L’ordine mondiale di Kissinger ha tanto da insegnarci, anche sull’Unione europea
di Simone Garilli
In un libro di grande interesse, intitolato “Ordine Mondiale”, il celebre consigliere e analista americano Henry Kissinger individuò nella storia d’Europa una singolarità decisiva rispetto all’evoluzione di tutte le altre aree del mondo: ciò che rende unico il Vecchio Continente è che ormai da secoli il suo principio regolatore politico non è imperiale, ma pluralista.
A sentirla così, potrebbe sembrare la classica scoperta dell’acqua calda. In effetti, chi non è al corrente del fatto che il liberalismo è nato in Europa, a partire dall’Inghilterra, come risposta rivoluzionaria a un sistema di potere assolutistico, definito a posteriori “Ancien Regime”? Banalità scolastica.
Eppure, ciò che aggiunge Kissinger è la prospettiva strategica, o geopolitica che dir si voglia. A seconda del punto di osservazione dello stesso fenomeno, infatti, cambiano gli insegnamenti pratici che se ne possono trarre.
Per lunghissimo tempo si è riflettuto, e si continuerà a riflettere, su quale sia l’elemento che in prima istanza muove la storia; di quale sia, in altri termini, l’innesco dei cambiamenti epocali.
In ambito marxista il dibattito si è spesso esercitato intorno alle categorie di struttura e sovrastruttura, dividendo il campo tra chi crede che la prima prevalga logicamente sulla seconda e la determini e chi ritiene che i due elementi dialoghino e retroagiscano l’uno sull’altro. Sia come sia, secondo i marxisti la struttura sarebbe dialetticamente composta dal conflitto tra le necessità della produzione a fini di profitto e le necessità emancipatorie della classe lavoratrice, mentre la sovrastruttura includerebbe pressoché tutto il resto (le istituzioni politiche, la produzione culturale, le ideologie).
Il filone di pensiero liberale, invece, tende a mettere al centro dei processi storici l’ideologia (dunque in termini marxisti la sovrastruttura), celebrando singoli pensatori rivoluzionari, siano essi filosofi o economisti, e grandi condottieri politici capaci di sfuggire alle sirene del consenso di breve periodo per affermare gli ideali della libertà individuale.
In altri termini, se per i marxisti è la lotta tra le classi a fare la storia, per i liberali sono gli individui illuminati (fra i quali includere anche gli imprenditori innovatori).
Kissinger, pur non palesando la sua posizione nei termini del dibattito classico, sembra declassare l’importanza sia della lotta ideologica che delle dinamiche di classe, che pure non disconosce, tentando di interpretare l’ordine (o il disordine) globale odierno come frutto storicamente fondato dei puri rapporti di forza. Ne esce un quadro necessariamente incompleto, ma solido e coerente, oltre che originale. Non va dimenticato, infatti, che l’approccio geopolitico, pur oggi tornato di moda, è stato molto a lungo ostracizzato proprio in Europa, perché identificato con la terribile impresa nazista e, più in generale, con la tragica parentesi dei nazionalismi. E d’altra parte, come per tutte le discipline, c’è geopolitica e geopolitica. Non di rado quella che si spaccia come tale altro non è che politologia mascherata da sterile nozionismo sui rapporti internazionali, mancando del tutto di un metodo suo proprio.
Dunque, di originalità si può parlare quando si sostiene che né il liberalismo ideologico e politico, né la lotta di classe (dapprima della borghesia contro la nobilità e poi del proletariato contro la borghesia), sarebbero stati le forze motrici della storia europea, ma i conflitti tra potenze, e soprattutto gli squilibri e gli equilibri di forza che si configurano in una e in altra fase storica.
Secondo questo schema analitico, sono due le date più importanti della storia euro-occidentale: il crollo dell’Impero Romano (convenzionalmente fissato nel 476 d.C.) e la pace di Vestfalia (1648). Se la prima è patrimonio comune degli studenti italiani, per evidenti motivi di storia nazionale, è dubbio che la seconda sia rimasta nella memoria collettiva. In molti conoscono piuttosto le date cardinali delle tre grandi rivoluzioni contemporanee (l’americana, 1776; la francese, 1789; la russa, 1917); qualcuno in meno conosce anche i tempi della più graduale “gloriosa rivoluzione” parlamentare inglese che le precedette, culminata nel 1688, ma nessuno o quasi si ricorda cosa successe esattamente 40 anni prima, con la pace tra potenze europee firmata a conclusione della Guerra dei Trent’anni (1618-1648).
