare una norma collettiva all’attività economica.
La norma è una fonte di stabilità e di pacificazione, elementi essenziali e ricercati da ogni comunità umana, soprattutto in merito alle attività di precipuo interesse come il frutto del proprio lavoro e lo scambio di tali frutti. La complessificazione dell’economia come processo sociale strutturale passa attraverso la cristallizzazione di compromessi e patti, da quel momento in avanti aventi forma di legge e istituti collettivi.
Inizialmente la moneta fu, probabilmente, qualcosa di facilmente reperibile nel proprio territorio dalla popolazione ivi insediata (ossa, sassolini, conchiglie et similia), ma tale condizione può perdurare solo se il circuito economico è chiuso, vale a dire fintantoché ogni attore aderisce alle stesse regole di impiego dello strumento. Il movente per la ricerca dei metalli preziosi è presumibilmente legato all’universalità del loro potere attrattivo ed estetico sui popoli umani, con una costanza transculturale notevole. Alcuni Autori osservano anche due altri aspetti importanti: la non facile deperibilità del materiale impiegato e la rapida verifica della sua fattura, benché su quest’ultimo aspetto l’oro sia soggetto a facili travestimenti.
Dall’antichità sino alla seconda metà del ‘900, sebbene in modi molto diversi, i metalli preziosi hanno svolto un ruolo determinante nel condizionare la moneta, sia per il suo valore sia per la diffusione e il successo come intermediario degli scambi. In questo senso, la moneta assume un ruolo di merce, sebbene con la nascita della finanza, l’adeguatezza allo scambio assoluto, cioè svincolato da beni e servizi terzi, non abbandona mai la moneta. Con la fine del Gold Exchange Standard (si veda la Conferenza di Bretton Woods) nel 1971 viene fatta coincidere la nascita della moneta legale. Quest’ultima viene sovente definita “fiat”, per sottolinearne la natura transitoria, momentanea e fugace, in altri termini non costituita su rapporti sostanziali e oggettivi, come viene ritenuto al contrario il valore intrinseco dell’oro.
Essa, infatti, si basa sull’autorità della Legge. È lo Stato a imporne la circolazione, sia mediante l’uso della forza in caso qualche attore economico si rifiutasse di accettarla per l’estinzione di un debito, sia mediante un’azione positiva: la tassazione. In questo caso, la prima autorità a riconoscere un valore alla moneta diviene proprio lo Stato, ossia il soggetto politico per eccellenza, e non più una regola socialmente accettata insita nel Mercato. Sebbene sia abitudine contrapporre il concetto di moneta legale a quello di moneta merce, nei fatti tale considerazione accademica è smentita. Ogni giorno decine di grandi investitori comperano e vendono moneta, ricercandone un guadagno. Questa pratica, in fin dei conti, è la struttura della finanziarizzazione dell’economia reale.
Un capitolo a parte è l’effetto dell’espansione monetaria (aumento della quantità di moneta circolante). In particolare, in caso di recessione e dunque in presenza di almeno due condizioni, come l’aumento della disoccupazione e la contrazione dei consumi, una maggiore quantità di moneta fornisce un impulso, ossia una maggiore disponibilità di mezzi di pagamento e una maggiore propensione ai consumi. È vero che, a seconda dei meccanismi di finanziamento del Bilancio di Stato, questo potrebbe generare maggiore debito pubblico assoluto ma i suoi effetti verrebbero presto riassorbiti dall’aumento del prodotto interno lordo e dall’aumento delle entrate tributarie.
Merito e valore nei sistemi monetari
La probabilità è un concetto di base del funzionamento dei sistemi complessi e la fisica contemporanea ha perfettamente integrato questo concetto filosofico nelle proprie teorizzazioni e modellizzazioni. Vi è però un modello idraulico, per così dire intuitivo e ingenuo, che viene spesso impiegato in senso metaforico per il funzionamento monetario. Naturalmente si tratta di una semplificazione che non rispetta alcuni assunti fondamentali: 1) la moneta è “comprimibile”, ossia può variare in valore rappresentato mediante i meccanismi di svalutazione e rivalutazione; 2) il sistema monetario al contrario dei sistemi idraulici è sovente autopoietico, ovvero tende a definire di per sé, istante per istante, la propria geografia e la propria temporalità; 3) il sistema monetario è un sistema sufficientemente aperto, nella misura in cui non è possibile determinare a priori l’ammontare degli scambi in ingresso e in uscita dal sistema monetario del valore e della sua rappresentazione sotto forma di moneta; 4) le leggi che governano i sistemi monetari sono un gruppo complesso di azioni pubbliche e private, non pienamente intelligibili, che deviano istante per istante i flussi di moneta, senza rispondere necessariamente alla razionalità.
