Tramonto del diritto moderno?
di GEMINELLO PRETEROSSI (filosofo del diritto; Università di Salerno)
Recita un récit diffuso quanto un refrain nel dibattito pubblico contemporaneo che la sovranità sarebbe tramontata, inutilizzabile, e tutti ne dovremmo gioire. Tuttavia, le sovranità persistono, talune fortemente indebolite, altre talmente rafforzate da risultare eccedenti la stessa categoria tradizionale di sovranità. Ma cosa si intende per sovranità, quando si formulano questi giudizi?
E soprattutto, cosa sottende, radicalmente, tale autorappresentazione ormai così diffusa, che muove da elementi perfino ovvi (una crisi non proprio nuova – quella dello Stato moderno -, e il fatto della globalizzazione)? E ancora, quali conseguenze avrebbe tale fine di un tramonto? Porsi questi interrogativi significa ragionare sulle ‘prestazioni’ che la sovranità moderna ha assicurato e sulla qualificazione del ‘giuridico’ che, seppur attraverso trasformazioni significative, ne derivava, rispondendo al ‘nocciolo politico’ (il nesso ordine-conflitto in un mondo secolarizzato, cioè senza Fondamento ultimo) che ha ‘costituito’ il Moderno.
Vorrei proporre brevemente, per quadri e tesi secche, una fenomenologia della cosiddetta ‘post-sovranità’ alla luce di un interrogativo che, credo, a lungo ci accompagnerà tragicamente e a cui peraltro è illusorio pensare di poter fornire una risposta compiuta oggi: che ne è del diritto nell’età globale?
Assistiamo da tempo a una crescente lotta contro i diritti in nome della deregolazione. Sempre più di frequente i diritti vengono rappresentati come un vincolo e un onere insostenibile per un mondo flessibile: se si allargano troppo e si insiste sulla loro validità universale, che spinge a trascendere i confini e mette in crisi la nozione di cittadinanza, essi entrerebbero in frizione con la cosiddetta ‘società aperta’ che li ospita.
Oltre alla lotta contro i diritti, dobbiamo constatare però il progressivo delinearsi di strategie di lotta contro il diritto: un crescente disagio verso i poteri ‘terzi’ e ‘autorizzati’; una spiccata tendenza a scegliersi il proprio giudice, o a sostituirvisi; la relativizzazione del nucleo universalistico minimo sotteso alla giuridicità: la laicità e la validità erga omnes delle norme, la pubblicità della procedura giuridica, l’indisponibilità delle garanzie effettive del pluralismo e del dissenso, il primato dell’interesse pubblico su quello particolaristico (pur ampiamente garantito, ma entro un quadro gerarchico certo).
Il dato nuovo è che tali tentativi di aggiramento (che ci sono sempre stati e che entro una certa misura sono fisiologici) non sono più solo sotterranei, ma divengono oggetto di una vera e propria ideologia presuntamente post-ideologica (la più insidiosa, perché delegittima tutte le altre posizioni, accreditandosi come ‘neutrale’) e di una politica del diritto.
Tentativi rivelativi della disponibilità ad abbassare la soglia, quel discrimine su cui il diritto moderno faticosamente ma nettamente – soprattutto a partire dal 1948 – si è attestato (forse perché l’universalismo giuridico non costituisce più una risorsa strategica primaria da giocare nell’ambito della contrapposizione ideologica Est/Ovest, così che la spinta progressiva e la valenza di interdetto rappresentate dalla memoria della seconda guerra mondiale possono essere avventatamente date per esaurite).
A noi pare che per comprendere le logiche costitutive che segnano l’epoca moderna – almeno dal punto di vista politico-giuridico – e che ancora ci interpellano sia utile ragionare sulla nozione di ‘freno (Katéchon) interno’. Non nel senso della conservazione e della estraneità, ma del freno innovativo e riordinativo, capace di produrre integrazioni su basi nuove, più inclusive: lo Stato sociale di diritto, la democrazia costituzionale, ad esempio, hanno rappresentato nel Novecento tanto un argine alle accelerazioni distruttive prodotte dalla modernizzazione capitalistica quanto uno strumento fondamentale per riconoscere nuovi diritti governando il conflitto sociale.
Il diritto moderno, con le sue trasformazioni, è stato uno dei ‘freni’ principali attraverso cui si è data ‘forma’ alle società post-tradizionali. Ora, a noi pare che la fase politica attuale sia caratterizzata da una allarmante alterazione di quell’equilibrio instabile tra freni e accelerazioni che aveva segnato in positivo il secondo dopoguerra. Siamo cioè di fronte a una tendenza, che nasce nel seno dell’Occidente, all’abbattimento di ogni nozione di ‘limite’ – anche artificiale, razionalistico, ‘democratico-costituzionale’ – e a una spinta violenta alla negazione delle regole, almeno quando esse non siano sfruttabili strumentalmente come mezzo per tutelare le asimmetrie che la globalizzazione neoliberista produce e amplifica.