In poche parole, venne a conclusione un lungo processo di disgregazione dell’idea di impero che era iniziato, appunto, con la dipartita della parte occidentale di quello romano, ed era proseguito con l’innestarsi e l’interagire disordinato di molteplici nuovi centri di potere in luogo di quello imperiale: prima il potere territoriale e spirituale delle parrocchie e dei vescovi nei secoli di inizio Medioevo, in conflittuale dialogo con il potere dei vertici politici e militari degli invasori “barbarici”, poi quello delle signorie a confronto con il potere dei Comuni, particolarmente vivaci nell’Italia del tardo Medioevo, e infine il potere nascente degli Stati regionali e dei principati, che faranno dell’Italia terra di conquista per molti secoli, a partire da un’altra data importante, non solo per noi italiani, il 1494, che coincide con la discesa in Italia di Carlo VIII di Francia; importante perché sugella simbolicamente il passaggio dalla dimensione comunale e regionale dei nuovi poteri a quella eminentemente statale, che non può raggiungere le vette assolutistiche tipiche degli imperi, ma mira quantomeno ad allargare nello spazio la sua legittimità. Si tratta di un potere che torna a unificare territori e popolazioni, ma che contiene in sé un germe ineliminabile di frammentazione, sconosciuto, appunto, alla forma imperiale.
La tesi di Kissinger è che il pluralismo di poteri altrove non ebbe modo di configurarsi, facendo dell’Europa un unicum, un crogiolo di innovazione politica, ideologica, filosofica, da cui si alimenteranno le rivoluzioni politiche sopra citate. Ma in che modo, realisticamente, dal pluralismo di poteri si transita alle rivoluzioni? In effetti, a ben vedere, l’idea di Impero non scompare del tutto dalla scena con il crollo romano, da un lato perché la Chiesa sopravvissuta alla fine del potere imperiale mira essa stessa all’universalità, dall’altro perché ai confini d’Europa la forma imperiale continua a prosperare e a influenzare culturalmente le classi dirigenti continentali. Nessun Re o Sovrano medievale e moderno vuole smettere di sognare di divenire un giorno Imperatore dei domini europei, e qualcuno per qualche breve fase ci riesce pure, o almeno ci prova (Carlo Magno nel IX secolo, Carlo V d’Asburgo nel XVI, Napoleone Bonaparte nel XIX, Hitler nel XX). Ciò che accade di decisivo, il vero motore della modernità europea, è la secolare dinamica oscillatoria tra l’idea di Impero e quella, per larghi tratti prevalente, di sovranità statale.
La chiave non sta dunque nella nascita degli Stati, o non solo, ma nella loro tensione costante con le aspirazioni imperiali interne all’Europa oppure, dopo il “suicidio” europeo del Novecento, esterne ad essa. Il pendolo inizia a oscillare, ma non per ragioni ideali. Queste semmai vengono elaborate a partire, appunto, dalla struttura, così come derivata dalla nuova struttura di potere è la disgregazione dell’unità religiosa che culmina nella rivoluzione protestante. La struttura, per Kissinger, è l’equilibrio di potenza. Un dato impersonale, che si distingue dal motore ideologico liberale e da quello conflittuale marxista perché nessuno intende generarlo e coltivarlo, almeno in prima istanza. L’equilibrio si dà come risultato di una frammentazione che diviene impossibile ricondurre a unità. In luogo dell’impero si danno tanti Stati in reciproco conflitto e in sostanziale equilibrio, per mancanza di forza, e questa mancanza è originaria, dato che lungo, contraddittorio e tortuoso è il percorso che consente ai re europei di avere ragione dei signorotti locali e dei cittadini gelosi della loro nuova libertà, fondando infine gli Stati moderni. Solo quando uno fra gli Stati, per diverse e profonde ragioni, accumula una riserva di potenza eccedente quella di tutti gli altri messi assieme, o almeno lo crede, si riaffaccia l’idea unificante assoluta, quella imperiale, ma a quel punto accade regolarmente che l’equilibrio di potenza, minacciato, reagisce spingendo all’alleanza tutti o quasi gli altri Stati. Ne deriva che l’Impero, in Europa, smette di fatto di esistere.