Il modello idraulico del funzionamento monetario è fortemente fuorviante perché restituisce l’illusione di avere a che fare con qualcosa di tangibile di per sé e non con un meccanismo convenzionale di mediazione degli scambi. Questo naturalmente presuppone anche il contrastare la nozione acquisita che la moneta sia misura del valore. Possiamo definire il valore economico come la percezione della disparità dell’utilità espressa da un bene o un servizio rispetto a un bene o un altro servizio. Qualora, per assurdo, ogni merce (con merce intendiamo in generale un oggetto presente sul mercato, immateriale o materiale) fosse disponibile a ciascun consumatore nella sua quantità idealmente ottimale, il costrutto del “valore economico” perderebbe di significato.
Visto che il valore è percezione e la percezione è individuale, soggettiva, oscillatoria e condizionata, certamente lo statistico può al più aspirare a una sua rappresentazione e non a una sua misura stricto sensu. Rappresentare il valore nel mercato e non misurarlo significa recepire l’assunto che la percezione può influenzare la rappresentazione del percetto e la rappresentazione del percetto può influenzare la sua rappresentazione. Le implicazioni sono chiare, non solo la moneta può stimolare l’attività del consumo, può rallentarla, può condizionarla verso alcune forme utili alla collettività.
Riprendo, per approfondire ulteriormente, un’osservazione piuttosto frequente nel dibattito sulla natura della moneta, specialmente nell’ambiente intellettuale figlio del liberaleurocomunismo: la moneta acquista valore dalla sua capacità di soddisfare un bisogno. Da qui discenderebbe poi il terrore per la “cartastraccia”, la “liretta” e le famose “carriole di denaro” per acquistare un misero tozzo di pane.
Anzitutto, il semplice affermare che la moneta “acquista valore” significa individuare nella moneta soltanto una funzione di merce. Già Marx parlava di valore d’uso e valore di scambio come componenti che determinano il “prezzo” (riferendosi chiaramente a Smith e al suo La ricchezza delle Nazioni). In quest’ottica dunque, la moneta acquisisce un valore, ossia è “prezzata”, in base allo scambio che posso farne per appropriarmi di altri beni. Un’impostazione che mi permetto di giudicare piuttosto arcaica e ancorata alla logica mercatista. Non solo, ma intravvedo anche un principio tautologico tra le righe. La capacità di soddisfare un bisogno è causa del valore, ma siccome la moneta è creata al fine soddisfare il bisogno, allora essa è causa del proprio valore.
La moneta si configura come una rappresentazione tangibile del principio di equità, trae il proprio valore ex post la sua coniazione e tale valore è estrinseco. Potremmo definire concettualmente il concetto di valore come il rapporto che sussiste tra due diversi stati di compimento. Dati due sistemi, ha più “valore” il sistema più compiuto (compiuto secondo la propria Regola, che certamente varia da sistema a sistema). Un incremento di “valore” è un avvicinarsi o un allontanarsi dallo stato ottimale, che naturalmente è un divenire, un dinamismo. Il valore è, per necessità, un concetto relativo, basato sul fatto che nel Reale esiste discrepanza, eterogeneità e diversità (se tutti gli esseri umani divenissero Dei, nulla di ciò a cui attribuiamo “valore” lo conserverebbe perché già ognuno aderirebbe al proprio stato ottimale).
