Nasapasanda
L'Ape 50 era pieno zeppo di cartoni e si muoveva a fatica. Era di colore verde scuro ed aveva un cassone posteriore dove di solito venivano caricate le merci che Nico doveva consegnare ai clienti del negozio dove lavorava. Quando il negozio chiudeva l'Ape veniva chiuso nella rimessa. Era una fortuna che Nico avesse quel lavoro. Aveva sempre con sé le chiavi della rimessa e dell'Ape e questo ci aveva convinto a usare quel triciclo a motore di notte, dopo il suo turno di lavoro. Seguivamo l'Ape in bici per le strade del centro e ci fermavamo dove erano accatastati i cartoni degli imballaggi, li aprivamo e li appiattivamo dentro al cassone. Quando era pieno lo svuotavamo in un vecchio magazzino che li comprava a peso. Tanta fatica per pochi spiccioli, ma pochi spiccioli erano pur sempre meglio di niente. Servivano a finanziare la band, principalmente a pagare il noleggio degli strumenti.
Tutto filò liscio fino a quando i padroni del negozio si resero conto che l'Ape consumava troppa benzina per i tragitti effettuati. Quella sciocca “dimenticanza” di rabboccare il serbatoio ci costò l'uso del mezzo, di seguito tenuto sotto stretta sorveglianza.
Nico non era mai stato un bravo batterista. Ma era il fratello maggiore dell'amico intimo della mia adolescenza, oltre ad essere l'unico batterista che io all'epoca conoscessi. Suonava sempre allo stesso modo, indipendentemente dalla canzone. E spesso sbagliava gli attacchi e le rullate, ma andava bene così: nessuno di noi era esattamente un genio. Ci si buttava. Questo sì era bello.
Passano gli anni, la band si scioglie e Nico diventa un cantautore. Un cattivo batterista difficilmente diventa un ottimo chitarrista, e questa regola anche nel suo caso non subì variazioni. Quando ancora c'erano pub che erano una via di mezzo tra l'osteria ed il circolo culturale (oggi di quegli splendidi esempi di connubio tra commercio e cultura non esiste più traccia) ogni tanto lo leggevo in cartellone, e qualche volta mi sono spinto fino ad andarlo ad ascoltare. Inutile ripetere che se come batterista sbagliava gli attacchi, come chitarrista non sapeva fare di meglio. La ritmica era assolutamente aleatoria con cambi continui di metrica e accenti. A rendere quasi surreale il tutto si aggiungeva la difficoltà a cambiare accordi con la mano sinistra. In quegli anni avevo già finito di frequentare il conservatorio, per cui un'idea più precisa delle strutture musicali ce l'avevo.
Alcuni amici affermavano invece che nonostante il tessuto musicale grezzo i testi fossero decisamente interessanti. Non so, non ho mai dato molto peso ai testi. Per me esiste solo la musica e la voce è di contorno. Sì, lo so che è sbagliato…Comunque fosse, anche quell'esperienza cantautorale era destinata ad avere fine. Fine che temporalmente coincise con l'uscita di scena dei gestori di pub mecenati/illuminati, rapidamente sostituiti da quella ciurma di incompetenti che tuttora hanno come unico scopo spendere il minimo guadagnando il più possibile (poche le eccezioni). Tanti cari saluti agli aspetti culturali.
Ma mentre una porta si chiudeva se ne apriva un altra. Da bravo fricchettone dantan, Nico sapeva reinventarsi continuamente nuovi scenari. Il successivo passo evolutivo sarebbe stato il guru di stampo orientale.
Ci fu modo di approfondire questa storia alcuni mesi fa durante una cena a casa mia. Avevo invitato altri amici dell'epoca, sempre ex fricchettoni. No, io non sono mai stato esattamente un fricchettone, se questa è la domanda. Ma mi sono sempre piaciute le persone che vivono fregandosene di cosa possa pensare la gente. Ed i freaks sicuramente se ne fregavano. Anche loro purtroppo spariti assieme al mito dell'Uomo Nuovo, passati nel tritacarne della Storia. L'unico Nuovo attualmente concesso è quello che Avanza, ovvero tutto ciò che riguarda il Mercato. Di uomini non se ne parla più, ormai. Ancora meno si parla di umanità.