Con le parole dell’autore:
“Non che i monarchi europei fossero più insensibili alle glorie della conquista dei loro omologhi in altre civiltà o più devoti in astratto a un ideale di diversità. Piuttosto, non avevano la forza di imporre la loro volontà a tutti gli altri in modo definitivo”.
Tanto che, a lungo andare, “l’Europa trasse profitto dalla frammentazione e fece tesoro delle proprie divisioni. Differenti dinastie e nazioni in competizione erano percepite non come una forma di «caos» da eliminare ma, nella visione idealizzata degli uomini di Stato europei – a volte consapevole, a volte no – come un intricato meccanismo tendente a un equilibrio capace di tutelare gli interessi, l’integrità e l’autonomia di ciascun popolo”.
Siamo al cuore di una teoria alternativa della sovranità.
Ebbene, se è vero allora che “per oltre mille anni, nella corrente principale della moderna scienza politica europea l’ordine è derivato dall’equilibrio, e l’identità dalla resistenza all’autorità”, è vero pure che nel secolo XX qualcosa di nuovo ha turbato il secolare oscillare del pendolo. Le due Guerre Mondiali, lette da un certo filone storiografico come un solo grande conflitto in due puntate, hanno sancito l’irrilevanza dell’equilibrio europeo o, meglio, la sua rilevanza strumentale a un nuovo potere imperiale, per la prima volta esterno al continente. E se consideriamo la configurazione di Stati dell’Unione europea odierna, i centri imperiali esterni furono addirittura due, perché per alcuni decenni si impose in Europa orientale quello sovietico.
Kissinger si interroga naturalmente sulla natura del potere statunitense e riconosce che si tratta di forma imperiale, sebbene retoricamente dipinta in termini democratici, ma è sul rapporto tra il nuovo impero e l’Europa che propone le osservazioni più interessanti.
Infatti, “con il tempo, gli Stati Uniti sarebbero diventati l’indispensabile difensore dell’ordine concepito dall’Europa. Tuttavia, pur mentre essi davano il proprio contributo all’impresa, permaneva un’ambiguità, perché la concezione americana si basava non sull’accettazione del sistema europeo dell’equilibrio dei poteri ma sul conseguimento della pace mediante la diffusione di principi democratici”.
L’ambiguità proposta da Kissinger è presto risolta se applichiamo alla questione l’imperativo strategico americano. Tale imperativo, imperiale in forma pura, è sempre stato di impedire che nell’imponente blocco di terre euroasiatico si formasse un grumo di potenza alternativo a quello dispiegato nella globalizzazione americana, e si può riassumere con insuperata efficacia attraverso il motto espresso dal primo segretario generale Nato, l’inglese Lord Hastings Ismay, secondo cui quell’organizzazione era stata concepita per “tenere gli americani dentro, i sovietici fuori e i tedeschi sotto”.
Ecco allora che diviene agevole inquadrare lo stesso progetto di integrazione europea, contenitore inerte di quell’equilibrio di potenza che agli americani serve, sì, ma solo in Europa e in funzione eminentemente anti-tedesca e anti-russa, all’interno cioè di un disegno imperiale globale, oggi in profonda crisi, ma ancora condizionante in piena regola le traiettorie degli Stati nazionali del Vecchio Continente.
Kissinger è più prudente, per ovvie ragioni, ma non manca di toccare il punto quando scrive che “L’Europa ha deciso di discostarsi dal sistema di Stati da lei progettato e di trascenderlo tramite un’idea di sovranità condivisa. E paradossalmente, pur avendo inventato il concetto di equilibrio di potere, ha coscientemente e drasticamente limitato l’elemento del potere nelle sue nuove istituzioni. D’altra parte, avendo ridimensionato le proprie capacità militari, ha scarse possibilità di reagire quando le norme internazionali vengono trasgredite”.
Cos’altro è una sovranità condivisa senza potere e forza militare, se non un equilibrio di potere tra Stati semi-sovrani che rispondono in ultima istanza a logiche altrui?
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