Ora, la moneta (indipendentemente dagli accidenti, ovvero che sia oro, carta o conchiglie) è rappresentazione del valore, in questo specifico caso economico, per distinguere da un valore personale, storico, culturale, religioso e così via. In quanto costrutto psicosociale, la moneta obbedisce primariamente alle leggi della mente e solo in seguito a quelle poste dalla fisica. Quando una moneta si svaluta, ciò che cambia non è il “valore” ma la capacità di rappresentarlo. Un indebolimento o un rafforzamento della moneta, altro non dipende che dal rapporto fiduciario soggiacente agli scambi tra esseri umani.
In risposta a Marco Di Croce mi sento di affermare che il merito è un relativo soggettivo, il valore è un relativo oggettivo. Cosa intendere con questa affermazione? Nel primo caso si parla della valenza socialmente riconosciuta di un’attività umana, ossia il lavoro. Si tratta di una valenza che non discende da dogmi o principi eterni e immutabili, essendo culturalmente e storicamente dipendente. Nel secondo caso, abbiamo un concetto che, pur essendo vincolato al contesto storico, inerisce a un bene o un servizio oggetto di scambio.
Possiamo ritenere inconciliabili le prospettive che fondano rispettivamente la moneta sul merito o sul valore? Riprendo in proposito proprio le parole di Marco Di Croce, le quali senza dubbio esprimono uno spirito in linea con la Carta costituzionale, per meditare: “[…] Il denaro, infatti, è concesso a un uomo da altri uomini che gli hanno riconosciuto di aver fatto qualcosa di buono e gli hanno proposto di cederlo in cambio di quel simbolo monetario che comporta un riconoscimento sociale del merito di un lavoro. Che il denaro abbia la funzione di rappresentare il merito degli uomini non è disputabile. Che tale funzione sia svolta con successo o meno, ovvero che in un dato momento vi sia una conformità sufficiente o meno tra la distribuzione del denaro fra i membri di una società e la reale distribuzione del merito di cui sono degni quegli stessi membri, è oggetto di discussione politica. […]”.
Forse più che un’inadeguata distribuzione del merito credo vi sia un meccanismo di attribuzione carente e, estremamente variabile sul piano individuale, su cosa sia meritevole, in che misura e per quali attività. In questo senso trovo molto debole l’identificazione del meccanismo monetario come legato alla generazione di una rappresentazione sociale del merito, proprio perché quest’ultimo è fortemente condizionato da pregiudizi, stereotipi, storia individuale, cultura, ideologia, religione e altre determinazioni ambientali. L’idea che al lavoro sia associato un merito e che a causa di esso venga pattuito un compenso è un’idea, a parer mio, forzata, perché pare essere più un augurio di come il rapporto tra sistema occupazionale e quello monetario dovrebbe essere e non un’analisi di come esso è realmente. Un tale assetto, financo imperfetto e con grandi sperequazioni, non potrebbe mai tollerare ingenti e, soprattutto, sistematiche disparità tra salario e professione, non solo tradizionalmente prestigiosa, ma in effetti utilissima, al contrario di quel che accade ogni giorno (oggi, in Italia, un medico arriva a percepire all’incirca mille euro, un ingegnere ottocento, un avvocato seicento).
A rinforzo di questa tesi, possiamo osservare che a memoria d’uomo neppure nelle epoche mercatiste protocapitalistiche (vale a dire già monetizzate) si è mai verificata un’esatta, spontanea o pianificata, corrispondenza tra salario e utilità della professione. Non avvenne nel fiorentissimo e ricco Medioevo italiano, dove per tutelare gli interessi di categoria si dovette ricorrere a forme organizzate di stato sociale come le corporazioni professionali. È, perciò, da escludere che il rapporto triadico tra merito sociale, valore e moneta sia un affare causalmente legato e non, al più, correlazionale.
Concordo, al contrario, con l’idea che sia compito della politica creare nuova cultura, introducendo un vincolo sempre più forte nella logica di un’associazione intima tra lavoro, merito e moneta, a patto che esso non si trasformi in un espediente sibillino per introdurre la convinzione liberale di una determinazione rigida della quantità e del valore monetario. Sarebbe facile asserire che, essendo il lavoro un’attività finita e la moneta una sua espressione, non sia lecito intervenire sulla moneta senza un corrispettivo e parallelo comportamento del mercato occupazionale.
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