Poiché tale ‘Antico Regime globale’ deve essere tutelato a qualsiasi costo, quando sia necessario – e lo è sempre più spesso – si può e si deve fare a meno anche del diritto. L’universalismo ‘realistico’ del diritto moderno (l’uguaglianza formale di fronte alla legge, il divieto formale di discriminazioni e di status privilegiati, insomma l’eredità che pareva indiscussa della Rivoluzione francese) sta diventando un vincolo oneroso, un impaccio di cui liberarsi.
Il progetto universalista moderno, che nella sua versione normativa ‘pura’ riteneva possibile la ‘costituzionalizzazione del mondo’, e che su un piano certamente più pragmatico e spurio aveva comunque condotto dopo il disastro della seconda guerra mondiale ad un abbozzo di diritto cosmopolitico e di istituzionalizzazione della comunità internazionale, è oggi sfidato e messo a repentaglio dalle conseguenze geopolitiche della fine del bipolarismo mondiale.
Proprio la fine dell’equilibrio del terrore e della divisione in blocchi – che sembravano costituire l’ostacolo maggiore all’affermazione del costituzionalismo mondiale e ad un governo ragionevole, tendenzialmente pacifico dei conflitti -, hanno aperto, già a partire dalla prima Guerra del Golfo, ma soprattutto con le guerre in Kosovo e in Afghanistan, l’incancrenimento del conflitto mediorientale e l’effetto-domino dell’11 settembre, una fase di radicale sovvertimento delle regole minime non solo del nuovo diritto cosmopolitico, ma persino delle auree geometrie westfaliane proprie dello jus publicum europaeum.
Di fronte all’emergenza del terrorismo globale, vengono propalate con stile spiccio categorie quali quelle di ‘guerra infinita’, ‘guerra preventiva’, ‘Stato canaglia’, che fanno saltare le garanzie assicurate dal diritto interstatale (riconoscimento reciproco di sovranità formalmente paritarie, divieto di ingerenza negli affari interni), ma minano, strumentalizzandole, anche quelle del diritto cosmopolitico, attraverso un’utilizzazione del diritto di ingerenza umanitaria asimmetrico e intermittente, lo sfruttamento in chiave ideologica e profondamente incoerente dei diritti umani, tradendone l’universalismo, addirittura la delegittimazione e l’aggiramento dell’ONU, unitamente però alla pretesa di far valere in modo unilaterale e arbitrario, appellandosi ad una presunta auctoritas morale e soprattutto alla propria forza militare, le nuove regole del diritto cosmopolitico che proprio l’ONU sarebbe l’unico soggetto autorizzato ad amministrare.
Si delinea così una situazione di perniciosa incertezza giuridica sul piano della politica internazionale, alimentata dalla compresenza ambigua di un doppio paradigma del diritto internazionale, uno tradizionale, e uno confusamente ‘giuridico-morale’. Il primo rivendicato gelosamente da macro-sovranità iperprotette, non più reciproche e formalmente paritarie. Il secondo utilizzato per gli ‘altri’, i nemici da disconoscere perfino nel loro status di nemici ‘legittimi’, perché incarnano il Male assoluto da estirpare in nome della Giustizia assoluta, della Libertà, dell’Umanità, insomma dell’Occidente, rinverdendo un uso politico del concetto di civiltà che credevamo tramontato per sempre.
La ‘guerra giusnaturalistica’ (cioè in nome della morale, delle ‘cose ultime’) rischia di divenire la forma prevalente del conflitto globale. Ciò significa che in tale orizzonte non si danno più guerre costituenti, ordinative, perché in gioco non è primariamente lo spazio, e perché non sono possibili paci compromissorie, concrete, che definiscano un equilibrio geopolitico nel quale ci siano vantaggi e oneri, assunzioni di responsabilità e impegni. L’unica pace possibile essendo quella – assoluta e quindi impossibile – con un nemico che deve essere annientato in quanto ‘assoluto’ e in quanto non ricacciabile nei propri confini, poiché è ovunque.
Parafrasando Schmitt, si potrebbe dire che oggi ‘sovrano è chi decide lo scarto da un paradigma all’altro’. In effetti stiamo assistendo allo sviluppo di una forma di ‘ipersovranità’, che nega di fatto le sovranità tradizionali – le quali implicavano strutturalmente l’ammissione di altri soggetti almeno formalmente paritari e un effettivo pluriverso politico -, contrapponendo ad esse il monopolio unilaterale dell’etica globale e della legittimazione ad usare la forza arbitrariamente, senza alcun limite che non sia quello posto da chi quel monopolio detiene.