Arriviamo dunque a quella sera. Nico racconta a braccia quello che successe: c'era un posto in collina, a pochi chilometri dalla città (quindi raggiungibile in bici) dove si davano appuntamento gli ultimi freaks (beati gli ultimi, diceva qualcuno…). Un prato dove capelli lunghi, vestiti colorati e chitarre la facevano da padrona. Si, vabbè, tutto bello, ma nessuna vera novità. Poi la scintilla. Insomma si sente il bisogno di qualche stimolo nuovo. Magari orientale, ecco, che quello con i freaks è sempre andato d'accordo. I tempi erano maturi, e sicuramente il White Album, la Mahavishnu Orchestra e Ravi Shankar a Woodstock (ma anche dopo) facevano da sottofondo musical-culturale a questa nuova esplorazione del Sè.
Qualsiasi cosa fosse il Sè, ben inteso.
Da bravo improvvisatore, Nico iniziò ad esibirsi in una serie di lunghi sproloqui orientaleggianti zeppi di riferimenti (veri o inventati che fossero) ai Veda e ai vari Ashram dove tali insegnamenti venivano offerti. Il tutto veniva rigorosamente condito con sapienti accenni alla fratellanza universale, all'Occhio Divino cui nulla sfugge, al velo di Maya che nasconde la Realtà e via dicendo.
La gente attorno ascoltava rapita.
Era nato Nasapasanda.
A tavola, tra le lacrime per il troppo ridere (bisogna conosce un po' Nico per capire a fondo il senso di tutto questo), qualcuno chiede: “Ma come cazzo t'è venuto in mente un nome del genere?”
“Boh, non so, suonava bene”.
Trovo tutto questo di una potenza creativa imbarazzante. Avrebbe dovuto fare il capo di qualche agenzia di comunicazione invece che il garzone, il ragazzo delle consegne con l'Ape o il portinaio come fece per tutta la sua vita lavorativa.
La cosa cominciò a diventare seria: Nasapasanda si incontrava regolarmente con quelle persone e dispensava i suoi insegnamenti, e quelle persone durante quegli incontri si sentivano in qualche modo sollevate. Il vecchio Nico però sapeva che stava recitando. Lo faceva con passione e dedizione, da attore consumato. Questo non vuol dire che la maschera fosse più leggera, solo che la recita acquistava spessore. Il fatto è che nella recita tirava in ballo cose serie. Così serie che alla fine il peso della maschera diventò insopportabile. Altre persone avrebbero continuato la recita,magari a pagamento, felici dell'aria estatica che si era creata, o magari gratificate dagli sguardi adoranti che lustrano l'ego del portatore di Verità . Nico invece smise quando si rese conto che facevano troppo affidamento sui suoi insegnamenti inventati dal nulla.
Un bel giorno radunò i suoi “discepoli” ed annunciò la sua decisione di uscire di scena.
La cosa non fu vissuta bene: poche parole ben congegnate sono sempre meglio dell'anonimato nel quale veniamo calati ogni giorno. Sono sicuro che confessori prima e psicologi dopo abbiano messo in atto lo stesso tentativo di arginare le solitudini ed una difficoltosa partecipazione alla Vita.
Nasapasanda però lo faceva senza prebende né tariffe orarie, e senza che il credo (scientifico o dogmatico che fosse) cui fanno riferimento i vari esperti dei dolori dell'anima ne ricevesse beneficio alcuno, dato che non esisteva proprio alcun credo a monte. La recita, così abilmente messa in piedi, era finita. Le scenografie smontate, i trucchi comunicativi svelati. Un vuoto siderale si era impadronito del proscenio e la platea, sgomenta, non aveva più motivo di interrogarsi su quale sarebbe stata la versione upgraded di quella Société du Spectacle che stava andando in onda.
Nonostante Nico non avesse mai rivelato i suoi dati personali qualcuno riuscì a rintracciarlo, e si presentò a casa sua, dove abitava con i genitori. La persona era una donna avvenente, che avrebbe offerto a qualsiasi altro guru ghiotte occasioni di ripensamenti. Ma, con uno stile che non può appartenere a epoche caratterizzate da bunga bunga ed ammiccanti intrallazzi, Nico rifiutò la straordinarietà del ruolo che si era cucito addosso per ripiombare nell'anonimato della quotidianità.
Troppo in anticipo sui tempi quella volta il noioso reale aveva vinto sullo sfavillante sistema del Reality Show.
La successiva vendetta sarebbe stata terribile…
“Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all'occupazione totale della vita sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede più che quello: il mondo che si vede è il suo mondo.”
Guy Debord
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