Siamo cioè di fronte all’affermarsi di fatto di una pretesa – contraddittoria – alla ‘custodia del mondo’. Contraddittoria perché la figura del ‘custode’ non implica certamente una neutralità fittizia, ma un potere terzo e imparziale: che succede se chi si arroga questo ruolo è inevitabilmente, strutturalmente, terzo e parziale? Ma contraddittoria anche perché forse il mondo non vuole farsi custodire, avendo necessità di politiche concertate, realisticamente mirate a sanare disuguaglianze e focolai di contrasti, che tengano conto della sua pluralità sulla base di un criterio almeno tendenziale di pari dignità.
Nelle risoluzioni del Consiglio di sicurezza di sicurezza dell’ONU successive all’11 settembre – al di là dell’orrore per l’accaduto e della comprensibile necessità di dare anche da un punto di vista retorico-morale un segnale forte, che rappresentasse un monito della comunità internazionale -, è possibile constatare lo scivolamento azzardato con il quale ci si richiama senza specificazioni e delimitazioni precise al “diritto naturale alla legittima difesa”.
La formula (soprattutto quel termine, ‘naturale’) – forse nella totale inconsapevolezza dei suoi autori, e quindi a dispetto delle loro intenzioni (ciò che è però teoricamente del tutto irrilevante), o forse proprio in vista di futuri usi non retorici – è di per sé assai rivelativa e sintomatica dal punto di vista della semantica storica dei concetti politici. Di fatto, si apre la strada alla reintroduzione selettiva e discriminatoria dello ius ad omnia nella politica internazionale.
Siamo qui di fronte al paradosso di istituzioni della comunità internazionale – quello che dovrebbe essere un embrione di civitas maxima – che sanciscono e legittimano lo stato di natura (cioè il proprio contrario). La conseguenza politica di ciò non può che essere la pretesa ad una giustificazione aprioristica di una ‘guerra preventiva’ dai contorni indefiniti, basata sul concetto di ‘first strike‘ (sul quale ogni decisione non può che essere rimessa alla valutazione del soggetto che la assume, e quindi porsi in modo totalmente arbitrario).
Una guerra illimitata basata su un concetto strumentale e fittizio di ‘difesa’, strutturalmente ‘illegittimo’, perché collocato per principio al di sopra e al di fuori del diritto internazionale e dei suoi vincoli tassativi di autorizzazione ed esecuzione. Una guerra ‘totale’ estranea alla logica giuridica.
L’attuale tentativo di moralizzare – cioè autorizzare su basi morali – lo stato di natura internazionale ‘asimmetrico’ nasconde a nostro avviso la necessità di mantenere uno ‘stato di eccezione permanente’, finalizzato alla conservazione dello status quo globale (cioè alla riproduzione e al rafforzamento delle sue condizioni materiali). Così il diritto, ma anche l’etica pubblica, si risolvono nella legittimazione del diritto del più forte. Quando ci si arroga il diritto ‘morale’ di usare la forza unilateralmente e preventivamente si entra in una logica di pura, nuda potenza e si fuoriesce dal razionalismo giuridico, delegittimando il nucleo assiologico minimo di quell’Occidente in nome del quale si dice di ergersi.
Tale rischio di tramonto del diritto ci sembra il segnale più allarmante dell’eclisse dell’universalismo critico. Quella del ‘finto universale’ non potrà che essere l’epoca della polemicità assoluta e totale, nella quale tutto è possibile perché tutto è legittimo, in quanto ciascuno si legittima da sé. Ma la contrapposizione di particolare a particolare non conduce ad altro che al dominio della nuda forza. Non una forza ordinante, non una forza anche solo minimamente regolata, non la forza che assume l’onere e la responsabilità della politica weberianamente intesa, ma la volontà di potenza che affermando se stessa pretende di assegnarsi un presunto primato morale: nichilismo in atto.
Il vecchio, cattivo, sgradevole Schmitt, almeno su questo, aveva visto lontano: “Un imperialismo fondato su basi economiche cercherà naturalmente di creare una situazione mondiale nella quale esso possa impiegare apertamente, nella misura in cui gli è necessaria, i suoi strumenti economici di potere … L’avversario non si chiama più nemico, ma perciò egli viene posto, come violatore e disturbatore della pace, hors-la-loie hors l’humanité, e una guerra condotta per il mantenimento o l’allargamento di posizioni economiche di potere deve essere trasformata, con il ricorso alla propaganda, nella «crociata» e nell’«ultima guerra dell’umanità»”.
[Da R. Esposito, L. Bazzicalupo (a cura di), Politica della vita. Sovranità, biopotere, diritti, Laterza 2003]
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